Dario Di Vico, Corriere della Sera 4/7/2013, 4 luglio 2013
PSICOLOGI CONTRO LA CRISI
La Grande Crisi ha rimesso la psicologia al centro dell’attenzione pubblica. E nella recente campagna elettorale per il Campidoglio il candidato (vincente) Ignazio Marino ha proposto di far diventare gli studi del medico di base dei veri e propri centri di salute territoriale con la presenza dello psicologo, almeno una volta a settimana. Qualche mese prima aveva destato interesse l’iniziativa di associazioni di base del Varesotto e di alcune Camere di commercio del Veneto che avevano stipulato convenzioni con psicologi per assistere gli imprenditori depressi a causa della recessione e dell’inevitabilità di licenziare i propri collaboratori. Nei giorni scorsi, poi, è uscito un libro ("Il tempo senza lavoro", edizioni Feltrinelli) in cui lo psicologo e giornalista Massimo Cirri raccoglie i racconti dei lavoratori dell’Agile ex Eutelia che messi fuori dall’azienda cominciano a star male e si vedono «senza prospettive più in là del divano di casa». All’interesse esterno corrisponde un fascino ancora irresistibile di questa professione.
Nel 2016 gli psicologi arriveranno a quota 100 mila e già oggi in Italia c’è all’incirca uno psicologo ogni 740 abitanti, essendo ora 90mila. Anche le facoltà universitarie conservano lo stesso appeal con 50 mila studenti iscritti. Le donne sono in stragrande maggioranza: 8 psicologi su 10.
Ma tanto interesse e un appeal intatto riusciranno a passare attraverso la cruna dell’ago rappresentata dalle politiche di contenimento della spesa pubblica? Il paradosso sta tutto qui: degli psicologi c’è più bisogno di ieri ma ci sono molti meno soldi per pagarli. Così la professione sta andando verso una sorta di privatizzazione che premia gli psicoterapeuti affermati però obbliga al semi-volontariato i giovani. Domanda: ci sono altre strade da battere, magari quella proposta dal neo-sindaco di Roma? Secondo Claudio Brosio, preside di psicologia alla Cattolica di Milano e coordinatore di un’indagine sulla professione, «possiamo riconvertirci, persino diventare più liquidi ma dobbiamo chiederci cosa vogliamo fare della salute pubblica».
E comunque non è detto che più psicologi voglia dire più spesa pubblica. Se il medico di base fosse affiancato da uno psicologo, argomenta Brosio, la spesa sanitaria diminuirebbe perché si darebbe risposta alla domanda di salute non solo prescrivendo pillole e Tac. Anche Giuliano Castigliego, che cura insieme ad altri professionisti il blog dell’associazione Uma.na. mente, sostiene l’idea di affiancare il medico di base. Ricorda come esista già una proposta di legge in materia del febbraio 2010 per la prevenzione «della depressione, dello stress e di altre moderne patologie che portano tra l’altro ai divorzi/omicidi, alla devianza giovanile». Più in generale Castigliego parla di formulare l’idea di consulenza psicologica e magari incentivare la stipula di assicurazioni private supplementari per le cure. «Non si tratta - argomenta - di sancire nessuna rivincita della psicologia sulla medicina o altro. Non è una partita di calcio, ma una collaborazione tra saperi e scienze diverse e complementari, il tutto nell’interesse del paziente». Se queste paiono delle buone idee l’inerzia degli eventi sta però portando in direzione opposta. Secondo un’ampia indagine che l’Ordine degli psicologi ha effettuato nei mesi scorsi su 1.500 casi di professionisti di tutte le età e spalmati sul territorio nazionale, per un giovane psicologo passano in media due anni e mezzo tra la laurea e l’ingresso nel mercato del lavoro con la qualifica che gli viene dal titolo universitario. Il tempo di lavoro medio di un professionista è sceso di 5 ore la settimana, anche la retribuzione generale che si situa attorno ai 1.300 euro mensili risulta in calo rispetto a qualche anno fa (2008). Un fenomeno analogo è segnalato per i giovani psicologi rispetto ai coetanei di altre professioni, c’è un divario di introiti valutabile in 400 euro. Secondo Tiziana Metitieri, neuropsicologa all’ospedale Meyer di Firenze, quasi la metà degli iscritti all’Ordine non svolge di fatto la professione di psicologo e comunque quelli che lavorano negli ospedali o servizi territoriali hanno contratti a tempo come assegni di ricerca, borse di studio, partita Iva. «E mentre la formazione accademica è eccellente quella post-laurea privata è incontrollata. Ci sono tante scuole private che ad alti costi non garantiscono un’altrettanta alta formazione ma continuano ad avere iscritti. Questo è grave perché senza una formazione qualificata e continua non si hanno percorsi di diagnosi e cura metodologicamente fondati».
Come si può quadrare allora il cerchio tra una società che ha bisogno di ascolto e un mercato incapace di accogliere quest’esigenza? Per Massimo Cirri si devono sperimentare formule nuove. I gruppi di auto-aiuto, ad esempio, che partiti dal modello degli alcolisti sono diventati nell’esperienza del Trentino Alto Adige «una formidabile macchina sociale» che crea condivisione, scambio di informazioni ed evita le risposte esclusivamente farmacologiche. «La psicologia interviene per evitare che alla sofferenza si aggiunga la solitudine». Da qui la tendenza di molti giovani professionisti ad aprire studi in forma di cooperativa e a stipulare convenzioni con gli enti locali a prezzi calmierati, come è in cantiere a Milano. Ma non c’è il rischio che per le nuove leve della professione la figura dello psicologo finisca per assomigliare troppo a quella del volontario? «Onestamente il pericolo c’è», ammette Cirri.