VARIE 3/7/2013, 3 luglio 2013
APPUNTI PER GAZZETTA - ARRESTATO MORSI. I MILITARI HANNO FATTO IL GOLPE
REPUBBLICA.IT
Le forze di sicurezza hanno imposto il divieto di espatrio al presidente che dopo aver rifiutato di dimettersi ha lanciato la proposta di un governo di coalizione. L’esercito in marcia, schierato davanti a presidenza. Il ministro della Difesa: "Militari pronti a morire per il popolo"
IL CAIRO - E’ iniziato. Alle 18, circa un’ora dopo lo scadere dell’ultimatum imposto dai militari il consigliere della sicurezza nazionale del presidente egiziano Mohammed Morsi ha confermato: "Il golpe militare è cominciato". Centinaia di soldati egiziani e blindati stanno sfilando nella strada principale davanti al palazzo presidenziale.
DIRETTA TV
Il presidente è stato posto agli arresti domiciliari dai militari nella sede della guardia repubblicana al Cairo. Lo ha annunciato con un flash in sovraimpressione la tv indipendente el Hayat ma la notizia al momento non trova conferme ufficiali. Le forze di sicurezza egiziane gli hanno comunque imposto il divieto di espatrio. Oltre Morsi non potranno lasciare il Paese il leader della Fratellanza Mohammed Badie e il suo vice Khairat al-Shater. L’azione sarebbe stata attuata in ottemperanza di un ordine di arresto nell’organizzazione di una fuga dalla prigione del 2011.
È il giorno più importante per l’Egitto del post-Mubarak. L’ultimatum dei militari, che inizialmente doveva scadere alle 16.30, si è protratto fino alle sei. Poco prima dello scadere delle 48 ore impartite l’altroieri ai partiti politici dalle Forze Armate egiziane, il presidente egiziano ha lanciato la proposta di un governo di coalizione. La sua soluzione.
Piazza Tahrir è stracolma. In migliaia hanno atteso l’ora X dell’ultimatum davanti ai due palazzi presidenziali di Ittahadeya ed el Kobba. Migliaia di persone anche davanti alla moschea di Rabaa el Adaweya a sostegno del presidente. Manifestazioni anti Morsi sono in corso in varie località egiziane. Le truppe si sono schierate per separare i manifestanti che sostengono il presidente e gli oppositori. Secondo al Ahram i militari sono schierati alla moschea di Rabaa Al-Adawiya, e davanti al palazzo presidenziale di Ittihadiya.
Carri armati sono stati schierati fuori dalla sede della tv statale egiziana dal primo pomeriggio. Il personale, evacuato. L’esercito ha preso il controllo della sede della televisione al Cairo. Elicotteri militari hanno cominciato a sorvolare piazza Tahrir. Carri armati hanno iniziato a muoversi nelle strade.
Mohammed Morsi però non si arrende: "E’ meglio morire" piuttosto che "essere condannato dalla storia e dalle generazioni future". Il suo messaggio agli egiziani è di resistere al golpe in modo pacifico, riporta al Arabiya. Il consigliere ha spiegato che Morsi continua a lavorare nella sede della Guardia repubblicana al Cairo. Non è chiaro se abbia la possibilità di muoversi o meno.
Per il giornale Al Ahram controllato dal governo egiziano e molto autorevole: "Oggi o Morsi si dimette o sarà deposto dall’esercito".
Il rifiuto di Morsi. Dopo il mesaggio di ieri sera in cui il presidente si è rivolto alla nazione dalla tv di Stato, per ribadire il suo "no" alla richiesta di dimissioni in quanto "primo leader egiziano eletto democraticamente" sulla base di "elezioni libere e rappresentative della volontà popolare", oggi a pochi minuti dalla scadenza dell’ultimatum dei militari, la presidenza egiziana ha postato sulla sua pagina Facebook un comunicato nel quale ribadisce che "violare la legittimità costituzionale minaccia la pratica della democrazia" e ha aperto a un governo di coalizione per arrivare alle prossime legislative e alla formazione di un commissione indipendente per la modifica della costituzione da sottoporre al nuovo parlamento.
I Fratelli Musulmani. Essam el-Erian, esponente di rango del Partito Libertà e Giustizia, braccio politico dei Fratelli Musulmani, movimento islamico di cui il presidente Morsi è espressione, ha fatto sapere che "la gente non se ne starà tranquilla di fronte a una ribellione dei militari. La libertà è più preziosa della vita".
La risposta dei militari. "Il capo delle forze armate ha affermato oggi che per i militari è più onorevole morire piuttosto che vedere il popolo egiziano terrorizzato e minacciato. Giuriamo davanti a Dio che sacrificheremo il nostro sangue per l’Egitto e la sua gente, contro tutti i gruppi terroristi e estremisti".
Il partito ultraconservatore Gamaa Islamiya. Diversa la posizione del partito ultraconservatore Gamaa Islamiya, un tempo gruppo armato, uno dei pochi alleati rimasti al presidente. Gamaa Islamiya ha esortato Morsi a promuovere un referendum sulle elezioni presidenziali anticipate, evitando così un bagno di sangue con un "pacifico, costituzionale trasferimento (di potere)", ha spiegato uno degli esponenti più anziani del gruppo, Tarek al-Zumar.
Vertice di emergenza con comandanti militari. A poche ore dallo scadere dell’ultimatum, il ministro el Sissi si è riunito in un vertice d’emergenza con i comandanti militari. Durante la riunione sono stati discussi i dettagli della road map messa a punto dai militari per delineare il percorso del dopo-Morsi, di cui il quotidiano Al Ahram ha oggi rivelato alcuni passaggi: governo di transizione guidato da un militare, consiglio presidenziale di tre membri guidato dal capo della Corte suprema, nuova Costituzione da stilare nei 9-12 mesi di interim prima di nuove elezioni.
La road map. "La road map per far uscire l’Egitto dalla crisi deve basarsi sulla legittimità" ha fatto sapere con un comunicato la presidenza egiziana, citato dalla tv ’al Arabiya. "Lo scenario che qualcuno sta imponendo è rifiutato dal popolo", e ancora, in merito all’intervento dell’esercito la presidenza precisa che "è sbagliato schierarsi una delle due parti in causa".
L’ultimatum. Fonti dell’esercito hanno però negato simili anticipazioni di stampa, spiegando che il prossimo passo sarà chiedere a "esponenti politici, sociali ed economici" la loro visione di una road map. Secondo fonti dell’opposizione, la figura che sintetizza la coalizione anti-Morsi, Mohamed El Baradei, è stato a colloquio con il generale Abdel Fattah el Sissi. "El Baradei - riferisce una fonte - ha chiesto all’esercito di proteggere il popolo".
L’opposizione scende in piazza. "L’ora della vittoria è venuta", ha detto in conferenza stampa Mahmud Badr, portavoce del movimento Tamarod, "diciamo al popolo egiziano di scendere oggi in tutte le strade e piazze e marceremo sulla sede della guardia repubblicana per chiedere l’arresto di Morsi". "L’esercito non farà un colpo di Stato militare", ha aggiunto Badr, "è un golpe popolare contro un tiranno".
Escalation inevitabile. Domenica scorsa erano scese in piazza in tutto il Paese tredici milioni di persone. E solo ieri notte un altro milione era in piazza Tahrir, con scontri e 23 le vittime, la maggior parte in un singolo episodio all’esterno dell’università del Cairo di Giza. Ma il bilancio totale delle vittime degli scontri da domenica scorsa arriva a quota 39.
Egitto, scontri nella notte: 16 morti, 200 feriti
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Ashton: "Basta scontri". Un appello alla moderazione e al dialogo è stato lanciato da Catherine Ashton, alto rappresentante Ue per la politica estera. "Lo scontro non può essere una soluzione - ha dichiarato la diplomatica -. La soluzione all’impasse attuale non può che essere politica e non può che fondarsi su un dialogo sostanziale ed esaustivo".
Catherine Ashton ha inoltre denunciato gli abusi sessuali compiuti contro alcune manifestanti. Secondo Human Rights Watch, negli ultimi giorni sono state un centinaio le aggressioni a sfondo sessuale nella sola piazza Tahrir e nei suoi dintorni a margine delle manifestazioni anti-Morsi. "Chiedo a tutte le parti di dare prova di moderazione e ribadisco il mio appello affinché questo movimento di contestazione si svolga pacificamente e in maniera non violenta", ha chiesto la Ashton.
La più grande manifestazione della storia. Le manifestazioni anti-Morsi iniziate domenica in Egitto, con 14 milioni di partecipanti nei vari luoghi del Paese, hanno raggiunto il più alto numero di persone mai coinvolte in un evento politico "nella storia dell’umanità ". La frase, attribuita alla Bbc, è stata rilanciata in un tweet dall’imprenditore ed uomo politico egiziano Naguib Sawiris, fondatore del partito Al Masreyeen Al Ahrrar. E da allora sta attraversando la Rete. Tuttavia, secondo il corrispondente dell’Irish Times, si tratta di una stima attendibile secondo varie fonti. Le forze armate hanno indicato la cifra di 14 milioni per le strade, un numero giudicato probabile dall’analista di Al Ahram Online Dina Samak, per la quale molta gente è scesa in piazza per la prima volta, anche in piccole manifestazioni lontane da piazza Tahrir.
Centinaia di stupri in piazza. Quasi un centinaio di aggressioni sessuali si sono contate al Cairo, in piazza Tahrir e dintorni, durante questi ultimi giorni. Lo denuncia l’Ong americana per i Diritti Human Rights Watch (HRW). Almeno 91 i casi accertati dal 28 giugno. Gruppi di giovani uomini "identificano una donna, la circondano e la separano dai suoi amici" prima di aggredirla, per poi strapparle i vestiti o violentarla. In alcuni casi, la vittima viene trascinata via per essere aggredita in un altro luogo. HRW riferisce di donne "picchiate con catene di metallo, bastoni, sedie, e anche attaccate con coltelli."
L’organizzazione, nel rapporto deplora "la negligenza del governo" nell’affrontare il problema che si tradurrà in una cultura dell’"impunità". In molti casi questi attacchi erano mirati a colpire giornaliste straniere.
LA VIOLENZA SULLE DONNE
IL CAIRO - Ormai si contano a centinaia le aggressioni sessuali contro le donne che partecipano alle proteste anti-governative in piazza Tahrir, per chiedere la cacciata del presidente Mohammed Morsi. Per arginare il fenomeno, che dura ormai da settimane, è nato un gruppo anti-violenze che opera nella piazza, divenuta ormai l’epicentro delle manifestazioni. Per molte donne s’è reso necessario un intervento chirurgico dopo essere state violentate, molte di loro addirittura con oggetti appuntiti. In altri casi, le donne sono state picchiate con catene, bastoni e altri corpi contundenti o ferite con lame di coltelli.
Le molestie sono frequenti in Egitto. Le molestie sessuali sono da tempo abbastanza frequenti in Egitto, indipendentemente dall’attuale situazione di tensione sociale, ma la sua sempre maggiore frequenza e violenza stanno letteralmente scuotendo il movimento di protesta. Una ragazza di 22 anni, olandese, è stata aggredita da più uomini, che sembravano una folla attorno a lei, non appena ha preso il via la protesta di venerdì scorso, hanno riferito i funzionari di polizia, i quali hanno aggiunto che la giovane era lì per conto di una organizzazione egiziana per scattare delle foto. autorità del governo egiziano hanno ha detto, nel frattempo, che l’attacco è annoverato tra i sette casi segnalati dai gruppi per i diritti umani in piazza Tahrir nel corso della fine della scorsa settimana.
Aggressioni fuori controllo. Si tratta di atti criminali - hanno fatto sapere le stesse autorità di governo, attraverso le agenzie - "che non sembrano essere politicamente motivati"?? e comunque sarebbero fuori controllo. Molti casi di stupro sono stati giudicati particolarmente gravi, al punto da richiedere un trattamento psicologico o medico. Un reporter della Associated Express, domenica scorsa, ha riferito di aver visto un gruppo di uomini che agitavano bastoni di legno, circondando una donna egiziana. Nabil Mitry, un uomo di 35 anni, tra i manifestanti di piazza Tahrir, ha riferito alle agenzie che gli assalitori urlavano insulti ad un uomo che cerca di aiutare la donna, aggiungendo l’accusa della mancanza di forze di polizia nella piazza, che comunque in gran parte si tiene lontana per evitare scontri con i manifestanti. "Il problema è proprio il fatto che non c’è la polizia - ha detto l’uomo - quindi non c’è sicurezza".
E c’è chi incolpa le donne. Un portavoce dei Fratelli Musulmani di Morsi, Gehad al-Haddad, ha esortato i manifestanti - in un comunicato pubblicato sul suo account Twitter Anti-sessuale - a sostenere le iniziative dei gruppi sorti a protezione delle donne che manifestano. Gli attivisti hanno offerto corsi di autodifesa per le donne. Siti di social network sono stati avviati in cui le donne possono "nominare e svergognare" i loro molestatori. Ma ci sono anche i chierici religiosi conservatori e alcuni funzionari di governo che incolpano le donne, dicendo che invitano gli uomini alle molestie e agli abusi sessuali.
La verità necessaria. La pace e la riconciliazione dei popoli dilaniati dalle guerre passano per la verità, particolarmente sulla drammatica questione delle violenze sessuali come strumento bellico o nelle situazioni post-conflitto contro donne, ma anche bambini ed uomini: lo ha detto la presidente della Camera Laura Boldrini, aprendo il convegno La verità necessaria - I processi di riconciliazione nei paesi dei paesi arabi nella Sala del mappamondo a Montecitorio. "Ricordare è un esercizio molto doloroso - ha affermato Boldrini - Non tutte le vittime ce la fanno.... Ma i racconti possono contribuire a incamminarsi verso il futuro, per gli individui ma anche per le comunità e le società. Solo raccontando la verità possono tornare pace e riconciliazione".
La proposte in discussione. Boldrini ha ricordato la proposta in discussione in Libia per equiparare le vittime di violenze sessuali durante la guerra e durante il regime di Gheddafi alle vittime di guerra, con diritto a compensazioni ed assistenza. Il convegno, organizzato in collaborazione con la Ara Pacis Intiative e l’Observatory for gender in crisis, accoglie vittime, testimoni delle violenze, ma anche esperti per rompere il silenzio e l’omertà che circondano questi crimini e garantiscono impunità ai colpevoli. La prima drammatica testimonianza è stata quella di un padre che ha portato via il figlio da una prigione libica dove è stato ferocemente torturato.
Il racconto di un’aggredita. Il volto e il corpo coperti dal niqab, l’abito tradizionale islamico che lascia solo gli occhi scoperti, portato solo per mantenere l’anonimato, garantito anche dalle luci soffuse e dalle telecamere spente. Poi il racconto con voce tremante di giorni di stupri, sevizie, scosse elettriche che le hanno fatto prima di perdere il bimbo che aspettava, poi l’hanno resa sterile. Il drammatico racconto è avvenuto alla Camera dei Deputati, nel corso del convegno La verità necessaria - I processi di riconciliazione delle primavere arabe, che ha affrontato il tema dello stupro come arma da guerra e ancora praticata nei paesi post-conflitto, anche in quelli della ormai incerta Primavera araba. La donna ha spiegato che l’arresto è avvenuto dopo che lei ed alcune amiche erano state riprese da Al Jazeera mentre invitavano le altre studentesse a scendere in piazza contro Gheddafi. Poche ore dopo, iniziava l’incubo. "Mi hanno arrestata, e tenuta nuda per tutto il tempo. Gli stupri erano continui, poi le scariche elettriche. Chiedevo che chiudessero la porta almeno quando dormivo. Le mie amiche, non le ho più viste. E la mia famiglia che mi dice, se non ti fossi messa a fare i proclami oggi non ti sarebbe successo nulla", ha raccontato.
Human Right Watch. "Gli attacchi sessuali sfrenati durante le proteste di piazza Tahrir evidenziano il fallimento del governo e di tutti i partiti politici nell’affrontare la violenza che le donne in Egitto sono costrette a subire quotidianamente negli spazi pubblici", ha detto Joe Stork, vice direttore per il Medio Oriente di Human Rights Watch. "Questi sono crimini gravissimi che tentano di dissuadere le donne dal partecipare alla vita pubblica in Egitto". Human Rights Watch ha documentato a lungo il problema della violenza sessuale nelle strade del Cairo e, in particolare, le proteste in piazza Tahrir.
Amnesty Internationale. Aver consentito agli autori di molestie sessuali e aggressioni di sfuggire alla giustizia ha alimentato la violenza scatenatasi contro le donne al Cairo, negli ultimi mesi. È questa la responsabilità che Amnesty International addossa alle autorità egiziane, in un nuovo briefing basato sulle testimonianze delle sopravvissute alla violenza sessuale e di attivisti e attiviste. Amnesty International denuncia l’identica modalità con cui si svolgono le aggressioni di massa: un gruppo di uomini, che si fa rapidamente sempre più grande, circonda una donna isolata o la separa dai suoi amici. La donna viene trascinata all’interno del circolo di uomini, che violano il suo corpo con le mani o con armi da taglio mentre cercano di denudarla. "Questi attacchi ci dicono quanto sia indispensabile, ora, che il presidente Morsi adotti provvedimenti drastici per porre fine a una cultura basata sull’impunità e sulla discriminazione di genere", ha detto Hassiba Hadj Sahraoui, vicedirettrice del Programma Medio Oriente e Africa del Nord di Amnesty International.
ALBERTO STABILE DA BEIRUT
BEIRUT – Se il presidente Mohammed Morsi, esponente di non grande prestigio della Fratellanza Musulmana, sulla cui candidatura gli stessi confratelli molto ironizzarono a suo tempo definendolo “la ruota di scorta”, si dice pronto a sacrificare la sua vita per difendere la legittimità del suo ruolo, il generale Abdel Fattah al Sisi, comandante supremo delle Forze Armate egiziane, laureato del War College degli Stati Uniti nel 2006 ed ex capo dell’Intelligence militare, non è meno determinato a spargere il suo sangue per proteggere il popolo egiziano da “terroristi, radicali e stupidi”.
Siamo dunque, o ameno così sembrerebbe, alla resa dei conti tra i due poteri forti della società egiziana, gli islamisti e i militari, le cui cruenti schermaglie hanno segnato gli ultimi 40 anni di storia egiziana, dall’avvento di Anwar Sadat, succeduto a Nasser nel 1970 e ucciso da un complotto islamista, il 6 Ottobre del 1981, in poi.
Anche se la retorica del sacrificio impazza, le ultime affermazioni del Consiglio Supremo delle Forze Armate sembrano piuttosto allungare i tempi del duello, oltre l’ultimatum di 48 ore (in scadenza oggi, mercoledì 3 Luglio, nel pomeriggio) imposto a Morsi. Poiché i giornali egiziani, e sopratutto Al Haram, avevano anticipato con dovizia di particolari quale sarebbe stato il percorso (road map) che avrebbero seguito i militari nel caso in cui il loro diktat sarebbe stato disatteso (dimissioni o destituzione di Morsi, creazione di un Alto Comitato guidato dal Presidente della Consulta, trasferimento dell’esecutivo nelle mani di un generale e nuove elezioni) fonti dell’esercito hanno precisato che nessuna road map è già stata confezionata per uscire dallo stallo. La prossima mossa, hanno fatto sapere i militari, sarà di convocare personalità e rappresentanti del mondo politico, economico e della società civile per discutere sul da farsi. Fossi in Morsi non mi fiderei molto. Tuttavia sembra un tentativo di attenuare la tensione.
Che invece monta. Amici egiziani mi dicono che la voce più ricorrente nella mattinata torrida del Cairo parlava di un Morsi in fuga verso il Sudan. Molto, molto improbabile, anche se il rais deve essere rimasto sbigottito nel vedere il suo governo letteralmente sbriciolarsi sotto l’onda delle dimissioni.
Molte indiscrezioni circolano anche sull’improvvisa conversione a U dell’esercito che, nell’arco di una anno, ha prima concesso e poi ritirato la sua fiducia al presidente eletto. Ora, una fonte qualificata, ha detto all’agenzia Reuter che a spingere i generali a mettere in mora il rais non è stato tanto il tentativo di stravolgere a suo favore l’equilibrio dei poteri, né il disastro inflitto all’economia del paese dall’inefficienza del suo governo, espressione della maggioranza guidata dai Fratelli Musulmani, un disastro che, secondo gli ultimi sondaggi, ha spinto il 63 per cento degli egiziani ad affermare che in Egitto, con l’ascesa al potere di Morsi le cose sono enormemente peggiorate.
Anche se tutto questo ha senza dubbio influito nel far montare la protesta popolare fino alle dimensioni che abbiamo viste domenica scorsa a Piazza Tahir e nelle altre piazze egiziane, a preoccupare i vertici militari sarebbero stati gli effetti devastanti che la crisi siriana sta provocando nel mondo arabo e islamico. Proprio così.
Per quanto radicata nel contesto della rivolta popolare contro il regime di Assad, la guerra civile siriana, anche a causa dell’intervento nel conflitto di forze e paesi esterni alla Siria, come gli Hezbollah e l’Iran a sostegno di Assad, mentre l’Arabia Saudita, il Qatar e gli emirati del Golfo si sono schierati attivamente a favore dei ribelli, ha assunto sempre di più i connotati di uno scontro settario a sfondo confessionale, tra le due grandi fedi dell’Islam, gli sciiti da una parte e i sunniti dall’altra. Un conflitto che, benché ammantato di ideologia ha una sostanza politica nel tentativo da pare dei paesi arabi di religione sunnita (la stragrande maggioranza), come appunto l’Arabia Saudita, di frenare l’espansionismo dell’Iran, sciita, alleato della Siria e “padre” dell’Hezbollah libanese.
Morsi, secondo, questa ricostruzione, sarebbe rimasto tutt’altro che sordo alle grida di dolore e agli appelli a combattere gli sciiti sollevatisi dalle fila dei sunniti che rappresentano la stragrande maggioranza delle formazioni armate in lotta contro il regime siriano.
Il presidente egiziano, un sunnita alla guida di un paese sunnita, ha dunque voluto dare un segnale della sua adesione alla campagna dei sunniti, partecipando il 15 Giugno, al Cairo, ad una manifestazione a favore della rivolta siriana, accanto a noti esponenti salafiti, la corrente ideologica più radicale nell’ambito della fede sunnita, alcuni dei quali hanno lanciato appelli alla “guerra santa” in Siria mentre altri tacciavano come “infedeli” non soltanto gli sciiti ma anche gli oppositori egiziani di Morsi. Il quale, per non essere al di sotto delle aspettative, ha invocato un intervento militare internazionale contro il regime di Assad.
E questo ai militari egiziani è sembrato troppo. I generali hanno risposto, l’indomani, con un messaggio sintetico e chiaro per chi volesse intendere, dove si sottolineava che il compito principale delle Forze Armate era ed è di difendere i confini della patria. Ma pare che il discorso di Morsi e la sua presenza a quel rally abbiano provocato molto allarme per quel tanto di incoraggiamento che vi si poteva leggere agli islamisti egiziani di intervenire nel mattatoio siriano. Un’esperienza questa, che l’Egitto ha già fatto negli anni 80, quando una generazione di militanti, molti dei quali associati alla Jamaa Islamyah, un’organizzazione tuttora vicina ai Fratelli Musulmani, andarono a combattere in Afghanistan, contro i sovietici e accanto ad Osama Bin Laden. Un medico ed intellettuale appartenente ad una grande famiglia egiziana come Ayman al Zawahiri avrebbe cominciato da lì la carriera jihadista che l’avrebbe portato, dopo la morte di Bin Laden, al vertice di Al Qaeda.
RITRATTO DI MAHMOUD BADR
28 ANNI, GIORNALISTA, 20120 EL BARADEI, POI CONTRO MUBARAK, ADESSO Assieme ad altri quattro ha lanciato tamarrod.
CORRIERE.IT
In Egitto è in corso un colpo di Stato contro il presidente Mohamed Morsi. Elicotteri militari hanno sorvolato piazza Tahrir circa un’ora dopo lo scadere dell’ultimatum imposto dai militari e scaduto intorno alle 17.30 locali, le 16.30 italiane. Le forze di sicurezza egiziane hanno disposto il divieto di espatrio per il presidente del Paese, che si era insediato un anno fa. Stessa sorte per molti leader del partito dei Fratelli musulmani. Morsi inoltre sarebbe stato posto agli arresti domiciliari dai militari nella sede della Guardia repubblicana.
MISTERO SULL’ARRESTO - Ma c’è chi smentisce il fermo: «Il presidente ha lavorato per tutto il giorno nel suo ufficio nella caserma della Guardia repubblicana», ha affermato Yasser Haddara, consigliere per la comunicazione del presidente. Ma ha aggiunto che non si sa ancora se alla fine della giornata Morsi sarà libero di tornare al palazzo presidenziale. D’altro canto il portavoce dei Fratelli Musulmani e consigliere del presidente egiziano ha spiegato alla Cnn di non sapere dove si trovi Morsi. Quello che è certo dunque che la confusione è grande. Decine di blindati si sono schierati all’università del Cairo, dove è in corso una manifestazione in supporto del presidente Morsi.
L’ULTIMATUM E LA TV - L’esercito lunedì aveva chiesto fermamente al leader del Paese di risolvere la situazione entro mercoledì pomeriggio. L’ultimatum era stato respinto. Mercoledì mattina veicoli blindati e carri armati dell’esercito egiziano si erano schierati intorno alla sede della televisione di Stato, la Ertu. Altri tank si trovano alla sede del palazzo presidenziale, e in altri punti strategici della città. Per la seconda volta in due anni, quindi, l’esercito appare intenzionato a scardinare le istituzioni che controllano il Paese. Solo che Morsi è anche il primo presidente eletto democraticamente nella storia dell’Egitto.
NIENTE DIMISSIONI - Pochi minuti prima della deadline la presidenza egiziana aveva diffuso su Facebook un comunicato nel quale ribadisce che «violare la legittimità costituzionale minaccia la pratica della democrazia», apre ad un governo di coalizione per arrivare alle prossime elezioni, e alla formazione di un commissione indipendente per la modifica della Costituzione (rinnovata a dicembre scorso) da sottoporre al nuovo parlamento. Ma che Morsi non si dimette.
L’ESERCITO E L’OPPOSIZIONE - Il comandante generale delle Forze armate egiziane, Abdel Fattah al-Sissi, sta incontrando diverse autorità religiose, nazionali, politiche (tra queste Mohamed el Baradei, leader del Fronte di salvezza nazionale di opposizione egiziana) e della gioventù egiziana e dovrebbe diramare un comunicato a breve. All’incontro non stanno prendendo parte i Fratelli Musulmani.
LA FATWA SALAFITA CONTRO L’OPPOSIZIONE - Sempre mercoledì Mohamed al-Zawahiri, fratello del leader di al-Qaeda Ayman al-Zawahiri, ha emesso una fatwa, una sentenza che autorizza i suoi seguaci a cambattere contro l’opposizione egiziana. «Non abbiate paura, né esitazione - ha spiegato al-Zawahiri, che guida la corrente jihadista salafita, ad al-Masry al-Youm - annunciamo ai nostri fratelli musulmani che alla fine non saremo noi i vinti, ma sarà il contrario». L’esponente islamico egiziano assicura di non volere «caos, disordine e sedizione», ma afferma la necessità di contrastare il «complotto ordito dagli Stati Uniti d’america e i loro agenti». Un altro religioso, Magdy Hussein, ha aggiunto che ogni mossa contro Morsi sarà considerata «un colpo di Stato». La folla, davanti alle moschee, canta «Non riporteremo al potere l’esercito».
LE VITTIME E LE DIMISSIONI - Nell’arco della giornata di martedì si erano registrate sette vittime negli scontri tra difensori e oppositori del presidente, e nell’arco della notte altre 16 persone sono morte. In totale, da domenica, le vittime di questi incidenti sono 39. Intanto, in piazza Tahrir, prosegue per il quarto giorno consecutivo l’adunata oceanica di manifestanti che chiedono le dimissioni di Morsi, e altre manifestazioni analoghe sono in corso davanti ai due palazzi presidenziali di Ittahadeya ed el Kobba, ad Alessandria e in altre città egiziane. I manifestanti pro-Morsi si sono radunati invece a migliaia davanti alla moschea di Rabaa el Adaweya, nella Capitale.
Volontari cercano di separare uomini e donne in piazza Tahrir per evitare molestie sessuali (Ap/Nabil)Volontari cercano di separare uomini e donne in piazza Tahrir per evitare molestie sessuali (Ap/Nabil)
GLI STUPRI - Sul luogo delle proteste, nel frattempo, un centinaio di donne sarebbero state molestate o stuprate. Lo denuncia Human Rights Watch, che in un comunicato riferisce di «almeno 91 manifestanti aggredite sessualmente e in alcuni casi stuprate in piazza Tahrir in un clima di impunità». Domenica sono stati denunciati 46 casi di aggressioni sessuali, 17 lunedì e 23 martedì. Cinque altre aggressioni sessuali sarebbero avvenute venerdì e sono state denunciate da «Nazra for Feminist Studies».
INTERVISTA
PARIGI - Olivier Roy, che effetto le fa vedere piazza Tahrir ancora piena di folla, stavolta contro Morsi e i Fratelli musulmani?
«La prima lezione è il totale fallimento dei Fratelli musulmani, che si sono dimostrati incapaci di governare perché non hanno saputo coinvolgere i tecnocrati e in generale le persone competenti. La seconda è che Morsi non era portatore di alcun progetto di rivoluzione islamista: ha preso il potere ma non ha saputo che farsene. La terza è il ruolo dell’esercito e del vecchio apparato di Mubarak, che è pronto a tornare alleandosi stavolta con piazza Tahrir. Poi c’è un altro insegnamento che va al di là dell’Egitto».
In che cosa consiste questa lezione più ampia?
«Mi pare che ci sia un elemento che accomuna tutti i movimenti di protesta in Europa e nel Mediterraneo, oggi, dalla Grecia alla Spagna all’Egitto alla Turchia: chi scende in piazza contesta, protesta, ma non cerca o non è in grado di prendere il potere. Questi movimenti non hanno leader, né un progetto coerente. I partiti populisti di estrema destra, dal Front National in Francia a Ukip in Gran Bretagna, hanno vocazione a governare. Chi scende in piazza oggi in Egitto, invece, mi ricorda i movimenti Occupy o gli Indignati europei, più vicini all’estrema sinistra. Cultura protestataria ma né rivoluzione né gestione del potere».
La questione dell’Islam quindi non è centrale?
«Direi proprio di no. In piazza Tahrir non si protesta contro un’islamizzazione che non c’è stata. I manifestanti rimproverano ai Fratelli musulmani due cose: l’incompetenza e il nepotismo. La corruzione non ancora, perché non c’è stato il tempo».
Chi sono allora gli oppositori?
«Il problema di quelli che chiamiamo i liberali è che la loro lotta è ambigua: dicono di lottare contro la dittatura di Fratelli musulmani, ma non c’è alcuna dittatura. Poi, dicono di volere la democrazia, ma fanno affidamento sull’esercito. Cercano di farsi rappresentare da El Baradei, non un personaggio credibile. L’opposizione è unita solo dal fatto di detestare Morsi».
Pensa che potrebbe riprodursi uno scenario algerino, con i militari chiamati a fermare l’avanzata islamista?
«In Egitto è probabile che i militari prenderanno il potere, ma ci sono molte differenze con l’Algeria del 1991. Là l’esercito era già al governo, e negò la vittoria a un Fis pronto a islamizzare la società. Ma in Egitto, e in Tunisia, il punto non è più l’Islam. È sbagliato pensare secondo lo schema di militari modernizzatori che salvano i cittadini dall’oscurantismo islamico».
Crede comunque a un prossimo golpe in Egitto?
«Molti segnali lo indicano, il problema è che cosa succederà poi. Esercito e amministrazione sono corrotti. Se il nuovo governo non riuscirà a fare ripartire l’economia, a stabilizzare il Paese, a far tornare i turisti, gli stessi che oggi sono in piazza contro Morsi ci torneranno contro il regime di un neo-Mubarak appoggiato dai militari».
Poche settimane fa si sono riempite anche le strade di Istanbul. Che ruolo gioca l’Islam nelle proteste turche?
«Anche qui, non mi pare centrale. Chi manifesta contro Erdogan manifesta contro la corruzione, più che a favore della laicità. A differenza che in Egitto, in Turchia gli islamici moderati si sono dimostrati governanti efficaci, grazie all’esperienza accumulata per dieci anni nelle amministrazioni locali: hanno una competenza tecnica e burocratica che manca totalmente ai Fratelli musulmani egiziani. Le manifestazioni in Turchia mi ricordano allora il maggio ’68 francese: economia che funziona ma capitalismo senza controllo, speculazione immobiliare e una classe dirigente dai valori molto conservatori quanto a società e famiglia, completamente lontana dalle richieste dei giovani».
Che pensa dell’atteggiamento dell’Occidente? Pensa che alcuni facciano il tifo per i militari come male minore rispetto agli islamisti?
«L’Occidente oggi è in imbarazzo e diviso, anche di fronte a una buona notizia quale quella che le Primavere arabe non sfociano in rivoluzioni islamiche. In Egitto, e in Tunisia, dove gli islamisti hanno preso il potere, non c’è un islamismo rivoluzionario. Il ciclo in stile Iran degli ayatollah, cioè rivoluzione - conquista del potere - islamizzazione della società, è finito».
Lo scriveva già nel suo libro del 1996, «Il fallimento dell’Islam politico». Perché parla di Occidente diviso?
«Perché gli americani se ne dispiacciono, avrebbero preferito vedere anche in Egitto il successo di un islamismo moderato alla turca. Mentre i francesi, ossessionati dall’Islam, hanno il sogno di laicizzare le società musulmane».
Quali sono le sue previsioni per i prossimi mesi?
«Da parte occidentale, spero che non cadremo nella tentazione di dissociare liberalismo e democrazia. La dittatura liberale, che porti stabilità di governo e diritti delle donne, è un vecchio sogno che ha sempre fallito. Lo abbiamo visto con lo Shah in Iran, Ben Alì in Tunisia, Nasser in Egitto. I despoti illuminati non funzionano, e oltretutto alimenterebbero di nuovo un islamismo rivoluzionario».
E in Egitto?
«Temo che l’esercito occuperà sempre più spazio. Interverrà in nome dell’ordine, dell’efficienza promettendo magari il ritorno alle urne, ma una volta preso il potere i militari se lo terranno stretto. Faranno una cosa alla pakistana: partiti conservatori pieni di notabili dell’ancien régime».
STEFANO MONTEFIORI
WWW.SOLE24ORE.IT
La sicurezza egiziana ha proibito al presidente Mohammed Morsi e ad altri importanti esponenti dei Fratelli Musulmani di lasciare il Paese, nel quadro di un’inchiesta su un’evasione dal carcere avvenuta nel 2011: lo hanno reso noto fonti militari.
Il consigliere per la sicurezza nazionale del presidente egiziano Mohamed Morsi denuncia che è in atto un golpe militare. Golpe che, ha aggiunto, non potrà avere successo a meno di un carneficina perché il presidente può contare sulla resistenza del popolo.
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Il presidente egiziano sarebbe stato posto agli arresti domiciliari dai militari nella sede della guardia repubblicana al Cairo. Lo ha annunciato con un flash in sovraimpressione la tv indipendente el Hayat. La notizia, al momento, non trova conferme ufficiali.
Intanto blindati e forze speciali si stanno dispiegando nella zona attorno al palazzo presidenziale di Ittahadeya per impedire che ci siano contatti fra i manifestanti anti Morsi che protestano davanti al palazzo e i pro, che sono davanti alla moschea di Rabaa el Adaweya, che dista qualche chilometro. Lo riferiscono fonti della sicurezza.
Il dipartimento di Stato americano non ha prove che in Egitto sia in corso un colpo di stato militare ma si dice «molto preoccupato» delle tensioni in corso nel Paese nordafricano. Secondo il ministero degli Esteri statunitense, il discorso di Morsi «non contiene proposte sufficienti» per trovare una soluzione. La soluzione migliore, ha concluso il dipartimento guidato da John Kerry, è quella che passa per vie «pacifiche».
L’ora è passata ma dell’ultimatum si sono perse le tracce. I militari ricordano che è necessario dare alla trattativa il tempo necessario, prima di passare all’eventuale azione. La lettura del comunicato finale del comandante in capo delle Forze armate, viene spiegato, "può essere questione di minuti o di ore". Quello che conta, tuttavia, non è quando verrà letto ma quali ne saranno i contenuti: se sarà una soluzione pacifica o un colpo di stato sanguinoso.
È stata una giornata piena di tensione. La calma apparente, il silenzio inusuale per una metropoli normalmente caotica come il Cairo, rivelavano il nervosismo e la paura cresciuta di giorno in giorno, dall’inizio delle manifestazioni. Le notizie confuse, confermate, smentite e confermate di nuovo servivano solo per aumentare l’ansia. L’ultimatum dei militari, prima del quale Morsi e i Fratelli musulmani avrebbero dovuto trovare una via d’uscita politica, in accordo con le opposizioni, era stato fissato per le 16.30. Passata quell’ora, in assenza di fatti nuovi, le Forze armate avrebbero assunto i pieni poteri fino, probabilmente ad arrestare il presidente.
Solo nella tarda mattinata è stato annunciato che il generale Abdel Fattah al-Sisi, il capo di stato maggiore e ministro della Difesa, aveva convocato i partiti in un incontro alla sede del Consiglio supremo delle forze armate. C’erano tutti. Mohamed elBaradei, Nobel per la pace e uno dei leader del principale fronte delle opposizioni, diventato il portavoce del nuovo e magmatico Movimento 30 giugno: il giorno della manifestazione dei 15 milioni di egiziani, domenica scorsa, organizzato dai tamarrud con la partecipazione di tutte le opposizioni. Partecipava Sahadi Khatatmi, il leader di Libertà e giustizia, il partito della fratellanza e del presidente Morsi. C’erano anche i rappresentanti di al-Azhar, le massime autorità del clero sunnita, e il papa copto con i suoi consiglieri.
C’era la volontà di trovare una via d’uscita politica, di cercare un compromesso che soddisfacesse tutti senza umiliare nessuno. Tranne forse Morsi, la cui carriera politica sembra vicina alla fine, comunque vadano le cose. Ma come per non far cadere la pressione sui Fratelli musulmani, un paio d’ore prima della teorica scadenza dell’ultimatum, i militari avevano occupato il palazzo della televisione di Stato, facendo evacuare il personale. E’ da lì che avrebbero letto il loro comunicato finale, annunciando la soluzione politica o la loro "assunzione di responsabilità": che poteva essere definita in vari modi, il più corretto dei quali è golpe.
Poco prima delle 16.30 ancora i militari annunciavano che quella era solo un’ora indicativa. Era la prova che il negoziato continuava e che si sarebbe preso tutto il tempo necessario. Le due opzioni sull’immediato futuro dell’Egitto restano aperte fino all’ultimo: il compromesso politico o il confronto che può portare a una soluzione violenta.
ANALISI DEL SOLE.IT
IL CAIRO - Dal nostro inviato. Si avvicina l’ora della verità, anche se di momenti decisivi l’Egitto ne ha vissuti fin troppi in questi ultimi due anni. Nella notte Mohamed Morsi ha respinto l’ultimatum lanciato dai militari: non si dimette, legittimato alla presidenza dal voto popolare del 2012, confermato dal successivo referendum costituzionale, rafforzato dalla base dei Fratelli musulmani, scesa in strada pronta alla battaglia.
La palla torna nel campo delle Forze armate. In un’ora non meglio precisata a partire dalle 16.30 di oggi scade il loro ultimatum. Il generale Abdel Fatah al-Sisi, capo di stato maggiore e ministro della Difesa, aveva delineato la "road map" che i militari avrebbero seguito nel caso in cui il presidente non "avesse ascoltato la voce del popolo". Decadenza della Costituzione e della presidenza, nuove elezioni parlamentari e presidenziali, nuova commissione costituzionale e nuova carta fondamentale.
L’eventualità peggiore si è concretizzata. E’ il no di Morsi che invece offre il suo calendario politico: la presidenza e la Costituzione (scritta da una commissione composta quasi esclusivamente da islamisti) ci sono già; apertura del dialogo con le opposizioni per organizzare solo nuove elezioni parlamentari. Nessuna concessione ai militari né, soprattutto, ai milioni di oppositori scesi in strada a protestare. A questo punto non resta che l’ennesima ora della verità, oggi pomeriggio.
I Fratelli musulmani, gli oppositori e i militari. Negli slogan, nelle azioni e negli obiettivi enunciati hanno tutti superato la linea di non ritorno: chi fa una concessione perde tutto, come se i margini per un compromesso fossero stati definitivamente consumati. Per avviare la loro mappa politica, i militari la devono imporre con la forza. Fare cioè quello che i Fratelli musulmani già chiamano "colpo di stato".
Il vocabolario è già da guerra civile. Morsi in televisione e la fratellanza nelle strade, parlano di "martirio in nome della rivoluzione". Le opposizioni sono pronte al "sacrifico" pur di non lasciare piazza Tahrir, il totem della rivoluzione. Anche i militari, sul loro sito, ammoniscono di essere pronti a versare il sangue per la difesa della patria che crede nella rivoluzione. Parlano tutti della stessa rivoluzione e dello stesso Paese.
Il primo segnale concreto dello stato di tensione nel quale vive la città, è stato dato ieri notte, subito dopo il discorso di Morsi in televisione. All’Università del Cairo dove stavano svolgendo una manifestazione a favore del presidente, i Fratelli musulmani sono stati attaccati da bande armate. Gli scontri, sporadici, sono continuati nell’immensa area di Giza, fra il centro del Cairo fino alle piramidi. Ci sarebbero stati 23 morti e decine di feriti.
Gli aggressori non sono necessariamente gli oppositori venuti da piazza Tahrir. Molti sono interessati al caos, soprattutto i "feluol" i sostenitori del vecchio regime ancora molto forti nella burocrazia, nella polizia, nei servizi di sicurezza, nelle stesse Forze armate, con un forte consenso nella maggioranza silenziosa egiziana che si tiene lontana dalla piazza. Alle elezioni presidenziali dell’anno scorso il loro candidato, Ahmed Shafiq perse per pochi voti.
E’ solo un assaggio di quello che potrebbe accadere questa sera, allo scadere dell’ultimatum, se i militari cercheranno d’imporlo, se i Fratelli musulmani tenteranno di opporsi e in piazza Tahrir decideranno di votarsi di nuovo al martirio.
L’EFFETTO SULLE QUOTAZIONI DEL PETROLIO
Il precipitare della situazione in Egitto ha riportato il rischio geopolitico al centro dei mercati petroliferi, già in tensione per speculazioni legate allo spread Brent-Wti e per la caduta delle scorte commerciali negli Usa (-10 milioni di barili la settimana scorsa. Il riferimento americano, in particolare, dopo i rialzi di ieri ha accelerato ulteriormente fino a superare 100 dollari al barile. Nella seduta di oggi è arrivato a 102,18 $, il massimo da oltre un anno. In forte progresso anche il Brent che è volato oltre 105 $.
In Egitto è in corso un golpe militare e si è accentuato il timore di ripercussioni sulle rotte di trasporto del greggio. Tra gli operatori già da qualche giorno si era risvegliato il timore di rallentamenti del traffico nel canale di Suez, da cui transitano il 4,5% dell’export petrolifero mondiale e il 14% dei carichi di Gas naturale liquefatto (Gnl).
In febbraio gli uffici della Suez Canal Authority avevano dovuto chiudere a causa delle proteste dei dimostranti, in marzo c’erano state azioni di boicottaggio verso motoscafi della Guardia costiera, mentre lo scorso week-end c’è stato un attacco a colpi di granata a Port Said, dove il canale sfocia nel Mediterraneo. «Chiudere del tutto il canale tuttavia – osservava Barclays Capital in un report diffuso lunedì – sarebbe molto difficile senza il sostegno delle forze armate».
L’ipotesi che questo possa accadere adesso non sembra più un esercizio di fantasia. L’esercito potrebbe infatti avere interesse per interrompere quella che è un’importante fonte di entrate per il Governo.
In passato la chiusura del canale si è già verificata, per 4 mesi nel 1956 durante la Crisi di Suez e per ben 8 anni, dal 1967 al 1975, in seguito alla Guerra dei sei giorni. Il petrolio era riuscito a trovare vie alternative, ma tempi e costi del trasporto – soprattutto per le forniture sovietiche dirette in Asia, costrette a doppiare il Capo di Buona Speranza – erano lievitati enormemente. Lo stesso rischia di accadere oggi, anche se dal 1977 esiste anche una pipeline che consente di bypassare il canale di Suez: la Sumed, con una capacità di trasporto di 2,5 mbg oggi non pienamente utilizzata.
Tutto sommato, all’orizzonte non sembra esserci il rischio di serie interruzioni delle forniture di greggio. Proprio in questi giorni, comunque, anche la Libia sta tornando a preoccupare: proteste scoppiate in diversi impianti avrebbero ridotto l’output a 1,16 mbg secondo fonti Reuters, contro gli 1,3 mbg di qualche giorno fa (e una normale produzione di 1,6 mbg).
Sui mercati dei futures, inoltre, sono in corso intense speculazioni relative allo spread Brent-Wti. Con lo sviluppo di nuove pipeline e capacità di trasporto ferroviario in uscita da Cushing, punto di consegna del Wti, e con il potenziamento della raffineria Bp di Whiting (Indiana), ora in grado di assorbire più greggio dal Canada, lo spread è sceso per la prima volta da due anni e mezzo sotto 5 $ e Goldman Sachs ha dichiarato conclusa la sua "scommessa" sul riavvicinamento dei due riferimenti di prezzo.