Notizie tratte da: Giuseppe Salvaggiulo # Il Peggiore. Ascesa e caduta di Massimo D’Alema # Chiarelettere Milano 2013., 3 luglio 2013
Notizie tratte da: Giuseppe Salvaggiulo, Il Peggiore. Ascesa e caduta di Massimo D’Alema, Chiarelettere Milano 2013
Notizie tratte da: Giuseppe Salvaggiulo, Il Peggiore. Ascesa e caduta di Massimo D’Alema, Chiarelettere Milano 2013.
I DALEMIANI -
«Questo fatto dei dalemiani mi ha sempre dato fastidio. Io non ho mai voluto fare una corrente» (Massimo D’Alema).
Peppino Caldarola: «Come ogni religione, il dalemismo è un culto con le sue teorie, i suoi riti, i suoi discepoli, i suoi apostoli e le sue complesse liturgie, attraverso le quali i fedeli tentano di esprimere il proprio personalissimo rapporto con la loro divinità».
Lo staff di D’Alema si rivelò nel 1999 con un bigliettino d’auguri firmato, appunto, “lo staff”. «In quei giorni almeno tre dei fotografi più à la page della politica italiana – Roberto Koch, Augusto Casasoli, Antonio Scattolon – iniziarono a portare sulle scrivanie delle redazioni delle foto posate, informali, curiose. Solitamente in mezzo c’era D’Alema: intorno, in posa conviviale, a metà fra un ipotetico brain storming e il cazzeggio, c’erano loro: i Lothar, in omaggio al Lothar di Mandrake, perché tutti rasati a zero» (Luca Telese, il Fatto Quotidiano 31 dicembre 2009).
L’immagine dei Lothar, utilizzata per la prima volta da Maria Laura Rodotà sulla Stampa.
Claudio Velardi. Napoletano di famiglia antifascista, già dirigente della Fgci, del Pci (segretario regionale in Basilicata dal 1986 al ’90), ora è imprenditore, lobbista, consulente per campagne di comunicazione. Con D’Alema è stato prima capo ufficio stampa tra il 1992 e il 1994, poi è passato a Palazzo Chigi a tessere rapporti riservati e qualificati con leader politici e potenti. Nel Pds non piaceva molto. Ricorda Mussi: «Un vero uomo di potere. D’Alema lo aveva chiamato per una certa sua spregiudicatezza di vedute. Una volta mi lamentai con D’Alema perché Velardi trafficava, promuoveva campagne contro i nostri dirigenti. Lui mi disse: “Eh sì, è corsaro, un po’ pirata, ma anche la regina Elisabetta aveva il suo sir Drake”. Io gli risposi: “Secondo me Velardi non è sir Drake, ma di certo tu non sei la regina Elisabetta”». Con D’Alema ha interrotto i rapporti anni fa. L’11 ottobre 2012 ha detto a Fabrizio D’Esposito del Fatto Quotidiano: «D’Alema non ha più nulla di politico, lo dico con affetto antico che sconfina nella tenerezza e nella pena. Ha imboccato una deriva triste e biliosa. Ormai siamo nella psicologia. Non è in pace con se stesso».
Fabrizio Rondolino. Torinese Di buona famiglia, laureato in filosofia teoretica, giornalista e scrittore, dirigente della Fgci ma non del Pci. All’Unità, con D’Alema direttore, era «resocontista ufficiale del segretario del partito» Occhetto, tanto da essere soprannominato «aedo occhettiano». D’Alema, che si annoiava terribilmente a fare il direttore, passava le giornate al suo computer a giocare ai videogiochi (Tetris e un altro di guerra). Se ne appassionava a tal punto che talvolta Rondolino, rientrato in redazione, doveva attendere la conclusione della partita per poter cominciare a scrivere il pezzo. Rondolino segue D’Alema come portavoce prima a Botteghe Oscure poi a Palazzo Chigi, dove resta poco, travolto dalle polemiche per «una quindicina di pagine di delirio erotico» (definizione dello stesso Rondolino) contenute nel suo romanzo Secondo avviso. Si dimette il 20 febbraio 1999. Con D’Alema ci parla ancora, anche se raramente.
Marco Minniti. Calabrese, laureato in filosofia, carriera nel partito, passato alla storia per aver fornito a D’Alema le scarpe da un milione di lire, gli è stato vicino prima a Botteghe Oscure (segretario organizzativo dei Ds), poi a Palazzo Chigi (sottosegretario alla presidenza). Nel 2007 si è scoperto veltroniano: «Con Massimo abbiamo condiviso un’esperienza politica per certi versi straordinaria. Raggiunti gli scopi, ognuno ha preso la sua strada» (intervista a Marco Sarti, Linkiesta 9/1/2012).
Nicola Latorre. Salentino di famiglia socialista. Infanzia cattolica, adolescenza maoista, fondatore e tesoriere della Fgci a Fasano, dove è stato impiegato nella cassa di risparmio, consigliere comunale comunista, assessore (alleato con la Dc) e sindaco (alleato con il Psi). Amicizia con D’Alema dai tempi della Fgci. Diventato segretario del Pds, D’Alema se lo porta a Roma e nel 1996 lo piazza a capo della segreteria del sottosegretario ai lavori pubblici Antonio Bargone, altro salentino dalemiano. Dice di lui Rondolino: «Calmo, sempre tranquillo, una specie di Buddha, un muro di gomma. Uno che di fronte all’annuncio del Vajont avrebbe detto: “Le faremo sapere”». Latorre segue D’Alema come un’ombra: alla Bicamerale, al partito, a Palazzo Chigi, all’Associazione Futura, alla Fondazione Italiani Europei. Nel 2005 entra in Senato, nel 2008 diventa vice capogruppo. Unico a poter vantare la dedica «A Nicola, che tiene le fila del nostro lavoro nella buona e nella cattiva sorte» sul libro di D’Alema Oltre la paura. Nel 2001 è cominciato un allontanamento. «È vero abbiamo avuto delle divergenze, ma sono stato il più fedele» ha ammesso.
Gianni Cuperlo. Triestino, intellettuale, secchione, algido, ultimo segretario della Fgci (che sciolse dopo la caduta del Muro di Berlino). Aveva la funzione di ghost writer e studioso di sondaggi. Nel 1995 ha formato con D’Alema e Velardi il libro-manifesto Un paese normale. Rondolino: «D’Alema parlava, Cuperlo scriveva, Velardi stracciava».