Massimo Vincenzi, la Repubblica 3/7/2013, 3 luglio 2013
CORSIVI
Kimberly, è la numero 500, lei dice: “Ringrazio tutti quelli che mi hanno aiutato. Questa non è una sconfitta, è una vittoria: vado nella casa di Gesù”. Charlie jr. è il numero 1, lui dice: “Non ho paura di quello che accadrà al mio corpo. Temo solo Allah: il mio destino è nelle sue mani”. In mezzo, le ultime parole di altri 498 condannati a morte che il Dipartimento di Giustizia del Texas ha raccolto in una database su Internet. Grafica scarna, burocratica efficienza, i nomi degli uomini che camminano, quello di cui sono accusati, quello che lasciano scritto o detto poco prima dell’ultimo atto. Un fiume di parole che rapisce, impossibile staccare gli occhi in un esercizio che sta inevitabilmente in bilico tra la pietà e un cupo voyeurismo, come quelli che si fermano in autostrada a vedere l’incidente sull’altra corsia. La maggior parte prega il proprio Dio. Qualcuno, pochi in realtà, chiede scusa alle vittime. Molti urlano sino a quando possono la loro innocenza, di come “tutto questo sia un maledetto errore, una tremenda ingiustizia”. Poi c’è Ramon, circa a metà della lista, che pensa alla figlia: “Forse non ti ho mai detto che hai gli occhi del tuo papà. Ti amo tanto”. E da questa parte del vetro la voce svanisce, insieme alla curiosità: resta solo tanto, troppo, dolore che non sarà mai utile.