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 2013  luglio 02 Martedì calendario

IL VECCHIO VIZIO AMERICANO DI SPIARE I GOVERNI «AMICI»

Lo spionaggio tra alleati è come il doping nello sport: tutti sanno che è prassi diffusa. Non consentita ma di fatto tollerata. Perciò si va avanti facendo finta di nulla finché qualcuno non viene colto con le mani nella marmellata. Arriva allora puntuale lo scatto di orgoglio dei rappresentanti delle istituzioni, che fanno a gara a chi si dichiara più scioccato. Come se non sapessero niente. Come se fosse una novità. O un fatto inimmaginabile.
I documenti e le rivelazioni dell’ex analista della Nsa Edward Snowden stanno avendo adesso questo effetto in Europa. Il ministro degli Esteri francese Laurent Fabius ha annunciato di aver formalmente chiesto spiegazioni a Washington. Come se non fosse emerso che il servizio di intelligence del suo stesso Paese, la Direction Générale de la Sécurité Extérieure, o Dgse, ha lo spionaggio industriale tra le sue mission sin dal momento della sua nascita nel 1982.
L’alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, la baronessa britannica Catherine Ashton, ha prontamente fatto eco al collega dicendo che «non appena abbiamo letto che strutture europee potrebbero essere sotto sorveglianza, abbiamo contattato le autorità Usa sia a Washington sia a Bruxelles chiedendo di fare chiarezza». Come se non fosse stato documentato che l’equivalente britannico dell’americana Nsa, il Government Communications Headquarters, o Gchq, da decenni è parte di una rete di spionaggio di Paesi anglofoni denominata Echelon, che tiene sotto controllo le telecomunicazioni europee.
Poi c’è stato il presidente del Parlamento europeo, il socialista tedesco Martin Schulz che, dopo essersi dichiarato «profondamente preoccupato e scioccato», ha aggiunto che «se le accuse si dimostreranno fondate, sarebbe una questione estremamente seria, che avrebbe un grave impatto sulle relazioni tra la Ue e gli Usa».
Viene però da domandarsi se Schulz abbia dimenticato, ignori oppure abbia scelto di ignorare i precedenti agli atti del suo stesso Parlamento. Schulz è infatti parlamentare europeo dal 1994 e da allora «Il Sole-24 Ore» può contare almeno tre occasioni in cui l’istituzione da lui oggi presieduta ha affrontato - o addirittura accertato la fondatezza di - identiche accuse.
La prima volta è successo nel 1997, quando un dipartimento della Direzione generale degli studi del Parlamento europeo, lo Stoa, ha pubblicato un documento in cui, a proposito della rete Echelon, si dice: «In Europa tutte le telefonate, i fax e i testi di posta elettronica sono regolarmente intercettati. Dal centro strategico inglese di Menwith Hill, le informazioni vengono trasferite al quartier generale della National Security Agency».
Due anni dopo, nel 1999, lo stesso Stoa ha pubblicato uno studio in cinque volumi in cui si diceva che «Echelon … è oggi utilizzata a fini di spionaggio economico».
L’11 luglio 2001 è stata poi pubblicata la "relazione" della Commissione temporanea d’inchiesta creata un anno prima dal Parlamento europeo per indagare su Echelon. Relatore: Gerhard Schmid, connazionale e compagno di partito di Schulz. Conclusioni: «Non si può nutrire più alcun dubbio in merito all’esistenza di un sistema di intercettazione delle comunicazioni a livello mondiale, cui cooperano, in proporzione, gli Stati Uniti, il Regno Unito, il Canada, l’Australia e la Nuova Zelanda… e non sussiste alcun dubbio sul fatto che il sistema non è destinato all’intercettazione delle comunicazioni di carattere militare, bensì di quelle private ed economiche».
Non basta. Nell’esprimere il proprio shock, l’onorevole Schulz deve essersi dimenticato anche delle cimici trovate negli uffici della palazzina Justus Lipsius, sede del Consiglio europeo a Bruxelles. Eppure era parlamentare europeo quel 19 marzo 2003, quando il portavoce del Consiglio Dominique Marreau ha annunciato che una ventina di giorni prima la sicurezza aveva scoperto che le linee telefoniche degli uffici della delegazione tedesca, di quella italiana, spagnola, francese, britannica e austriaca erano collegate ad «apparecchiature di intercettazione».
Il giorno dopo, il compagno di gruppo parlamentare di Schulz, lo spagnolo Raimon Obiols y Germà, aveva definito la cosa «estremamente preoccupante». E il successivo 15 aprile il Segretariato generale del Consiglio d’Europa aveva depositato una denuncia presso la procura federale belga, che aveva avviato un procedimento contro ignoti.
Ora non sarebbe però giusto prendersela solo con Schulz. Perché a dimenticarsi della vicenda della palazzina Lipsius è stato tutto il Parlamento europeo. Oltre che il Consiglio e la stessa magistratura belga. La quale non ha mai cavato un ragno dal buco.
La realtà è che l’indignazione è tanto ciclica quanto le indagini inconcludenti. Il risultato è lo stesso che si ha con il doping: nonostante le ripetute dichiarazioni di shock e disgusto, il fenomeno non solo continua ma diventa sempre più sofisticato. Nello sport si è passati dalle "bombe" di Fausto Coppi alle microtrasfusioni di sangue, nel mondo dell’intelligence si è andati dalle cimici a Prism.
Come nello sport, anche nell’intelligence è difficile trovare un protagonista disposto ad ammettere che si tratta di una prassi quasi scontata. Uno dei rari casi è stato quello di Pierre Marion, direttore-fondatore del Dgse francese, che qualche anno fa si è lasciato sfuggire una frase rivelatrice: «Sono stato io a creare il primo sistema di spionaggio industriale serio ed efficiente per la Francia. In fondo, è come ai tempi della Guerra Fredda. Eccetto che i bersagli non sono Kgb, Gru o Cia, bensì Ibm e Lockheed». E mica ci si potrà aspettare che gli americani stiano con le mani in mano?