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 2013  luglio 03 Mercoledì calendario

MERKEL: «PIU’ MOBILITA’ PER I GIOVANI E FLESSIBILITA’ PER TUTTI»

Dal birraio greco allo studente italiano, la Conferenza sul lavoro che si apre oggi a Berlino ha due obiettivi: contrastare la disoccupazione giovanile e difendere il lavoro europeo dagli scossoni della crisi con un massiccio sistema di riforme. Ne è convinta la Cancelliera Angela Merkel, che in un’intervista alla Stampa e ad altre cinque grandi testate europee illustra il suo pensiero: c’è una grande responsabilità delle élites economiche, adesso si tratta di riconquistare la fiducia globale e di garantire più circolazione di cervelli nel mercato del lavoro europeo.

Cancelliera Merkel, mancano meno di novanta giorni alle prossime elezioni federali, come mai soltanto ora la disoccupazione giovanile è entrata di prepotenza nella sua agenda?

«La disoccupazione giovanile in Europa mi preoccupa già da molto tempo. L’anno scorso mi sono consultata a questo proposito con i sindacati e i datori di lavoro e quando all’inizio di quest’anno al Consiglio Ue abbiamo approvato il quadro di bilancio dell’Ue per i prossimi anni, siamo riusciti a dedicare 6 miliardi di euro esclusivamente alla lotta contro la disoccupazione giovanile. Il presidente Hollande e io abbiamo inoltre discusso con rappresentanti di grandi imprese europee su quale possa essere il loro contributo. Ho anche parlato a più riprese con gli industriali tedeschi, chiedendo loro di dare una mano, ad esempio studiando eventuali misure da far poi adottare alla Camera di Commercio greco-tedesca o alle imprese tedesche in Portogallo. L’approvazione del recente bilancio Ue conferma la volontà di procedere in questa direzione».

Cosa risponde a chi vede nel vertice sul Lavoro di domani a Berlino un’operazione di vetrina finalizzata a migliorare l’immagine della Germania, più che di sostanza?

«Direi che oggi la disoccupazione giovanile è forse il problema europeo più impellente. E noi tedeschi, che dalla riunificazione abbiamo maturato le nostre esperienze riuscendo a ridurre la disoccupazione con riforme strutturali, ora possiamo mettere a disposizione queste esperienze».

Tornando ai fondi stanziati dal Consiglio Europeo, si potrebbe osservare che il denaro messo a disposizione non risolve il problema. Non è d’accordo anche lei sul fatto che il problema del mercato del lavoro è più profondo?

«È vero, e non è possibile risolverlo unicamente con iniezioni di denaro, ci vogliono riforme sagge. Per esempio non è saggio che la legislazione sul lavoro in alcuni Paesi venga flessibilizzata soltanto per i giovani e non per i più anziani, che lavorano già da tempo. In momenti economicamente difficili, questo fa aumentare la disoccupazione giovanile. E poi abbiamo bisogno di maggiore mobilità in Europa. Il ministro Federale del Lavoro Ursula von der Leyen ha molto lavorato per rafforzare la rete di cooperazione Eures tra la Commissione europea e i servizi pubblici per l’impiego. Si tratta di un servizio che può aiutare molte persone a cercare un posto di formazione o di lavoro in un altro Paese».

Oltre a Pep Guardiola vengono in Germania migliaia di giovani spagnoli, ma anche italiani o greci, che però finiscono per fare soltanto minilavori o instaurare rapporti di lavoro precari. E’ d’accordo sul fatto che non può essere un modello?

«I giovani che vogliono lavorare in altri Paesi Ue trovano effettivamente situazioni molto diverse, alcuni un buon posto di formazione o un lavoro promettente, altri invece attività più semplici. Ma anche da queste nel corso del tempo, avendo padronanza della lingua, possono passare a lavori migliori. Ad ogni modo non abbiamo intenzione di ampliare il settore a basso salario, poiché proprio di operai specializzati da noi c’è una grande richiesta e non sempre si riesce a colmarla con i lavoratori tedeschi, che naturalmente vogliamo raggiungere per primi. Ripeto: l’Europa necessita di un mercato del lavoro più mobile. A tal fine la naturalezza con cui studenti e accademici si muovono nel mercato interno può essere ancora migliorata per gli operai specializzati, per i quali a volte le barriere linguistiche costituiscono un ostacolo. Pertanto noi vogliamo estendere il programma di scambio europeo Erasmus anche ai giovani in formazione».

Non ha paura del potenziale di contestazione politica della cosiddetta “generazione perduta”?

«Se ci sono disfunzioni è compito dei politici fare qualcosa per risolverle. La disoccupazione giovanile in alcuni Paesi è troppo elevata da diversi anni, adesso è cresciuta ulteriormente con la crisi. In un continente che invecchia questa è una situazione insostenibile. Una generazione perduta semplicemente non ci deve essere».

Esiste uno speciale modello tedesco contro la disoccupazione giovanile?

«Anche se dal 2005 abbiamo dimezzato la disoccupazione giovanile, i problemi non mancano, ad esempio non tutti i ragazzi che terminano la scuola sono anche effettivamente in grado di affrontare una formazione. Noi dobbiamo occuparci di loro e il modo migliore è e rimane il sistema duale, ossia il mix di formazione scolastica e aziendale. Ormai possiamo offrire un contratto di apprendistato a tutti i giovani che lo vogliano, a differenza di quanto accadeva qualche tempo fa, quando ad esempio la formazione avveniva al di fuori delle aziende, in appositi laboratori per l’apprendistato. Anche se non è possibile per ogni Paese introdurre un sistema duale tutto insieme, la formazione extra-aziendale resta una via d’uscita. E poi vorrei dire un’altra cosa: è un errore puntare esclusivamente sull’accademizzazione dei giovani. In Germania abbiamo visto che anche la valorizzazione di professioni come l’operaio specializzato o il maestro artigiano dà ottimi risultati».

I mercati del lavoro e i dati sulla disoccupazione nei Paesi dell’Europa del Sud non sono paragonabili con quelli tedeschi. Come si fa a ragionare su soluzioni comuni a fronte di situazioni tanto diverse?

«In nessun posto si può pensare di eliminare la disoccupazione giovanile in un sol colpo. Le faccio un esempio: dopo l’unificazione tedesca c’è stato un periodo in cui ho sperato che un grande investitore arrivasse nella mia circoscrizione elettorale e mi risolvesse il problema della disoccupazione, che so, al 25%. Ovviamente quell’investitore non venne mai e in quell’occasione ho capito che la questione andava costruita pezzo per pezzo: dieci posti di lavoro qui, sei lì, cinque da una parte, altri tre da un’altra. L’importante è che sul posto operino consulenti esperti, che conoscono e incontrano regolarmente i giovani. Bisogna da una parte dare loro speranza, ma dall’altro spronarli a impegnarsi personalmente. E come questo possa riuscire al meglio, lo possiamo solo imparare gli uni dagli altri confrontando esperienze pratiche. Qualsiasi struttura centralizzata, sia a Madrid o a Berlino, non potrebbe funzionare».

Lei ha mai avuto paura di rimanere senza lavoro?

«Fortunatamente no. Ma nei primi anni della mia carriera politica mi sono chiesta che cosa avrei fatto se all’improvviso la mia esperienza in politica si fosse chiusa. In quel caso pensai che avrei potuto fare la direttrice di un ufficio per l’impiego; è bello poter aiutare le persone a trovare un lavoro».

Le difficoltà non mancano: pensi ad esempio al birraio greco. Ha abbassato del 20% il costo del lavoro per unità di prodotto, ma il suo credito è due volte e mezzo più caro che in Germania. Come può diventare competitivo, come farà ad assumere più persone?

«Il problema degli alti costi di rifinanziamento delle imprese si è effettivamente rivelato più ostinato di quanto ci aspettassimo in Europa. Per un periodo possono intervenire la Banca Europea degli Investimenti o anche l’Istituto di Credito per la Ricostruzione tedesco (KfW), sull’aiuto del quale il ministro Federale delle Finanze Schäuble sta negoziando con la Spagna, il Portogallo e prossimamente anche con la Grecia. Io appoggio anche l’intenzione del primo ministro greco Samaras di istituire una banca di sostegno greca come partner del KfW. Ma per una soluzione duratura del problema abbiamo bisogno di regole migliori per il settore bancario e quindi soprattutto di una vigilanza bancaria centrale credibile, che potrà restituire la fiducia degli investitori e portare nel lungo termine a interessi più bassi».

Come mai è stato sottovalutato il problema degli interessi per il normale finanziamento del credito?

«Perché fino a questo momento non avevamo mai assistito a una perdita così massiccia di fiducia nelle banche, e addirittura nella vigilanza finanziaria. Ma con una vigilanza bancaria europea e stress test più ambiziosi possiamo riconquistare la fiducia perduta».

Oggi la Germania sembra in prima linea nel sostegno ai programmi occupazionali, persino i limiti del deficit vengono resi meno rigidi. È finita l’epoca dell’austerità?

«Continuo a non vedere una reale contrapposizione tra solidità del bilancio e crescita. Del resto chiediaL’indebitamento in alcuni Paesi era così elevato che gli investitori non si fidavano più di loro e quindi non acquistavano più i loro titoli. Gli interessi erano saliti alle stelle, i Paesi potevano finanziarsi solo a prezzo di interessi disastrosi. In una situazione simile un maggiore indebitamento non può essere una soluzione. No, i deficit vanno ridotti affinché gli investitori internazionali tornino ad avere fiducia e si creino di nuovo i margini finanziari per investire nel futuro. E in questo contesto abbiamo già fatto un bel po’ di strada in Europa».

Ma gli investitori non guardano soltanto all’ammontare dei debiti…

«… Vero, è altrettanto decisivo quanto competitivo è un Paese, quante industrie ha e quanto è efficiente la sua amministrazione. Bisogna guardare se l’andamento dei salari e la produttività divergono troppo. Tutto questo lo abbiamo dolorosamente capito in Europa con lo choc della crisi. A quel punto era chiaro che non si poteva andare avanti così. Quindi, ribadisco, la strada imboccata è quella giusta: consolidamento del bilancio da una parte e fondamentali riforme strutturali dall’altra. Da ciò ha origine una crescita sostenibile. E poi ciascun Paese deve chiedersi concretamente con che cosa può guadagnare denaro, quali industrie vuole e quali servizi. Il settore dell’edilizia da solo non potrà farcela, in Germania lo abbiamo visto quando il boom edilizio dopo la riunificazione ha subito ad un certo momento una battuta d’arresto».

L’eurozona è l’unica regione del mondo ancora in recessione. Che cosa c’è di sbagliato?

«Se nei Paesi colpiti dalla crisi si sgonfia l’ipertrofica amministrazione pubblica, se si riduce un settore edilizio sovradimensionato, non c’è da meravigliarsi che poi quei Paesi non possano crescere. Prendiamo ad esempio le repubbliche baltiche, che dopo duri anni di rinunce, a seguito di riforme incisive, ora stanno di nuovo molto meglio e registrano tutte di nuovo una crescita. L’insegnamento da trarre è che chi orienta le sue strutture alla competitività, nel medio termine torna anche a crescere. Ho l’impressione che in molti Paesi la gente sappia molto bene che cosa sia andato male nel passato. Mi dispiace che oggi soffrano di più proprio coloro che non hanno assolutamente contribuito a questi sviluppi sconsiderati, cioè i giovani o i poveri. Chi aveva il capitale in molti casi ha lasciato da tempo il proprio Paese o ha altre forme di protezione. Credo che i ricchi nei Paesi più gravemente colpiti dalla crisi potrebbero, con un impegno maggiore, portare più risorse alla collettività. Trovo estremamente deplorevole che le élite economiche si assumano così poca responsabilità per questa situazione».

Perché ha voluto coinvolgere il Fmi nella lotta contro il debito? Gli europei non potevano farcela da soli?

«Il Fmi ha un’esperienza nel trattamento degli Stati con un debito eccessivo come nessun’altra istituzione al mondo. Abbiamo beneficiato molto della sua reputazione e della sua cognizione di causa quando si trattava di negoziare i programmi di aiuto con i Paesi interessati».

Che messaggio può lanciare, in conclusione, a quei Paesi dell’Europa del Sud che ritengono che le loro economie siano soffocate da una linea tedesca troppo rigida, semplicemente per il fatto che hanno una storia diversa dal punto di vista dello sviluppo economico, magari più incentrata sulle piccole e medie imprese che sulla grande industria?

«Se un Paese desidera strutturare la propria economia in modo completamente differente da quella tedesca ben venga. Sono contenta se vie diverse portano al successo. Naturalmente nessuno può contestare la necessità di essere competitivi e di dover lavorare per il benessere e guadagnarselo. Se però guardo all’Italia, alla Spagna o alla Grecia allora vedo settori molto diversi che hanno successo. Non credo che la dimensione sia il parametro determinante per il successo. Quello che conta è che noi tutti siamo consapevoli di quanto il mondo sia cambiato. La Cina, l’India, il Brasile, la Corea del Sud e molti altri Paesi sono da tempo nostri concorrenti nei settori in cui eravamo leader. Noi dobbiamo reagire e cambiare. L’Organizzazione Mondiale del Commercio ci dice che la maggior parte della crescita avviene oggi in parte fuori dal nostro continente. O offriamo a queste regioni del mondo prodotti attraenti ed innovativi o ci rassegniamo a perdere quote di mercato e conseguentemente prosperità ed è proprio questo che non voglio né per la Germania né per l’Europa».

Al congresso del suo partito a Lipsia nel 2011 era più volte tornata sul temadiun’Europamaggiormenteintegrata. Oggi il suo programma elettorale è piuttosto diverso al proposito. Quale Europa desidera?

«Nell’Ue avremo bisogno nel medio termine di altre modifiche ai trattati. Ma ora abbiamo problemi più urgenti che dobbiamo affrontare rapidamente, e comunque più rapidamente di quanto non si possano modificare i trattati. Nel nostro programma elettorale per le “europee” ci dedicheremo più intensamente di adesso alle grandi questioni istituzionali. Nel programma per le elezioni al Bundestag abbiamo fissato i prossimi passi necessari».

Ha già rinunciato all’idea di elezione diretta del presidente della Commissione?

«Riguardo a questo argomento sono più scettica rispetto al mio stesso partito, che nel 2011 si era pronunciato in favore dell’elezione diretta. Nel caso di un’elezione diretta del presidente della Commissione vedo problemi nel tessuto delle istituzioni europee».

E’ davvero rimasta sorpresa per le dimensioni del Datagate in Gran Bretagna e negli Stati Uniti? E per quale motivo critica le intercettazioni se poi la Germania ne fa uso per difendere la sua sicurezza?

«Come la maggior parte dei tedeschi, so molto bene che più volte servizi stranieri ci hanno aiutato a scoprire gruppi terroristici in Germania e a impedire in tempo i loro attentati. Tuttavia, accanto al bisogno di sicurezza va sempre tenuto in conto il bisogno della tutela della privacy, tra ambedue deve essere stabilito un equilibrio. I nostri servizi e ministeri stanno cercando chiarimenti a tutti i livelli, e quindi anche a livello europeo, per quanto accaduto e perciò anche in merito alle nuove questioni sul tavolo dallo scorso weekend. Ritengo che sia un fatto grave spiare gli amici con cimici nelle nostre ambasciate o nelle rappresentanze dell’Ue, non va proprio. Non siamo più all’epoca della Guerra fredda».