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 2013  luglio 02 Martedì calendario

SE SI ARRENDE PURE IL BERLUSCONI DEL SUD

C’è stato un tempo in cui Pasquale Na­tuzzi era l’uomo che faceva stare co­modo il mondo. Tu tiravi una leva di uno dei suoi divani e, così all’improvviso, le tue gambe venivano tirate su da un poggia pie­di. Era un simbolo: stai tranquillo, rilassati. È finito, da ieri il simbolo sono i duemila lavora­tori messi in mobilità, gli stabilimenti chiu­si, la produzione spostata. È la fine della comodità e pure di qualcosa di più.
Perché attorno a quell’azienda che faceva divani a cavallo tra la Puglia e la Basilicata s’era creato un distretto economico pazzesco, fatto di altre imprese, di giovani brillanti che restava­no nella loro terra e però lavora­vano in una multinazionale. Era l’idea dell’impresa del Sud che ce la faceva trascinandosi fatturato, idee e speranze. Questione di simboli, anche qui. Per­ché il divano era l’idea di casa e quindi di indipendenza e quin­di di famiglia e quindi di stabili­tà. La crisi, questa crisi, ha sega­to le gambe e ha chiuso i casset­ti. Mille e ottocento lavoratori a casa, un colosso che deve licen­ziare per stare in piedi e non lasciare per strada altre migliaia di persone sono il segno di un Paese che è arrivato alla fine. Ci so­no centinaia di aziende così, ov­vio. Le raccontiamo ogni gior­no, da mesi. Il gruppo Natuzzi aggiunge un carico in più, per­ché per anni, a cavallo tra la fine degli Ottanta e la fine dei Novanta, quell’impresa era considera­ta un modello di sviluppo. Perché lui, Pasquale Natuzzi da Ma­tera, trasferitosi a Santeramo in Colle per necessità e per uno sta­bilimento bruciato da un incen­dio, era considerato come un messia laico dell’economia. Un signore che aveva capito tutto. Un tipo eccentrico, amante del­l’Oriente e dell’America, delle cose belle. Con un divano in pel­le e le città tappezzate delle sue pubblicità, prometteva quelle gambe all’aria per tutti. Como­di, perché ci siamo noi. La como­dità costava poco, in fondo. Un po’ più dell’Ikea, ma molto me­no di quello che si trovava altro­ve. Per questo fu criticato e spesso anche osteggiato. Per questo cominciarono i dubbi sulla te­nuta dei conti e del modello di business. I numeri, però, giravano. Quando faceva stare como­do il mon­do vendeva la sua mer­ce in 123 mercati dei 5 continen­ti, fatturava 780 milioni di euro, aveva 5.700 tra dipendenti e col­laboratori. Solo in Italia aveva 127 negozi «Divani & Divani». Più 75 all’estero. Vent’anni fa, nel 1993, mister Pasquale deci­se che valeva la pena provare a giocare pesante. La quotazione in Borsa. Milano? No, Wall Stre­et. Perché aveva capito che l’Ita­lia era troppo piccola, che i numeri, che i volumi, che i soldi si potevano e dovevano fare fuori. Gusto italiano, prezzi tutto som­mato bassi e mercato interna­zionale. Doveva funzionare. Po­teva funzionare. Ha funzionato. Si vendevano case? Natuzzi te le poteva arredare. Una poltrona per due. Poi per tre, per quattro, per tutti. Bel business, pensaro­no in molti. Ci si buttarono. Poi il mondo è cambiato: la crisi im­mobiliare, poi quella dell’euro, poi le tasse, poi il costo del lavo­ro, poi il crollo dei consumi.
Gli altri hanno avuto la bolla del web, il mezzogiorno italiano ha, tra le altre, quella dell’«imbottito». L’ex silicon valley del Sud era un’area industriale fra Puglia e Basilicata: dai primi an­ni del 2000 al 2012 ha visto cala­re le aziende da 520 a 100 e gli ad­detti da 14mila a seimila (3.175 dei quali dipendenti di Natuzzi e 1.340 nell’indotto). Natuzzi, con i suoi sogni, con le sue cami­cie alla coreana, con l’idea di portare il Sud a concorrere col Nord e poi con gli altri, è finito in un incubo. Tagliare per soprav­vivere. Quello che succede a pic­coli, medi e grandi imprendito­ri, ogni giorno, da giorni. Poi ce n’è uno che fa la differenza: non è merito o demerito. È che i sim­boli li decide il caso e la congiun­tura. Natuzzi lo è stato. E la crisi di un’azienda a volte spiega la f­i­ne di un mondo più di ogni altra cosa.