Dario Di Vico, Corriere della Sera 3/7/2013, 3 luglio 2013
Avrà sicuramente sbagliato nel metodo regalando ai patiti del fuori onda espressioni che non avrebbe dovuto pronunciare ma al ministro Anna Maria Cancellieri va riconosciuto il coraggio di aver riportato all’ordine del giorno il tema del rapporto tra l’azione politica di risanamento e l’ostruzionismo delle lobby
Avrà sicuramente sbagliato nel metodo regalando ai patiti del fuori onda espressioni che non avrebbe dovuto pronunciare ma al ministro Anna Maria Cancellieri va riconosciuto il coraggio di aver riportato all’ordine del giorno il tema del rapporto tra l’azione politica di risanamento e l’ostruzionismo delle lobby. La contrapposizione degli avvocati al governo ha origine in due provvedimenti, la riorganizzazione delle sedi giudiziarie e la reintroduzione dell’istituto della mediazione. Il primo va nella sacrosanta direzione di razionalizzare la spesa pubblica e il secondo, oltre a porsi obiettivi di sfoltimento del contenzioso, applica al mondo legale la moderna ricetta della sussidiarietà. Si potrà obiettare che il bilancio dell’introduzione della mediazione non è esaltante, che in un periodo di crisi nera è diventato de facto una sorta di rifugio anche a scapito della competenza reale, che il coinvolgimento delle professioni — e degli stessi avvocati — poteva essere curato meglio, ma — detto tutto questo — il principio riformatore va comunque difeso. E la sfida che gli avvocati hanno rivolto, non solo al governo ma all’intera opinione pubblica, appartiene alla tradizione di un lobbismo d’altri tempi. Nei periodi di crescita economica, anche se contenuta, la pressione degli interessi di parte si concentrava nell’ottenimento di vantaggi redistributivi, le grandi e le piccole lobby cercavano di condizionare la politica e portare a casa la maggior porzione possibile di vantaggi per i propri associati. Peccato però che quella stagione sia tramontata forse definitivamente e siamo entrati, nostro malgrado, nell’epoca del budget zero e della spending review permanente, indirizzata a scovare inefficienze, sprechi e rendite di posizione. O la rappresentanza degli interessi fa propria questa discontinuità o si isola dalla vicenda nazionale, cerca inutilmente di ritagliarsi, alzando i decibel della propria protesta, un ambiente protetto. L’interesse generale nel quinto anno della Grande Crisi non è un concetto politologico astratto, è l’unica strada che possiamo ragionevolmente percorrere per allontanarci dal baratro. Tutti, avvocati e non. Fortunatamente c’è anche chi questa novità l’ha interiorizzata e ha saputo cambiare i propri comportamenti. Prendiamo, ad esempio, il mondo dell’edilizia che rappresenta forse la filiera più ampia del sistema produttivo italiano: ha saputo unirsi, dall’industria alle professioni, attorno a proposte ragionevoli e valide non solo per un segmento della società civile. La battaglia per il pagamento dei debiti della pubblica amministrazione e le iniziative per lo snellimento della burocrazia fanno parte di una modalità di rappresentare gli interessi capace di cucire obiettivi strettamente «sindacali» e interesse generale. Le lobby che il ministro Cancellieri ha evocato sono quelle che invece operano al riparo della concorrenza internazionale e si esercitano quasi esclusivamente nel gioco dell’interdizione e del rinvio. Parliamo degli avvocati ma guardando un po’ più in là, e agli obiettivi di razionalizzazione della spesa che il governo non potrà non adottare, è facile pensare anche al blocco di resistenza di chi non vuole che la pubblica amministrazione si modernizzi e cambi passo. Se l’esecutivo guidato da Enrico Letta vorrà mostrarsi incisivo dovrà adottare la stessa franchezza esibita dal ministro Cancellieri nei confronti dei legali anche in direzione dei grandi e piccoli commis dello Stato. La riflessione sulle lobby retrò e le interdizioni del mondo legale non hanno niente a che vedere con le legittime preoccupazioni sul futuro del professionalismo italiano. Non siamo in presenza solo della caduta del reddito medio, dell’affermarsi di una figura come il professionista semi-disoccupato, di un regime di apartheid nel quale operano i più giovani ma stiamo rischiando l’impoverimento delle competenze e la marginalizzazione internazionale. Il dato fa riflettere e, se volete, lo si può leggere come il riassunto delle trasformazioni in corso: il 90 per cento degli architetti, quando lavora, lo fa esclusivamente nell’ambito del suo Comune. @dariodivico