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 2013  luglio 03 Mercoledì calendario

PECHINO —

La crescita dell’economia cinese sta rallentando. Su questo non ci sono dubbi. Per i primi dieci anni del Duemila l’incremento medio del Prodotto interno lordo era stato del 10,5 per cento. Per il 2013 l’obiettivo fissato da Pechino era intorno al 7,5%; nel primo trimestre è stato al 7,7, già in discesa rispetto al 7,9 dell’ultimo trimestre 2012; ma l’ultima proiezione di Goldman Sachs (che comunque non sempre le centra) scende al 7,4. Il mondo globalizzato, l’America della ripresa lenta e l’Europa della crisi profonda debbono tremare?

Nelle ultime due settimane si sono inseguite notizie allarmanti: c’è stato un giovedì nero, il 20 giugno, nel quale si è temuta una crisi di liquidità nel sistema bancario di Pechino, un credit crunch come quello che affondò la Lehman Brothers e segnò l’inizio della grande depressione nel 2008. Per giorni la Banca del Popolo cinese (la Banca centrale) ha taciuto: sembrava che volesse punire gli istituti di credito minori che avevano prestato denaro in modo sconsiderato per anni, soprattutto alle amministrazioni locali, dalle province alle grandi città, indebitate complessivamente per 12 mila miliardi di dollari. Poi, all’improvviso, nuova immissione di liquidità e rassicurazioni sulla tenuta del sistema.

Ora un nuovo tuffo al cuore. Si chiama Pmi, Purchasing manager’s index : registra, attraverso sondaggi tra i direttori degli acquisti delle aziende manifatturiere, le aspettative legate agli ordinativi ricevuti per i loro prodotti. In pratica, in base al Pmi, vengono decisi livelli di produzione, scorte, tempi di consegna e occupazione. Il Pmi cinese di giugno, secondo la stima della Hsbc, è sceso a 48,2, rispetto al 49,2 di maggio che già non era positivo. In questo indice infatti andare sotto quota 50 significa aspettativa di contrazione. Il dato dell’industria cinese gela le speranze create dall’ascesa americana: da 49 a 50,9. Ci sarebbe un altro dato, elaborato dalla China Federation of Logistics and Purchasing, che vede un calo dal 50,8 di maggio, ma solo al 50,1.

Alle statistiche ufficiali made in China , però, non crede nemmeno il governo di Pechino. Basti pensare al Pil: se quello nazionale nel primo trimestre è aumentato del 7,7% secondo l’Ufficio centrale di statistiche, com’è possibile che tutte le 31 province abbiano contemporaneamente diffuso dati di crescita superiori? Si va dal record del 12,8% del Gansu al minimo del 7,8% di Shanghai, comunque più alto di quello medio (come mostra il grafico in questa pagina). Misteri dell’economia socialista di mercato. Che succede? Chiedere un’interpretazione autentica alla Banca centrale è inutile. Quando un giornale invoca un commento, la risposta consueta è «mandateci un fax». E di solito la comunicazione si ferma lì.

Qualche giorno fa, però, ha parlato Xi Jinping, presidente della Repubblica popolare nonché segretario del Partito comunista. Per dire che «i dirigenti delle amministrazioni locali non debbono più essere valutati semplicemente in base alla crescita del Prodotto interno lordo nelle loro zone». La traduzione del concetto è semplice: basta con l’inseguimento ossessivo di numeri (spesso truccati al rialzo), Pechino dopo l’industrializzazione forzata ha la necessità di aggiustare la rotta. Da economia basata sugli investimenti pubblici e sulle esportazioni, la Cina si rende conto di dover passare a un sistema che si regga più sui consumi interni. Per raggiungere l’obiettivo serve una crescita più lenta ma di qualità migliore, dice il premier Li Keqiang. Secondo lui per creare questo mercato di consumi interni sarà sufficiente un incremento medio del Pil sul 6,9% da qui al 2020.

Ma nel piano di Li Keqiang gli analisti internazionali vedono molti rischi. La sua idea fondamentale è di ridurre la diseguaglianza sociale tra popolazione cittadina e contadini; la ricetta è l’urbanizzazione. Così, per stimolare la domanda interna e la modernizzazione, i pianificatori del regime vogliono portare altri 400 milioni di cinesi in città nei prossimi 10-15 anni. Il governo promette di investire 40 trilioni di yuan (6.500 miliardi di dollari) per costruire 200 milioni di unità abitative in nuove città medie e piccole (si parla sempre come minimo di mezzo milione di abitanti). Al termine della migrazione, nel 2030, la Cina avrebbe circa un miliardo di cittadini, un meraviglioso mercato interno. Li Keqiang conclude il ragionamento assicurando al resto del mondo che parte della spesa per l’ondata di urbanizzazione andrebbe in importazioni.

Però, sono proprio le enormi spese delle province, spesso dirette alla costruzione dissennata di nuovi quartieri e infrastrutture che hanno portato al giovedì nero in cui si è temuto il credit crunch . Sembra un gioco di scatole cinesi. E lo è. «Deng Xiaoping vent’anni fa, per lanciare le sue aperture al mercato, delegò le decisioni economiche alle amministrazioni locali, ma il risultato è stato un decentramento incompleto, minato dalla mancanza di democrazia, che ha permesso ai governi provinciali e delle grandi e piccole città di manovrare conti, statistiche e denaro», spiega al Corriere Michael Dunne, americano sbarcato in Cina nel 1986 e oggi rispettato consulente commerciale. Secondo l’analisi di Nomura, i principali indicatori cinesi somigliano a quelli americani alla vigilia della grande crisi del 2008. In particolare i prezzi delle case sono saliti del 113% dal 2004 al 2012; quelli Usa erano aumentati dell’84% tra 2001 e 2006. Ma forse il dato cinese è anche ritoccato al ribasso perché ingloba le case vecchie e fatiscenti, se si considerano solo gli appartamenti nuovi l’incremento raggiunge il 250%. A questo punto è necessaria una correzione forte. La decisione, presa al vertice del potere, ha ispirato la stretta sulla liquidità organizzata dalla Banca centrale. Il rallentamento della crescita del Pil sembra programmato e le parole di Xi Jinping ai quadri del partito lo confermerebbero. Per rafforzare la sua campagna di moralizzazione Xi conta sul responsabile della disciplina nel Comitato permanente del politburo: è Wang Qishan, ex genio dell’economia, famoso per aver detto nel 1999, durante la febbre delle Borse asiatiche: «Il principio fondamentale dell’economia di mercato è che i vincitori guadagnano e i perdenti perdono».
Sembra tutto calcolato. Ma i dati che vengono dalla «Fabbrica Cina» preoccupano lo stesso. Che succede se Xi e il suo premier Li sbagliano i conti?

???
Tutti quelli che hanno previsto la fine del boom economico della Cina sono stati finora smentiti dai fatti. Ma in questo primo scorcio d’anno i dati sull’economia cinese sembrano davvero dare ragione ai pessimisti. Nel primo trimestre 2013 la crescita cinese è rallentata al 7,7 per cento. Nel secondo trimestre 2013 i dati mensili su produzione e ordini industriali non segnalano miglioramenti. La crescita della produzione industriale ristagna e i nuovi ordini al netto delle cancellazioni — l’indicatore più affidabile di ciò che succederà a vendite e fatturati industriali nei mesi a venire — indicano addirittura numeri negativi.
E poi ci sono i dati che sicuramente non mentono, quelli del commercio estero: un’economia con un livello di importazioni da mesi stagnante è chiaro che non cresce più. A peggiorare le prospettive di crescita, in giugno si è aggiunta una temporanea crisi di liquidità che ha fatto schizzare alle stelle i tassi sul mercato interbancario. Come altrove, è arrivata la liquidità di emergenza della Banca centrale cinese. Nel frattempo però l’improvvisa carenza di liquidità era stata sufficiente a far fallire un’asta di emissione di titoli del debito pubblico per la prima volta dal 2011. Non c’è che dire: anche gli ottimisti a oltranza sull’economia cinese hanno materia per riflettere e — forse — aggiustare le loro previsioni.
Se il rallentamento dell’economia in atto nella prima metà del 2013 sarà confermato, la crescita economica cinese dei prossimi anni rischia di fermarsi al di sotto della crescita (+7,5 per cento annuo) indicata per il 2011-15 nell’ultimo piano quinquennale dal governo. Un Pil che cresce del 7 per cento rispetto ai livelli 2012 sarebbe ovviamente una crescita stellare nel mondo occidentale dove ormai si festeggia quando il Pil aumenta del 2 per cento in un anno. Ma un «più sette» in un Paese il cui Pil è cresciuto del 10 per cento l’anno negli ultimi trent’anni è un numero deludente. È deludente perché il settore pubblico cinese è abituato a vedere aumentare le sue entrate fiscali a un ritmo coerente con una crescita del Pil del 10 per cento annuo e di conseguenza è anche abituato a veder crescere la spesa pubblica nella stessa entità. Più sette per cento è un numero deludente anche per il settore bancario cinese che con una crescita rallentata rispetto al passato rischia di vedere peggiorare ulteriormente la qualità dei suoi bilanci con l’emergere dei prestiti deteriorati e delle insolvenze che — quando vengono fuori — sono all’origine delle strette creditizie in ogni parte del mondo, da noi come in America e in Cina.

Rimane da capire perché la crescita cinese rischi di rallentare così improvvisamente e con conseguenze così rilevanti. La spiegazione più logica è che la classe media cinese — la categoria di consumatori in grado di indebitarsi per acquistare elettrodomestici, automobili e telefonini — non è ancora tanto numerosa né tanto sofisticata né tanto ricca da consentire alla società cinese una crescita economica centrata sui consumi e sul mercato interno. A leggere i rapporti della McKinsey, è facile farsi rapire dalla descrizione di ciò che potrebbe essere la Cina del futuro. Le ricerche McKinsey indicano infatti che «nel 2022 più del 75 per cento dei consumatori urbani cinesi — saranno circa 280 milioni di persone — avranno un reddito compreso tra 9 e 34 mila dollari». Un reddito sufficiente a comperarsi l’ammorbidente per il bucato e, magari, macchine fotografiche digitali e laptop. Ma il 2022 è lontano quasi dieci anni dal 2013. E oggi il grosso dei redditi della classe media in Cina è concentrato tra i 9 e i 15 mila dollari. Sono redditi che alimentano una rapida crescita dei consumi ma insufficienti a generare la domanda di prodotti sofisticati necessaria a far fare un salto di qualità al manifatturiero cinese. Che, ricordiamolo, nonostante gli aumenti dei salari minimi e medi degli ultimi anni, è ancora molto competitivo sui costi ma è oggi drammaticamente oppresso da un grave problema di capacità produttiva in eccesso. Un eccesso di capacità produttiva che ha due cause: il rallentamento della crescita in Occidente e l’eccessivo investimento alimentato dal credito facile e abbondante degli ultimi dieci anni.
Proprio qui sta la sfida che la nuova leadership cinese è chiamata a vincere: se per ora la classe media non c’è o non è abbastanza ricca, al manifatturiero cinese per ora non rimane altro mercato che l’Occidente. Un Occidente che presenta bassi tassi di crescita ma anche un menu invidiabile di consumatori e di potere d’acquisto che continua a essere una fonte insostituibile di domanda per tutti i Paesi emergenti. Non solo: è anche un Occidente capace di fare, in America e in Germania più che in Italia, importanti passi verso la reindustrializzazione. E che quindi rende la crescita e il guadagno di supremazia economica cinese, così come lo spostamento di asse economico da Occidente a Oriente, meno agevole di quanto atteso.

DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
L’ultima impresa in senso negativo è stata la sconfitta in casa 1-5 con la Thailandia. Ingiustificabile per la nazionale cinese di calcio, tenendo anche conto che gli avversari schieravano la Under 21. Guidati dal tecnico spagnolo Antonio Camacho, i rossi quest’anno sono stati eliminati dai Mondiali 2014, hanno perso anche con l’Uzbekistan, sono riusciti a battere solo il povero Iraq, costretto a giocare in campo neutro, ridotti in 10 da un’espulsione. E il gol cinese è venuto durante i minuti di recupero.
Eppure la squadra costa più del Brasile: Camacho si porta a casa 11 (undici) milioni di dollari a stagione. Bisognerebbe dire si portava, perché finalmente, dopo l’ultima vergogna, lo hanno cacciato. Ma gli sprovveduti dirigenti della Federcalcio di Pechino avevano firmato con lo spagnolo un contratto assurdo, non rendendosi conto di essersi impegnati anche a pagare le tasse al posto suo. E ora Camacho pretende di ricevere il resto del bottino: 9 milioni di euro. La trattativa per uno sconto è in corso.
Sta diventando uno psicodramma nazionalpopolare. Sul web i tifosi sono indignati (e grevi): «Abbiamo perso con la Thailandia, 65 milioni di abitanti, per un quarto militari, per un quarto monaci, un quarto trans e solo il resto utile per il vivaio calcistico». Ma il dibattito è in corso anche sulla stampa. Che si chiede se non sia colpa dei sussidi statali, l’analisi è che il sistema è corrotto e inefficiente, una metafora di come non si debbono gestire le imprese sportive (ed economiche), con immissione infinita di denaro e nessun progetto.
Qualche commentatore scrive che i cinesi, semplicemente, non sono fisicamente e psicologicamente tagliati per il pallone. Ma fa molto male all’orgoglio vedere che il Giappone, i cui giocatori dovrebbero avere caratteristiche simili, gioca bene e ha perso onorevolmente con l’Italia in Brasile.
Nonostante le molte delusioni con i tecnici stranieri (prima di Camacho ci sono stati l’olandese Riekerinik per la giovanile e il croato Blazevic per le Olimpiadi 2008, tutti esonerati e strapagati), il sogno resta Marcello Lippi. Il tecnico azzurro allena in Cina da due stagioni e ha guidato il Guangzhou Evergrande allo scudetto. Si vedrà.
In questo panorama deprimente, però un trionfo inatteso c’è stato: nella RoboCup di Eindhoven, mondiale per squadre di robot umanoidi. Nella categoria Middle Size i robot cinesi hanno vinto la coppa del mondo battendo l’Olanda in finale. I dirigenti del calcio robotizzato hanno un sogno: perfezionare le loro marionette computerizzate e farle giocare contro una squadra in carne e ossa. Dicono che potrebbe succedere nel 2050. I cinesi quindi possono sperare? C’è un problema: i giocatori della RoboCup pare siano made in Japan.
G. Sant