Giuliano Ferrara, il Giornale 30/6/2013, 30 giugno 2013
LA DITTATURA TRIONFANTE DEI MORALISTI DELLA PAROLA
La dottoressa Boccassini ha un amico potente nella sua crociata contro le civili libertà umane e la dignità delle persone e del linguaggio. Non è la cimice ambientale. Non è l’intercettazione telefonica. Non è la criminalizzazione dei testi a difesa dell’imputato. È l’algoritmo. Oggi l’algoritmo bacchettone di Facebook, potente multinazionale della parola online, domani chissà. Infatti mi sono ritrovato censurato un editoriale del Foglio nel cui testo, come dal suo titolo, usavo a proposito del matrimonio gay approvato dalla Corte suprema americana, con riserve tecniche pusille, la parodia della formula nuziale classica, «oggi sposi», trasformata nel politicamente scorretto «oggi froci». È questa peraltro una vecchia battuta bonaria del mio lessico familiare, che mia moglie Anselma Dell’Olio, americana e femminista, spiritosa e sboccata, libertaria e noncurante, si permette spesso di pronunciare impunemente tra persone cosiddette perbene, tra di esse qualche frocio e qualche lesbica, a commento del sentimentalismo da nozze gay, che lei detesta. Un siciliano investito dall’insulto: «puppo», mi raccontava il magico amico Pietrangelo Buttafuoco, rispose al malcapitato: «Barone mi dicesti». E per me è così. Ho le mie idee contrarie alla gay culture, il cui culmine è l’abrogazione della felice differenza, anche erotica o di stile di vita, approdata appunto alle nozze gay; e la parola «froci» riveste per me un significato liberatorio, irriducibile a ogni caratterizzazione insolente, visto che chiunque conosca me e quelli come me sa benissimo che di fronte a un greve uso del termine a scopo di diffamazione di un conoscente o di un amico o di un passante sconosciuto, prenderei a schiaffi chi ne è autore. Eppure, come per rispondere alla domanda del tipico fighetta d’oggi, che si interroga pensoso se il web renda liberi, un mostriciattolo orwelliano fa capolino nella multinazionale potente delle chattering classes , il circuito universale di quelli che chiacchierano, il social network. L’algoritmo può darci molto, può favorire l’intelligenza, ma in sé è totalmente cretino. È un idiot savant, uno scienziato pedante e talvolta utile che cerca nella media dei significati di guidarci tra i significati, ma manca del principio di individuazione, del tratto della personalità, che è la sede dell’intelligenza, della capacità morale degli uomini e delle donne, della loro anima individuale. Un algoritmo non sa nulla di mia moglie e di me, dei lettori del Foglio o del Giornale, del senso e del carattere di campagne o guerre culturali intorno a temi come il matrimonio, la famiglia, l’educazione dei figli, la libertà di amare senza trasformare sentimenti e desideri in diritti, che è un’autocontraddizione bestiale. L’algoritmo non sa che sul Foglio una storica rubrica scritta da uno scrittore gay che si chiama Daniele Scalise aveva per titolo, appunto, «froci». E che quella rubrica era nata sul settimanale di sinistra intellettuale, l’Espresso, col titolo «gay». E che Scalise aveva volentieri rititolato così la sua rubrica nel passaggio a una testata meno onerata di obblighi ideologici.
L’algoritmo sa un sacco di cose ed è utile, ma non conosce l’ironia, quel nascondimento che disvela significati profondi delle cose: e se «gay» è ortodosso secondo la cultura contemporanea e le sue regole, «frocio» è l’emancipazione ironica da un vecchio insulto, la sua evoluzione libertaria in diritto orgoglioso di dirsi come si è. Dipende naturalmente da come e dove venga usata, quella parola, dal contesto e dall’identità di chi la usi. Ma che ne sa l’algoritmo del contesto, che ne sa dell’identità di chi scrive e di chi legge?
Niente. Tutti i giorni su Twitter ricevo quintalate di insulti osceni, roba che Enrico Mentana potrebbe esserne psicologicamente schiacciato, essendo un gentiluomo. Io no.
Ho le spalle larghissime, e se mi danno di ciccione o di contenitore di m... liquida, e chiedo scusa degli eufemistici puntini, se mi invitano a uccidermi tra le più atroci sofferenze, se danno di p...ana alla memoria della mia mamma, che era una donna ironica, sono solo divertito e cerco di capire senza troppa amarezza, senza nemmeno credere alla perfidia o alla volgarità del mondo, di che pasta sono fatti questi simpatici e goffi importuni, e di rendergli a mio modo, cioè con ironia, la vita dura (per educarli, diciamo). Sarebbe tragico che un algoritmo impedisse a questi mezzi ubriaconi e giocherelloni di esprimersi, anche all’ombra dell’algoritmico anonimato, è una valvola di sfogo della violenza e della noia, della stupidità e della maleducazione, uno dei veri mestieri o addirittura una delle missioni dei social network .
Teniamoci stretti i nostri giornali, però, che difendono la libertà con la parola démodé , i caratteri cubitali dei titoli, i testi spesso pieni di sottigliezze, i nostri giornali che riscattano dalla censura algoritmica un secolo che si annuncia e già si manifesta come pericoloso.
Almeno, pericoloso per generazioni di umani ai quali piace vivere liberi. Sopra tutto, liberi dal pregiudizio che si veste di toghe e di algoritmi con una impressionante progressione e facilità. Ho già detto con ironia che siamo tutti puttane, e sebbene Facebook censuri questa espressione, devo aggiungere da liberale che siamo tutti froci.