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 2013  giugno 30 Domenica calendario

RAMPOLLI DI CRIMINALI: SOLDI, DELITTI, DROGA E BUONE MANIERE

Padre e padrino. “Michael, tuo padre ti vuole bene assai”, diceva don Vito Corleone a suo figlio, tenendolo sulle gambe, mentre era ancora in fasce. E fu così che il giovane Michael, l’indimenticabile Al Pacino, fu destinato all’università, a una vita in apparenza diversa, prima di incarnarsi – comunque – nel “capo dei capi” filmato da Francis Ford Coppola. Il destino dei figli di Camorra, ‘Ndrangheta e Cosa Nostra è sempre quello: c’è un’eredità da gestire. C’è chi eredita un impero e lo distrugge in pochi mesi. C’è chi continua a scalare l’“aristocrazia” mafiosa. C’è poi che il comando – questa è la vera eredità – passa di mano a ragazzini senza passato né futuro; che conoscono solo una regola: far soldi e sparare. E c’è un fatto certo: è raro – forse impossibile – che il padre padrino dica a suo figlio “scegli un’altra strada”. “Penso spesso a quella scena del film - dice un investigatore che si occupa di camorra – perché in tutta la mia carriera non ho mai incontrato un boss che dicesse a suo figlio: fatti un’altra vita; eppure i boss lo sanno: seguendo la loro strada, i figli, finiscono ammazzati o in una cella d’isolamento”. Questo è il destino dei “figli d’arte” delle mafie italiane. Ma può accadere di peggio. Basta sfogliare gli atti di “cuccioli di camorra”, un’inchiesta napoletana di sette mesi fa, e leggere la storia di Teodoro Napoli. Era figlio d’un padre povero, onesto e Teodoro confidava all’amico Michele: “Papà quando non lavora si sente in depressione, si sente un nullafacente, ma a noi è diverso... noi ci siamo scelti un’altra vita, quella di vedere i soldi... dobbiamo tenere i soldi, Michele”.
TEODORO È AMBIZIOSO. Suo padre non è un padrino: nell’ambiente criminale, Teodoro, è un figlio di nessuno. E si lamenta dei “figli di”, che esistono anche nelle mafie, perché Teodoro non sopporta i rampolli dal cognome famoso, che in fondo valgono meno di lui: “Perché, Michele, lui secondo te tiene il coraggio di schiacciare la testa a uno? Ma parliamoci chiaro, dai. Michele, quello purtroppo tiene il nome... basta... punto...”. C’è chi “tiene il nome”. Basta. Punto. E c’è chi il nome non lo tiene. C’è un’aristocrazia criminale e c’è un proletariato. C’è una voglia di riscatto sociale all’incontrario: Teodoro progetta di avviare, in proprio, una piccola “piazza di spaccio”. Siamo nel 2001. Vuole vendere droga che “ruba” alle partite trattate dal clan. “Pagine da leggere nelle scuole”, scrive il Gip Anna Maria Terzi, perché Teodoro “non fa in tempo ad assaporare la vita che s’è scelto”. Muore ammazzato venti giorni dopo. A soli 26 anni, a Torre Annunziata, mentre guida una Opel Corsa e calza un paio di Hogan. Il padre tenta invano di salvargli la vita portandolo all’ospedale di Boscotrecase. Era un padre, non un padrino, e per suo figlio immaginava un futuro diverso. Lo scenario si capovolge a Secondigliano, nell’ex impero di Paolo Di Lauro, al secolo Ciruzzo o’ milionario. Nei primi anni 2000, sotto la sua guida, a Secondigliano arrivavano tre quintali di cocaina l’anno, importati dalla Spagna o dalla Colombia. Paolo Di Lauro prende in società i suoi figli: affida delle quote a Cosimo e Vincenzo. L’importatore di cocaina, Raffaele Amato, critica pubblicamente questa scelta. E così, quando il padre diventa latitante, il giovane Cosimo prende il comando del clan e decide di saldare i conti. È la fine di un impero. Amato per evitare conflitti emigra in Spagna. La strategia del padre, che aveva consentito di creare e comandare un impero criminale di dimensioni mondiali, è distrutta dall’intemperanza del figlio. Nel 2004 si tengono due incontri per tentare la riconciliazione con un uomo di Amato tenuto in ostaggio per tutto il tempo da Marco Di Lauro – per motivi “cautelari” – mentre si tiene un summit in un appartamento. Gli uomini armati di Amato si nascondono in un’altra abitazione sullo stesso pianerottolo, per intervenire a protezione del capo. Cosimo pone una duplice condizione: Amato deve restare per sempre in Spagna. E deve uccidere due uomini del suo stesso clan: hanno tradito Cosimo Di Lauro. Condizioni inaccettabili. Amato rifiuta. E Cosimo Di Lauro ordina altri omicidi. Deride i parenti di Amato durante una manifestazione di piazza. Raffaele Amato, nell’agosto 2004, decide la “discesa” a Secondigliano: è guerra. Progetta di colpire con un bazooka i Di Lauro nell’abitazione di famiglia. Inizia la prima faida. Avviene la scissione. L’impero, sotto la guida di Cosimo, si trasforma in semplice feudo. Nove anni dopo c’è una frantumazione di clan e cartelli. A guidarli altri figli d’arte. Giovanissimi. Spietati. Antonio Mennetta (27anni, a 19 era già un killer del clan Di Lauro), Marco Di Lauro (27enne, latitante da otto anni, il vero capo dell’omonima famiglia) Mariano Riccio (21 anni e già latitante) e Mariano Abete (21enne, anch’egli latitante). Ragazzini senza scrupoli e con scarsa esperienza. E Cosa Nostra? “Finché ci saranno ragazzi come Michele Sciarabba – dice un altro investigatore – Cosa Nostra avrà sempre un futuro”. Lo chiamavano “mister x”, hanno scoperto il suo spessore e il suo carisma, equiparabile a quello di altri eredi di “uomini d’onore”, come Sandro Lopiccolo, Gianni Nicchi, Sandro Capizzi. “La loro scuola – continua l’investigatore – resta la borgata, il pizzo, l’ambiente criminale: sono loro l’evoluzione di Cosa Nostra, che si affida a chi sa darsi da fare”. Certo, l’evoluzione di Cosa Nostra è legata a Matteo Messina Denaro, che ha saputo introdursi negli affari dell’energia pulita, e mantiene il suo ruolo da “capo dei capi” e latitante leggendario, ma i figli seguono le orme dei padri, restando per strada ad accumulare potere, facendo strada nella malavita e non, come Michael Corleone, introducendosi nei salotti della buona borghesia. L’unica vera eccezione è la ‘ndrangheta, dove alcuni rampolli delle famiglie Pelle e Piromalli – figli o nipoti – hanno lasciato i regni dei padri per studiare e magari crescere nell’alta borghesia. Oppure – come nel caso del clan Tripodi – si affidano a giovani rampanti che entrano nella “bella vita” capitolina e trovano il contatto con il marito di Maria Grazia Cucinotta, Giulio Violati. Quindi l’ingresso nei palazzi del Parlamento per fiutare nuove conoscenze e ricchi appalti. Almeno in tre casi, in tre famiglie, che si trovano in tre distinti mandamenti, figli e nipoti hanno tentato la scalata alla borghesia: i Pelle sulla costa jonica, i Di Stefano nella zona centrale, i Piromalli su quella tirrenica. Il 44enne Gioacchino Piromalli – nipote del capo cosca, arrestato, poi assolto – è diventato avvocato. Ed è avvocato – ma non coinvolto in procedimenti giudiziari – anche Giorgio De Stefano, nipote di don Paolino, nome leggendario della ‘ndrangheta, e cugino di Peppe De Stefano, ritenuto l’attuale boss della famiglia.
“TRA LE MAFIE ITALIANE – spiega un investigatore – solo la ‘ndrangheta ha spinto alcuni figli a inserirsi nella società dei colletti bianchi. E questo avviene perché, in generale, la ‘ndrangheta ha una strategia ben precisa. Ha creato una figura, il ‘santista’, che ha un ruolo definito: tenere i rapporti con la Pubblica amministrazione. Ed è naturale che i figli dei ‘santisti’, a loro volta, vengano avviati agli studi, per poter poi occupare i posti che contano. La ‘ndrangheta sa guardare lontano”. Avvocati. Liberi professionisti. Eccezioni di ‘ndrangheta. Dove la regola, però, resta sempre la stessa: nelle famiglie d’onore il nome del padre è tutto. E tutto avviene in nome del padre.