Antonio Gnoli, la Repubblica 30/6/2013, 30 giugno 2013
ADRIANA ASTI - “MI SONO SALVATA QUANDO HO SCOPERTO IL PIACERE DI ESSERE GUARDATA”
Mentre osservo Adriana Asti comodamente seduta nel suo salotto romano penso che la grandezza di un attore sia data da un’infinità di sfumature. Piccolissime cose. Spesso trascurabili nella vita normale. Come accendersi una sigaretta, poggiare una mano su una guancia, ravvivarsi i capelli. Perfino accavallare le gambe — il gesto più naturale in una donna — assume in certe attrici un tratto liturgico. Ecco, mentre parla, avvolta in una poltrona color coccodrillo, il corpo di Adriana Asti — così raccolto, teso e armonioso — mi appare sovranamente lontano, ma al tempo stesso familiare. Chiamerei questa dote l’arte di lasciarsi guardare. «Mi sembra un principio naturale a teatro. Sopra un palcoscenico è facile essere il punto di convergenza di tutti gli sguardi. C’è un’enfasi voyeuristica che cresce e dilaga fino a diventare quel rito liturgico che di norma appartiene alle religioni», dice con una voce che si modula nel respiro. «Per lungo tempo non mi sono sentita attrice. E forse non ho avvertito neppure il mio corpo» aggiunge con dolente e misteriosa rassegnazione.
Cosa significa negare, negarsi?
«Prendere la distanza dagli altri o da sé. O forse è il mondo che si allontana. È tutto uno strano equilibrio di stati d’animo che contrastano. Oggi la paura, domani la gioia, poi ancora lo sconforto e di nuovo il sentirsi in sintonia con se stessi».
Questa è la vita. Ma il teatro?
«Per me il teatro è stato una via di uscita dalla vita, o forse di entrata. Dipende da cosa intendiamo con vita. Certo non sono nata con l’idea di recitare. Nella mia mente molto giovane c’era solo il desiderio di andarmene senza sapere dove. Ho scoperto tardi il piacere di essere guardata. Per lungo tempo ho pensato di essere una pessima attrice».
Pessima?
«Sì, ma non mediocre. C’è una differenza tra la mediocrità che è una condizione dalla quale non si esce e apprendere le tecniche di un mestiere. Del resto, non ero tra quelle che fin da bambine pensavano di recitare».
E come arrivò al teatro?
«Quando me lo hanno chiesto. Si presentò come una via di uscita. Un’alternativa secca alla famiglia. Ma non avevo attitudine. Ero solo bellina. Poi, durante una commedia di Goldoni, scoprii improvvisamente il piacere di recitare, di consistere, di essere lì, nel posto giusto. Ammirevole e ammirata ».
Fu un colpo di narcisismo?
«Per mostrarsi narcisi bisogna essere sprovvisti di ironia e di pensiero e coltivare le illusioni del proprio ego; bisogna non avere discernimento. Cosa che non mi è mai riuscita. D’altra parte, mi ritengo un’ottimista, anche se non ce ne sarebbe motivo. Visconti diceva che l’ottimismo è come la grazia, se ce l’hai non è per tuo merito».
Ha lavorato con lui?
«Oh sì, a teatro e al cinema. È stato un privilegio essere diretta da lui. Era raffinato e incline al perfezionismo. Questo lo rendeva distaccato. Sembrava che guardasse il mondo con una certa condiscendenza».
Anche le persone che gli erano più intime?
«Credo che Luchino non abbia mai amato nessuno veramente. Però era lusingato dalle attenzioni che gli altri gli rivolgevano. Di lui si infatuò perdutamente Elsa Morante. Ne era felice, ma la teneva a distanza. Fui molto amica di Elsa e la vedevo soffrire».
Che senso aveva questo amore non corrisposto?
«Nessuno, era una pura infatuazione. Del resto Elsa non aveva mediazioni. Ricordo che quando Natalia Ginzburg scrisse per me la commedia Ti ho sposato per allegria, dichiarò che era orribile».
Lo disse per rivalità?
«No, era sincera. La trovava convenzionale. Del resto non le piaceva neppure Pirandello. E poi non erano due donne fatte per intendersi. Natalia possedeva una forma di educazione culturale totalmente assente in Elsa. Una aveva un talento coltivato nella discrezione, l’altra era una vera e propria forza della natura. Esposta sempre a scelte drastiche. Come appunto nel caso di Visconti».
È vero che Visconti le chiese di recitare nuda?
«Sì, più che chiedermelo me lo impose. La commedia era Old Times e si rappresentava all’Argentina di Roma. Dovevo comparire in palcoscenico con un accappatoio che mi sarei sfilato per restare nuda. Scoppiò uno scandalo enorme. La polizia interruppe lo spettacolo. Oltretutto, Harold Pinter che assistette a una rappresentazione, reagì malissimo. Disse che la regia di Visconti faceva schifo e tolse i diritti, impedendoci di andare avanti».
Visconti come reagì?
«Con sovrana indifferenza. Mentre per me si aprì un’imprevedibile carriera nel nudo».
Cosa accadde?
«Mi chiamò Luis Buñuel a recitare ne Il fantasma della libertà. Durante le riprese mi fece sedere nuda davanti a un pianoforte che avrei dovuto suonare. Lui collocò la macchina da presa sotto il piano, quasi tra le mie cosce, sussurrandomi: “signora stia tranquilla non sono un vecchio sporcaccione”».
Com’era?
«Un omino piccolo, apparentemente senza nulla di speciale. Eppure se guardavi gli occhi lievemente sporgenti ti sembrava di vedere tutto il suo grande passato. Per certi modi somigliava a Pasolini».
In che senso?
«A entrambi facevano orrore le convenzioni. Comunque, dopo Buñuel fu la volta di Tinto Brass con Caligola. Interpretavo la parte dell’amante di Macrone. Arrivavo distesa nuda su di una lettiga con accanto dei giovinetti che simulavano la masturbazione. Un delirio. C’era Peter O’Toole nudo nella parte di Tiberio; John Gilguld nudo in una vasca di sangue finto senza che pronunciasse una parola. Lì ho capito che gli organi maschili sono unici come le impronte digitali. Il film subì un numero imprecisato di processi per oscenità. Nessuna attrice avrebbe mai osato fare ciò che ho fatto io».
Cos’è la volgarità?
«È una forma di squallore mentale. D’impoverimento dello stile. Si può essere vestiti di tutto punto e mostrarsi volgarissimi. Ricordo che da bambina mi colpivano certi personaggi addobbati come pali con le luminarie: cravatte improbabili, giacche più piccole di un paio di taglie, scarpe scintillanti. La volgarità, pensavo, era il ridicolo».
La sua infanzia come si è svolta?
«Nel peggiore dei modi. Non vedevo l’ora di liberarmi dalle oppressioni familiari. A un certo punto cominciai a vomitare. Ero molto malandata. I miei provarono a farmi fare una cura del sonno. I medici decretarono che era esaurimento nervoso. Dopo vari tentativi fui portata da quello che allora era considerato il massimo in fatto di psicoanalisi: Cesare Musatti».
Come fu il rapporto?
«All’inizio mi vergognavo. Poi dopo un periodo di mutismo, cominciai a parlare. Devo dire che non fu mai un rapporto ortodosso. A un certo punto voleva che facessi l’attrice. E veniva spesso a sentirmi recitare a teatro. Mi spinse perfino a divorziare dal mio primo marito».
Chi era?
«Fabio Mauri. Il nostro fu un matrimonio deludente, a tratti pessimo. Abitavamo in via dell’Oca e vedevo spesso Moravia, che risiedeva nello stesso palazzo. Quando lo incontravo gli dicevo: non ne posso più di Fabio, me ne voglio andare. E Alberto rispondeva: lascia stare, tanto è inutile. Ricadresti in una storia analoga. Un giorno presi coraggio e dissi a Fabio: esco, ma torno subito. Non ci siamo praticamente più rivisti».
Cosa le ha dato Musatti?
«Un po’ di sicurezza. Gli attori sono fragili. Spesso i registi lo dimenticano. Ho lavorato tra gli altri con Bertolucci, Pasolini, Strehler, Ronconi. Sono stati compagni di viaggio. Musatti invece era il padre che volevo. A volte, per dirle l’assurdità della situazione, sembrava che fossi io a psicanalizzare lui. Che personaggio! Morì che era così vecchio da indurmi a credere che non sarebbe mai accaduto».
E quando accadde?
«Soffrii, ma in fondo era naturale. Pensai che avrei voluto morire così, in pace con le cose fatte, lucida e senza disperazione. Andarmene non mi è mai dispiaciuto. È una parte che ho sempre eseguito benissimo».
Cosa la consola di questo pensiero?
«Non lasciare tracce. Non ho la fede, non credo in Dio. Sebbene abbia da piccola studiato in una scuola di suore tedesche non mi è restato l’imprinting. È un bene? È un male? Non lo so. So che quando mi ammalai di cancro non cercai rassicurazioni in alto loco».
Come reagì?
«In un primo momento fu l’incredulità a prevalere. Ero stata a Parigi a farmi visitare. Mi dissero brutalmente che avevo un cancro. Pensai che fosse una malattia silente. E che il silenzio andasse rispettato. Lo dissi solo a Giorgio Ferrara, il mio nuovo marito. Mi operai e per cinque lunghi anni ho assunto medicine per la chemio e per altro ancora».
Cosa voleva dire convivere con quel segreto?
«Non era un segreto. Pensavo che facendo finta di niente il cancro sarebbe stato cancellato dal mio corpo. Non credo all’idea che si possa lottare contro la malattia. Non vi è alcuno scontro. Sono balle. Non ho lottato, sono solo stata zitta. Mi faceva così orrore la possibilità di morire a quel modo che non ne parlavo. Lo raccontai, in aggiunta, soltanto alla mia amica Susan Sontag. Mi rispose che il suo cancro era peggiore del mio».
Come aveva conosciuto la Sontag?
«Girammo un film in Svezia tratto da un suo testo. Il titolo era qualcosa come Duetto per cannibali. In Italia divenne: La tarantola del ventre caldo. Naturalmente la tarantola ero io. Capisce il ridicolo di questo paese? Comunque durante il film progettammo di fare un viaggio assieme. Ma ci furono litigi e incomprensioni per cui alla fine ci lasciammo un po’ così».
Così come?
«Come due donne che si distaccano per differenza di veduta e di carattere. Susan era straordinariamente intelligente e adorava la cultura europea. Ma sapeva essere una donna molto dura. Con la malattia divenne più affettuosa. Il cancro ci ha riunite. Ho vissuto la sua scomparsa con un senso di abbandono».
“Abbandono” è una parola che ricorre spesso nella sua vita.
«Ora che mi ci fa pensare nelle due opere che reciterò per il Festival di Spoleto — tratte da Jean Cocteau — l’abbandono è centrale. Non sono mai stata abbandonata, ma ho spesso abbandonato. È un tratto della mia vita».
Lo fa con più piacere o più colpa?
«C’è molta colpa. Un insormontabile senso di colpa. Però che piacere si prova nel tornare a sentirsi liberi».