Stefano Bartezzaghi, la Repubblica 30/6/2013, 30 giugno 2013
CHI SI AGGIORNA È PERDUTO
Concetti probi e ineccepibili possono voltarsi in incubi e iatture. Quanto ci si sentiva civili e lungimiranti, in passato, nel curare di essere sempre aggiornati! Due o tre quotidiani al dì, riviste, libri, cinema, mostre, concerti, teatro. In tutti i temi dell’attualità, nei vari settori, si doveva avere almeno un’infarinatura, per non trovarsi sprovveduti e dover ammettere malinconicamente: non l’ho visto, non l’ho letto, non ci sono stata o stato, non so di che si parla. Nei corsi d’aggiornamento per docenti (che li seguivano spesso su base volontaria e rinunciando a parte del loro tempo libero) si esprimeva la necessità dello studio continuo, per tutti, a partire dal luogo che allora era considerato alla base della società: la scuola. L’aggiornamento era una qualità, non una merce venduta con un nome suggestivo e vagamente ricattatorio. In generale, allora, si aveva l’idea che i tempi corressero, e noi dietro. Ora i tempi hanno corretto l’idea medesima.
Stai scrivendo, per quanto ne sai tu potrebbe anche essere la nuova Critica della ragion pura: hai qualcosa in testa, le dita corrono sulla tastiera, hai spento il telefono perché è una mattinata buona. Oppure stai stabilendo record sul tuo videogame preferito; stai cambiando vita con un’email; stai chattando col tuo amico, stai facendo quegli affari tuoi promessi già dall’aggettivo della dizione «personal computer». All’improvviso il computer si mette a litigare col «personal». Pop! Una finestra rossa piena di punti esclamativi ti dice che il tuo computer è in pericolo e ti conviene scaricare l’aggiornamento dell’antivirus. Pop! Programmi (di computer) utili e inutili fanno stalking e mobbing ai tuoi programmi («personal» e magari di lavoro) con ingiunzioni del tutto antisindacali, ma altrettanto insindacabili. «L’aggiornamento è stato correttamente installato. Riavviare il computer ora». «Messaggio urgente dal tuo computer». «Il computer verrà riavviato automaticamente tra 15 minuti». «Installazione aggiornamenti, attendere. Non scollegare il computer». Altro che rime o dame di San Vincenzo! La petulanza dell’attuale nozione di aggiornamento pareggia quella dei venditori stradali di fiori: non sei più tu a inseguire la fata morgana dell’aggiornamento, ma è lei che ti raggiunge ovunque, ti tampina, ti dà tocchetti sulle spalle, non ti lascia lavorare, conversare, oziare, amare, in poche parole vivere in pace.
I pop-up che sbocciano sul nostro desk virtuale di lavoro sono solo il pungolo più acuminato e penetrante di quel vasto dispositivo retorico, simbolico e commerciale che oggi è divenuto l’aggiornamento. Da quando le macchine vengono catalogate per “generazioni” a essere ritenute aggiornate sono innanzitutto loro e a noi spetta una sorta di obsolescenza continuamente rinnovata. I software che avevamo imparato a usare non vanno più, i sistemi operativi cambiano con la frequenza della grafica dei giornali in crisi cronica, utili funzioni spariscono o vengono celate in regioni remote del menu, altre con nomi astrusi scodinzolano per essere da noi adottate. Come dire che prima che utenti del nostro computer, del nostro tablet, del nostro smartphone, noi siamo costretti a esserne gli allevatori.
Nell’ardente catasta delle novità, questo andamento di informatica e telematica offre a tutto il resto del marketing onnipervasivo metafore pronte per l’uso. Una su tutte, il mito del “2.0”. Se la fata morgana prende il nome dal fenomeno ottico che illude di vedere da lontano un oggetto per aria — la bottiglia nei deserti delle vignette umoristiche —, il miraggio altrettanto irraggiungibile del “2.0” ne è la reincarnazione contemporanea. Di un “Internet 2.0” si sente parlare da almeno dieci anni; a occhio dovremmo essere invece arrivati almeno al “7.9”. No, il “nuovo” continua a essere simboleggiato dal mitico secondo stadio, che deve essere come la vita di beatitudine eterna che le religioni promettono dopo quella presente, e umile. E non si parla solo di Web 2.0. Una frugale ricerca su Google mostra alle prime posizioni “Enterprise 2.0”, “Alice 2.0 nel Paese dell’Energia”, “Enoteche 2.0.”, una “App Sindone 2.0”, un’allarmante “Democrazie 2.0” e una stuzzicante “Archeologia 2.0”.
L’ossessione dell’aggiornamento è da mettere in relazione con una più generale perdita di staticità e stabilità di oggetti, relazioni, funzioni, istituzioni. Dagli orologi alle leggi dello Stato, dalle attività professionali ai libri e al mobilio, non c’è più nulla che non sia o immediatamente caduco o sempre riconfigurabile. “Reset” è la parola d’ordine, se non il primo comandamento. In questa specie di tremolio generale delle cose (quelle che si vedono e quelle che non si vedono) ognuno insegue trend ipotetici, congettura direttrici, esplora margini, nel tentativo di non sentirsi distaccato da un mondo che viaggia sempre sulla corsia di sorpasso. Almeno, ci si sente invitati a far così, anche se poi, nella pratica, ognuno lenisce l’ansia del precariato morale (quando non proprio materiale) consolidando le abitudini annose che può consolidare, in una specie di hobbystico modernariato di se stessi. Segretamente e golosamente disaggiornati dove possiamo (negli abiti o nei gusti musicali, se non nelle dotazioni tecnologiche), possiamo scoprirci prede di nostalgia non solo per i vinili o per le merendine d’epoca, ma anche per oggetti e software desueti (ah, Word 4, come andava bene! ah, i deflettori e i finestrini a manovella, come non si rompevano mai!).
Già Ugo Fantozzi, insospettabile pioniere, sognava di sostituire la moglie Pina «con una di modello più recente, tipo Marisa Mell» (Marisa Mell, attrice austriaca, 1939-1992). Se in quei primi anni Settanta la mercificazione del lavoro umano e quella del ruolo femminile era un tema presente in tutta la critica sociale (le cui radici risalivano sino all’alienazione marxiana), ora assistiamo al fenomeno opposto: una umanizzazione delle macchine, un animismo cosale, che ci porta, più o meno consapevolmente, ad attribuire una psiche vera e propria alle macchine con cui interagiamo e di cui ci retrocediamo a «interfaccia ». Non più status symbol, gli oggetti fanno dello storytelling: ci invitano a partecipare come attori (ma non primi protagonisti), alla storia che ognuno di loro intende raccontarci. In questa storia, siamo noi i loro aiutanti. Loro vanno avanti, noi restiamo fermi. Per aggiornare loro, blocchiamo noi stessi.
Quel che macchine, servizi e beni di consumo ci propongono, alla fine dei conti, è un “benessere”. Prima, noi “facevamo” e gli oggetti “erano” (statici simboli di uno status). Ora, gli oggetti promettono di “fare” e in particolare di “farci” stare bene. “Stare bene” è considerata una bellissima cosa, soprattutto perché mettiamo sempre l’enfasi sull’avverbio “bene”. Ma se vogliamo essere aggiornati noi, prima che le nostre dotazioni tecnologiche e consumistiche, una volta o l’altra dovremmo mettere l’accento sullo “stare”.