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 2013  giugno 30 Domenica calendario

LABORATORI DELL’IMPOSSIBILE


Se una missione è impossibile, loro sono lì. Ma non sono agenti segreti con licenza di uccidere. Sono scienziati con la voglia matta di cambiare il mondo. Di fare qualcosa di stupefacente, assurdo, grandioso. Non sono megalomani, sono innovatori. Il laboratorio che meglio li rappresenta in questo momento si chiama Google X. È stato creato nel 2010 ed è il luogo dal quale sono venuti alcuni dei progetti più fantascientifici di questi anni: la macchina che si guida da sola; gli occhiali, i Glass, collegati alla rete con realtà aumentata; e l’ultimo, il più incredibile, Loon, una rete di piccole mongolfiere per portare Internet dal cielo a due miliardi di persone ancora non connesse. Perché? «Ci occupiamo di qualunque cosa rappresenti un immenso problema per l’umanità per vedere se possiamo trovare un modo per risolverla» è la risposta di Eric “Astro” Teller, 42 anni, il bizzarro direttore del laboratorio che deve avere il gene del genio nel sangue visto che il nonno materno è un Nobel per l’Economia, quello paterno è il famoso Edward Teller, protagonista del Manhattan Project e fra i padri della bomba atomica.
Il tema delle missioni impossibili non è affatto nuovo. Nella storia della scienza ci sono moltissimi episodi in cui ci si è alleati per raggiungere una meta che appariva troppo lontana — lo sbarco sulla Luna è il più famoso, la bomba atomica il meno popolare — oppure in cui un grande premio ha innescato una gara di cervelli. Ma è in questi ultimi anni che il tema è tornato di moda. E questo per una combinazione di tre fattori: la grande spinta della innovazione tecnologica; la disponibilità di capitali nelle aziende che controllano Internet; le sfide planetarie che abbiamo davanti. Nel 1995 Peter Diamandis ha fondato X Prize una fondazione che si è data il compito di “rendere possibile l’impossibile” attraverso competizioni pubbliche con premi ragguardevoli: dieci milioni di dollari per esempio per la prima organizzazione non governativa che fosse riuscita a lanciare due volte nell’arco di due settimane un veicolo spaziale riutilizzabile con equipaggio a bordo. La cosa ha avuto molto successo perché ha generato decine e decine di progetti, alcuni perfettamente funzionanti. I voli spaziali turistici verranno da lì.
Con lo stesso meccanismo ma con un approccio più umanitario e meno tecnologico si muove il Ted Prize, il premio da un milione di dollari messo in palio dalla famosa conferenza sulla innovazione che si tiene ogni anno in California e in Europa. Quest’anno lo ha vinto l’indiano Sugata Mitra con un progetto per portare le lezioni scolastiche a tutti i bambini poveri usando una piattaforma Web. Tanto entusiasmo per il futuro e le sue opportunità ha generato, nel settembre 2008, addirittura una specie di università, la Singularity University, la cui promessa è «utilizzare la crescita esponenziale della tecnologia per risolvere le grandi sfide dell’umanità » attraverso corsi estivi di dieci settimane per quattro anni. Sta in California, naturalmente, e la guida lo stesso Peter Diamandis che abbiamo incontrato sugli X Prize. Ma il nume tutelare è il futurologo Ray Kurzweil, uno dei più poliedrici inventori dei nostri tempi da qualche mese in forza a Google. E qui arriviamo a X, il laboratorio segreto che la società di Larry Page e Sergey Brin ha aperto da qualche anno. È stato costituito con l’idea di diventare una fabbrica di moonshots, “colpi lunari”, ovvero quelle scommesse scientifiche che si realizzano solo una volta su un milione. Perché ciò accada c’è bisogno di moltissimi soldi (Google li ha), di una fiducia illimitata nelle potenzialità della tecnologia (idem) e di un team di scienziati pronti a cambiare tutto. Google li ha scovati, uno per uno.
La sede di X è in un paio di edifici di due piani, mattoni rossi, a meno di un chilometro dal quartier generale di GooglePlex, a Mountain View. Sono piuttosto anonimi, l’unico indizio è un’auto da corsa che si guida da sola parcheggiata fuori. Ma pare non funzioni: è stata messa lì un giorno come pesce d’aprile, e ci è rimasta. Ma un’auto che si guida da sola qui è stata pensata e realizzata: è una LexusRX450h bianca, ha sul tetto un laser da 65 mila dollari e ogni tanto viaggia sulla freeway 101 che attraversa la Silicon Valley a 70 chilometri orari. Il responsabile del progetto è Chris Urmson, un ex ricercatore della Carnegie Mellon che si è arruolato in X perché affascinato dalla possibilità di fare cose che all’università non si possono sperimentare.
Pare che per il co-fondatore di Google Sergey Brin, che segue il progetto X, l’auto-robot arriverà sulle nostre strade in cinque anni al massimo. Forse ci vorrà più tempo, non per problemi tecnologici ma piuttosto etici: «Chi è responsabile se un’auto che si guida da sola fa un incidente? E come deve comportarsi un’ auto robot se ha davanti una mamma con un bimbo, ma sterzando ucciderebbe un vecchietto? Sono dilemmi che temo non saremo in grado di risolvere», secondo Duncan Watts, il giovane genio della rete che dirige i laboratori di Microsoft New York City. Ma anche se l’auto che si guida da sola dovesse restare in garage ancora un po’, il progetto ha comunque il merito di aver innescato la nascita di Google X. Era il 2005 quando l’altro fondatore di Google, Larry Page, incontrò per la prima volta il professore di Stanford Sebastian Thrun che aveva realizzato un veicolo senza pilota che doveva attraversare il deserto Mojave per dieci chilometri. Nel 2009 assunsero Thrun con tutto il suo team e gli dissero: dieci chilometri nel deserto non bastano, fanne uno in grado di guidare per 1500 chilometri per le strade della California. Missione compiuta. Di qui l’idea di aprire X, nel gennaio 2010, e mettersi a sperimentare l’impossibile. Budget: segreto, ma una indicazione viene dal fatto che Google nel 2012 ha speso 6.8 miliardi di dollari in ricerca e sviluppo, con un aumento del 70 per cento in due anni.
Il secondo progetto sono stati i Glass. In questo caso Page e Brin hanno assunto Babak Parviz, un ingegnere elettronico della università di Washington che aveva scritto un documento sulla possibilità di realizzare delle lenti a contatto sulle quali proiettare immagini. I primi prototipi sono in test in tutto il mondo, a fine anno inizia la vendita. Anche qui, nonostante i dubbi di molti sul possibile successo commerciale, missione compiuta.
I prossimi progetti? Prevederli è l’unica missione davvero impossibile. Alla segretissima conferenza “Solve for X”, una riunione di cervelloni a porte chiuse che si è tenuta a febbraio a CordeValle, un resort dalle parti di San José, pare che si sia parlato di robot gonfiabili, di un sistema per esaminare l’occhio e individuare l’Alzeheimer, di reattori a fusione nucleare mentre il teletrasporto per ora sarebbe stato accantonato quando è stato fatto presente che teoricamente puoi teletrasportare un Picasso, come si vede in Star Trek, ma il quadro arriverebbe a destinazione distrutto. Ci riproveranno, con una certezza, che uno degli ospiti di CordeValle ha scolpito per i presenti: «L’unica certezza è che se non ci proviamo non accadrà».