Vittorio Zucconi, la Repubblica 30/6/2013, 30 giugno 2013
10 LUGLIO 1943 – IO C’ERO
[Phil Stern]
Seduto davanti al suo monitor, con il cappellino da baseball un po’ sghembo sulla testa e gli “occhialini” dell’ossigeno al naso per compensare decenni di sigarette, l’uomo che vide in faccia Marilyn Monroe e la morte in guerra mi parla e ride, ricordando e scatarrando: «Ho visto Marilyn nella sua casa e le navi da guerra esplodere sotto le bombe degli Stukas, gli occhi blu senza fine di Sinatra e i piedi di James Dean, ma prima di morire voglio rivedere la Sicilia».
Dalla profondità dei suoi 93 anni che stanno per diventare 94, Phil Stern, il fotografo che ha scolpito sessant’anni di immagini dell’America, delle sue battaglie, dei suoi eroi popolari e delle icone hollyoodiane, si prepara per un lunghissimo viaggio nella memoria che lo deve riportare dove la sua vita di cacciatore di luce era cominciata: nella notte di settant’anni or sono, quando la flotta alleata partita da Tunisi lanciò l’“Operazione Husky”, lo sbarco in Sicilia. Fu il primo assalto diretto alla “Fortezza Europa” presidiata dalle armate tedesche e italiane, un anno prima del D-Day in Normadia. E l’inizio della fine per fascismo e nazismo.
Da Los Angeles, dove vive, e da dove ci parliamo via Skype, a Gela, dove Phil sbarcò all’alba del 10 luglio 1943. Occorre un certo coraggio per affrontare un viaggio aereo dalla California a New York, poi a Roma e a Catania, pregando gli dei bizzosi delle coincidenze, e poi gli ultimi cento chilometri in auto, con la bomboletta dell’ossigeno a tracolla. Ma anche questa odissea è poca cosa rispetto al coraggio richiesto a un soldato di 24 anni del Signal Corp, il Genio Trasmissioni americano, con il braccio destro menomato dai proiettili nella campagna di Tunisia, due macchine fotografiche al collo — «tutte e due tedesche», ride scuotendo i bronchi scassati, «una Contax 35 millimetri e una Rolleiflex indistruttibile» — e una carabina M1 sulle spalle dalla quale non sparò mai un colpo: «L’avessi usata, mi sarei probabilmente sparato sui piedi».
Se avessero detto a quel sergente, fotografo ufficiale delle operazioni di guerra, fra i tanti che la Us Army impiegava, che dalle colonne di sabbia sollevate dal bombardamento navale, dalle immagini del cacciatorpediniere Us Maddox centrato in pieno ed esploso sotto gli attacchi degli Stukas pilotati da aviatori italiani, sarebbe passato alle curve di Marilyn Monroe, al ciuffo di John “Jack” Kennedy e alle ultime pose di James “Jimmy” Dean prima di schiantarsi, ci avrebbe creduto. «Già prima di essere arruolato lavoravo come free lance sui set, negli studi, nei ristoranti, un po’ alla paparazzo prima che inventassero il nome. Lavoravo per Life, Look, Saturday Post. Per questo l’esercito, nella sua infinita saggezza, pensò di farmi fotografare un mitragliamento a bassa quota di fanti su una spiaggia o i corpi dei soldati feriti». La paga non era affatto male, anche più di quel che il giovanissimo Phil rimediasse a Los Angeles: 72 dollari alla settimana, nel 1943 una fortuna. «Ma c’è da dire che, in genere, attrici e attori non ti bombardano e non cercano di ucciderti».
Le foto che Phil Stern, nato in una famiglia ebrea di New York e poi rotolato sul piano inclinato dell’America della Depressione verso il West e il Pacifico, scattò nei giorni della campagna di Sicilia, risalendo da Gela verso Comiso e poi Catania — il percorso inverso del suo viaggio d’addio — non portano la sua firma perché erano di proprietà della Us Army. Ma lui le ricorda tutte. «Scattavo rullini dopo rullini, senza avere il tempo poi di sviluppare, sperando di avere fermato sul bianco e nero delle pellicole quello che vedevo, fuori e dentro di me. Perché sono i fotografi a fare le immagini, non le immagini a fare i fotografi. Il mondo è uguale per tutti, come lo era il caos di quello sbarco, che divenne al solito un bordello di uomini, anfibi, paura, esplosioni, mezzi da sbarco, grida di portaferiti, come tutte le operazioni e tutte le disposizioni militari in guerra. Avrei dovuto sparare anche io, prima di scattare, ma non me importava niente ». Il suo obbiettivo personal-militare era Comiso, anzi, Comisso come dicono gli americani, e non per costringere tedeschi e italiani alla resa ma per ritrovare un amico italiano, Tom Adamo, che aveva conosciuto a New York. Era un emigrato che aveva lavorato e avuto abbastanza successo nelle Americhe per poter tornare nella sua Comiso a farsi la bella casa e la bella vita. «Avevo l’indirizzo, ma quando arrivai scoprii che la casa non c’era più, e la strada era stata sbriciolata dall’artiglieria».
Come trovò i siciliani? «Avevamo pochi rapporti diretti con la gente, ma quei pochi erano cordiali, anche festosi, quando si convincevano che noi americani eravamo arrivati per restare e che non ci saremmo ritirati. Ma sentivo sempre un poco, come potrei dire, di diffidenza, di distacco anche dietro la festosità e l’allegria». Non fu lunga la sua Conquista della Sicilia. Schegge di proiettili tedeschi d’artiglieria gli entrarono nelle gambe e dopo gli shrapnel incassati in Tunisia, la Patria decise di avere avuto abbastanza sangue da Phil Stern. Fu imbarcato su una naveospedale e rispedito in California. «Sai, fare il fotografo di guerra, in mezzo a pallottole che fischiano, compagni che cadono, bombe che esplodono ti insegna una cosa. Anzi due. Che ci vuole molto culo nella vita, e quello non te lo puoi inventare. E che fare fotografie è una cosa molto seria».
Dopo avere schivato i colpi mortali di tedeschi e italiani, fra Nord Africa e Sicilia, Phil era pronto ad affrontare — seriamente — la guerra delle stelle a Hollywood, meno letali degli Stukas e delle mine antiuomo ma altrettanto imprevedibili. Persino Frank Sinatra, temutissimo dai fotografi, imperioso, riottoso, gli parve un gioco da ragazzi. «Frank aveva davvero due incredibili occhi azzurri, e mi dispiace se è un luogo comune ma era proprio Old Blue Eyes. Era soprattutto un professionista meticoloso, un fanatico. Voleva controllare tutto e da me gli piaceva farsi fotografare di spalle, specialmente negli studi della Capitol Records, dove incideva. Tranne una volta. Mi disse “Phil, fammi una foto con le braccia e le gambe larghe, esattamente come Cristo in croce”. What? “Sì, poi ti spiego”. Gliela scattai e lui la ritagliò. Poi prese una croce di legno e ce la piantò sopra con dei chiodini. La spedì a Mervin LeRoy, un regista importante allora, che non voleva mai dargli parti da protagonista, con un messaggio: “Eccomi Mervin, ora sono come tu mi vuoi”. LeRoy la appese e poi diventarono amici. Ma parti da protagonista, niente». Poi Stern incontrò James Dean, e le foto del “ribelle senza una causa”, divennero l’icona di una generazione. A proposito di fortuna. Una delle sue foto, con Dean che tiene le gambe sulla spalliera di una sedia, fu quella che garantì il pane al fotografo di guerra sbarcato a Hollywood. In primo piano, “Jimmy” indossava un paio di sneakers della Converse e la casa produttrice dovette a quella foto il proprio boom di vendite. Ogni anno, per quarant’anni, la ripescava e la usava per le sue campagne, pagando a Phil 250 mila dollari.
Poi riprese JFK, con qualche scatto candid, rubato mentre il presidente era di passaggio a Los Angeles, e molti di Marilyn Monroe. «Purtroppo non la conobbi mai bene, per me non fu mai nulla, se non un soggetto, una stupenda decorazione. Era gentile, ma lontana, nel suo sex appeal. Almeno per me». Un attacco di tosse: «Credo di essere stato l’unico a Hollywood a non essersela portata a letto», ride e quindi tossisce di nuovo e il catarro ferma qui la storia del soldato fotografo che vuole regalare le ultime boccate di ossigeno all’isola dove avrebbe potuto lasciare il proprio ultimo respiro, settant’anni or sono.