Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2013  luglio 02 Martedì calendario

DOPO L’ONDA CHE SPAZZÒ MUBARAK L’ESERCITO ADESSO RIPRENDE IL POTERE

BEIRUT — Neanche un anno dopo il loro forzato congedo dalla politica, i militari sono tornati ad occupare il centro della scena egiziana. Stavolta non con i carri armati circondati dalla folla plaudente dei manifestanti, che si videro durante la rivoluzione del gennaio-febbraio 2011, ma con gli elicotteri che volteggiano compiacenti sulla marea umana di Piazza Tahrir, ugualmente osannante al loro indirizzo. E’ una storia che si ripete, anzi, a ben guardare, è la storia del moderno Egitto, un grande paese che non riesce a camminare sulle proprie gambe senza appoggiarsi al bastone del suo esercito, da alcuni invocato come l’unica salvezza, da altri odiato come un potere prevaricante ed al di sopra della legge.
Non è un caso che Mohammed Morsi sia il primo presidente non soltanto, come ama ripetere, “liberamente eletto” dal popolo egiziano, ma anche il primo non appartenente alla casta degli ufficiali dalle cui fila sono emersi tutti i raìs che lo hanno preceduto: Ghamal Abdel Nasser, Anwar Sadat ed Hosni Mubarak. E’ stata la Primavera araba a spezzare il cordone ombelicale che per 59 amni, dalla rivoluzione dei “Liberi Ufficiali” del 1952, ha legato l’esercito alle istituzioni politiche della Repubblica.
Buona parte di questi 59 anni, è vero, sono stati vissuti in clima di guerra e di tutte le guerre che l’Egitto ha dovuto combattere quella con Israele è durata oltre trent’anni. Un paese perennemente in guerra deve avere una lunga e solida tradizione democratica, e questo non è il caso del-l’Egitto, per non abbandonarsi nelle mani dei suoi militari. Ma non si può dire che la principale occupazione di Nasser, Sadat e Mubarak sia stata quella di costruire le basi di una vera democrazia. Perfezionarono delle procedure “democratiche” per garantirsi un consenso formale che permettesse loro di tenere in pugno il paese e d’imporre l’egemonia egiziana sul mondo arabo. Nient’altro.
Formalmente fu Nasser a teorizzare il “disimpegno” dell’esercito dalle istituzioni civili. In realtà, ne amplificò il ruolo, non soltanto di “protettore della nazione”, ma anche di protagonista della vita politica, economica e sociale. Ma è con Mubarak che l’esercito diventa un potere prominente (e irre-sponsabile) non soltanto rispetto agli altri poteri dello Stato ma anche rispetto alle altre componenti della società civile. Non parliamo della forza militare in senso stretto (un milione e mezzo di soldati, compresi i riservisti) che ne fa tuttora il più grande esercito del mondo arabo, ma soprattutto dell’impero economico che gestiscono i militari.
Dalle industrie energetiche, alle aziende agricole, dalle costruzioni, alla distribuzione di beni di consumo, alla gestione di proprietà immobiliare e persino di strutture turistiche, l’esercito egiziano, i cui bilanci sono vincolati al segreto di stato, disporrebbe, secondo il giornalista e studioso americano, Joshua Hammer, del 40 per cento della ricchezza nazionale. In un Egitto afflitto da una disoccupazione endemica, l’Esercito è sicuramente il più grande datore di lavoro del paese, sia attraverso i suoi servizi istituzionali che attraverso il vastissimo indotto.
L’esercito istruisce, sfama, cura, promuove, assiste. Il gradimento popolare che solitamente lo accompagna deriva da questa sua capacità di supplire alle spaventose carenze dello stato. Ma non è un gradimento assoluto e per sempre.
Abili nel cercare la sintonia con gli umori della gente, quando è cominciato a soffiare il vento della rivoluzione gli ufficiali non hanno esitato a voltare le spalle a Mubarak. La vera svolta nella rivoluzione del 2011 non venne con la discesa in campo, tardiva, della Fratellanza Musulmana, ma con l’inatt e s a visita, di app o g gio, di solid a rietà con i rivoltosi, alla tendopoli di Piazza Tahir da parte del generale Mohammed Husein Tantawi, ministro della Difesa e Comandante in capo dell’Esercito.
Per 16 mesi, il Consiglio Supremo delle Forze Armate, la Giunta militare, come venne spregiativamente definita, cercò di incanalare il paese sui binari della democrazia. Senza riuscirci, perché i militari al potere non osarono abolire i Tribunali militari istituiti contro i civili dissidenti, né accettarono mai che la nuova costituzione prevedesse un qualche sindacato di controllo nei confronti dell’Esercito-imprenditore. Tantawi fece in tempo a vedere la sua effigie disprezzata dai nuovi occupanti di piazza Tahrir. Poi accetto l’invito di Morsi ad andare in pensione, con il titolo di “consigliere presidenziale”. Oggi sono tornati a rappresentare la speranza in tempi di grande confusione.