Gabriele Romagnoli, la Repubblica 2/7/2013, 2 luglio 2013
IN MORTE DI UN ACROBATA IL SOVVERSIVO
DELL’ARTE –
“QUANDO mi si dice che un funambolo s’è sfracellato al suolo rispondo: ha avuto ciò che si meritava”. Lo ha scritto nel suo Trattato di funambolismo Philippe Petit, il principe sulla corda tesa, l’uomo che camminò nell’aria tra le Torri Gemelle. È una frase terribile alla quale l’autore attribuisce un senso filosofico.
ATROCEMENTE paradossale, ma inevitabilmente vera. Chi va oltre le leggi della vita vuole andare oltre la vita. Il suo traguardo è all’altro capo del filo o dell’esistenza e nel momento in cui muove il primo passo accetta ogni possibilità come un dono. Oppure, cambia lavoro: non ci sono scrivanie sospese a metri da terra.
La morte di Sarah Guyard del Cirque du Soleil è una tragedia (soprattutto per i suoi due figli) ma faceva parte del patto leonino che un artista sottoscrive con il dio dello spettacolo. A differenza di altri dei questo è esigente, capriccioso e non conosce indulgenza. Ancora richiede il sacrificio per rinvigorire la fede dei suoi adepti. Il pubblico (noi) ammira il talento, ma lo adora se la sua esibizione prevede la possibilità dell’incidente. Si mostri la carne, ma si alluda al sangue. Una gara di Formula Uno sarebbe un elettrocardiogramma per mosche, se ogni curva non evocasse un’opportunità letale. Poi si parla di sorpassi, rimonte e pit stop, ma è altro ad aver attratto gli sguardi oltre gli sguardi. Perfino quando si assiste a un talk show è l’incidente che si aspetta: non il picco oratorio, ma la rissa da cortile che degrada politici e giornalisti, precipitandoli da quell’altezza alla quale si erano autoelevati.
L’acrobata è un sovversivo. Chiamiamo educazione un processo che, rendendo l’individuo adeguato alla società in cui cresce, gli pone una serie di limiti e ne atrofizza qualche qualità. Omaggiamo la forza di gravità e consideriamo una dote “stare con i piedi sulla terra”. L’acrobata sa di avere ali ripiegate dentro se stesso. Esercita utopie posturali, usa il proprio corpo come eresia a una pigra religione di vita. Bambini irrequieti ma capaci di concentrarsi per un’ora su un’unghia trovano nel filo un sentiero che conduce oltre lo specchio sul quale non si arrampicano: lo attraversano. Ancora Petit scrive che “I limiti esistono soltanto nell’anima di chi è a corto di sogni”. Il funambolo è una metafora: crede nell’impossibile come ogni devoto, ogni folle, ogni vittima dell’amore. Spettatori senza fantasia parlano di adrenalina, paura, sfida. Quando lo scrittore americano Paul Auster alzò gli occhi verso l’uomo sul filo scrisse: “Questa è arte della vita”. Lui, disceso, disse: “Mentre stavo lassù pensavo alla bellezza, al vento, all’infinito contenuto nel minimo”. La morte? Non è con l’acrobata più di quanto sia con ciascuno di noi in ogni singolo momento. Ci sono gesti talmente belli che dovrebbero essere gratuiti e illegali, sempre. È la loro commercializzazione a uccidere. Di fronte alla caduta il pubblico si rifugia nell’ultima ipocrisia dell’educazione ricevuta, la negazione del dolore come parte dell’esperienza. E dice: “Credevo che facesse parte dello spettacolo”. Indovina un po’? È esattamente così.