Fabio Morabito, Il Messaggero 2/7/2013, 2 luglio 2013
EGITTO, SCARSEGGIANO PANE E BENZINA. UNO SU QUATTRO NON HA LAVORO
Si stava meglio quando si stava peggio. Lo avranno pensato in molti, quando l’economia egiziana ha cominciato a perdere colpi rispetto ai tempi della dittatura di Hosni Mubarak. Il debito pubblico in un anno è passato da 33 a 45 miliardi di dollari, e anche se sono cifre ridicole rispetto al debito italiano (ma tutto è relativo) il malessere di un Paese sul ciglio del disastro è vissuto, in questi giorni, con la scarsità di beni primari, molti generi alimentari che mancano, la benzina che non si trova e le file al Cairo per riempire il serbatoio dell’auto sono descritte come interminabili. Secondo il World Food Program dell’Onu nel 2011, rispetto al 2009, 15 egiziani su cento sono diventati poveri. E la ribellione contro Mubarak - quando la crescita economica c’era, ma il forte inurbamento rendeva più evidenti le differenze sociali - chiedeva democrazia, ma anche il pane. Il pane, come l’elettricità e la benzina, in Egitto - primo importatore al mondo di farina - sono sovvenzionati dallo Stato. Ma lo Stato non ha più risorse per le sovvenzioni. E la disoccupazione è salita al 25%.
Poi, c’è la critica politica a Mohamed Mursi. Troppe attese sono state deluse. Si avverte - e si teme- una più forte islamizzazione. Le diverse anime del Paese non si sono espresse in un’elezione che ha trasferito in Egitto uno schema fin troppo occidentale. Presidenziali in due turni, con il ballottaggio. Ma al ballottaggio Mursi si è trovato contro l’ex primo ministro Ahmed Shafiq, e per la logica del “meno peggio” il candidato dei Fratelli musulmani ha raccolto i consensi di chi peràò non si riconosce in un partito confessionale. Lo stesso Mursi ha ammesso che è stato un errore la modifica costituzionale che gli aveva assegnato nuovi poteri in più. Mursi, parlando al Guardian, ha però detto che era stata la Commissione costituzionale nella sua autonomia ad aver voluto quella legge, e che lui non aveva interferito. Fatto è che gli egiziani hanno pensato che lui stesse per diventare un nuovo Mubarak.
I RAPPORTI CON L’OCCIDENTE
Oltre a questo, il neo-presidente si è trovato a fare i conti con la diffidenza dei partner occidentali. Anche se gli Stati Uniti, ora, sono schierati con lui, al punto che nella protesta di piazza sono riconoscibili gli accenti anti-americani. Poi c’è la diffidenza dei turisti. L’Egitto ha costruito le sue cattedrali del turismo sul Mar Rosso, a Sharm el Sheikh (ed è qui che Mubarak si è voluto ritirare, dopo le dimissioni, prima di essere arrestato). Ma l’impressione che si va diffondendo già da tempo è quella di un Paese instabile, e questo ha un effetto deleterio su una delle industrie più redditizie di questa economia fragile. Il prestito dell’Fmi, il Fondo monetario internazionale, di 4,8 miliardi di dollari, resta congelato. Prima il Fondo chiedeva condizioni, garanzie di riforme, democrazia. Ora, con lo tsunami della contestazione, non c’è speranza che questo capitolo si riapra subito. E lo stesso Fmi è stato bersaglio della protesta, venendo accusato di «colonialismo». Eppure le fondamenta per cambiare rotta ci sono. Le banche egiziane hanno una forte liquidità, gli investitori esteri per ora sono in fuga ma potrebbero tornare se rassicurati da una situazione politica stabile. Ma la raccomandazione del governo diffusa in un report sulla nutrizione: «Invitiamo tutti i cittadini a non mangiare troppo», certo non può essere la risposta che la gente si aspetta.
F. M.