Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2013  luglio 02 Martedì calendario

QUANDO LA SPIA ERA PATERNOSTRO

Guerra di spie tra Usa ed Europa. Ma gli americani ci spiano da sempre. Fin dagli anni Cinquanta avevano installato una centrale d’ascolto sulla Teuefelsberg a Berlino, la montagna del diavolo, alta quanto una collinetta, che captava le telefonate dal Baltico a Lampedusa, dove c’era un’altra antenna che controllava il Mediterraneo.
Ieri contro il Kgb, oggi contro l’euro che mette in pericolo il dollaro. Da sempre ci spiano tutti. Nei paesi oltre la Cortina di ferro gli inviati occidentali venivano considerati tutti come agenti al servizio del nemico. Non solo all’Est.
Molti anni fa, Stern scrisse che il Bnd, uno dei tre servizi segreti della Repubblica Federale, controllava i telefoni dei corrispondenti stranieri. Al Bundespressamt, l’ufficio stampa federale, c’era un addetto per ogni nazione. Bonn era un paese, si finiva per incontrarci sempre. Il collega del Corriere della Sera, Vittorio Brunelli, lo vide a una festa e gli disse: «Cattivello, allora ci ascoltate?». Quello rispose: «Non devi credere ai giornali». Detto a un giornalista, prima gaffe.
Vittorio insistette: «Però controllate il telefono di Sandro Paternostro». Allora, Sandro, prima di andare a Londra, era un personaggio a Bonn, dove girava al volante di una gigantesca Chevrolet decapottabile rosa, aveva aperto la prima pizzeria e una galleria d’arte. Per i tedeschi, il tipico italiano. «Ma Paternostro telefona ogni giorno all’ambasciata sovietica». L’addetto comprese che si era tradito, arrossì e scomparve. Sandro chiamava l’ambasciata per fare la corte a una segretaria dagli occhi neri.
A mia figlia diedero alle elementari (in Italia) un tema che oggi sarebbe vietato: «Descrivi il lavoro di tuo padre». Mio padre si alza, lei lo lesse in classe, beve un caffè, poi legge i giornali. E dopo? insistettero i compagni. Beve un altro caffè, e legge i giornali. Ma allora tuo padre non fa nulla, commentarono i bambini. Un anno dopo, in un’altra classe, stesso tema. E mia figlia prudente scrisse: «Mio padre fa l’agente segreto». E che fa? chiesero i compagni. Il lavoro di un agente segreto è segreto, spiegò la mia erede. Forse fu tutta colpa sua, di Raffaella. Chissà, la maestra lavorava per i servizi e mi denunciò.
Molti anni dopo, incontrai a casa di un amico l’ex presidente Francesco Cossiga, appassionato di spie, che conoscevo da sempre, perché, come professore, era stato collega di mio padre. Gli dissi che un paio di sere prima ero stato a cena con Markus Wolf, l’ex leggendario capo del controspionaggio della Germania Est. Cossiga si eccitò: «Quando lo vede, gli dica che sono un suo grande ammiratore». «Probabilmente lo sa già», risposi. E Cossiga sorrise.
Mi trasferiscono a Parigi. I francesi sono formali ed eleganti. Prima di accreditarmi, fui invitato al ministero degli esteri. Un funzionario vestito di blu mi offrì un caffè, cominciammo a chiacchierare. Faceva domande casuali: «Come sta sua figlia Raffaella?», «Che mi dice dei terroristi tedeschi?» a cui avevo dedicato molti articoli, per farmi capire che sapeva tutto di me. Tra noi, una scrivania assolutamente pulita, con un fascicolo. Il mio dossier? Mi parve troppo sottile, ma sono vanitoso. Ancora anni dopo, mia figlia doveva sposarsi con un agente della Guardia di finanza, che lavorava con il pool di Mani Pulite. Come di prammatica, si doveva controllare la famiglia della futura moglie fino alla quarta generazione. Il controllo venne affidato al mio futuro genero. «Roberto», mi avvertì, «appena ho inserito il tuo nome nel nostro computer, ha cominciato a sputar carta per dieci minuti». A Fiumicino avevano registrato tutti i miei viaggi come inviato speciale per anni, in paesi sospetti, dalla Ddr a Cuba, dall’Iran alla Libia, da Israele all’Algeria, al Nicaragua, Colombia e Salvador. Si sposarono lo stesso, poi si lasciarono.
Con questi aneddoti non voglio dire che se tutti spiano, allora non importa. Il Grande Fratello a stelle e strisce dimostra un’immane inutile stupidità per un immane arrogante controllo. In tutti questi anni nessun agente nemico mi ha offerto di comprarmi, nessuno mi ha minacciato, e nessuna Mata Hari, bruna, bionda o rossa, ha tentato di sedurmi. Come giornalista ho qualche dubbio su di me, come agente segreto ho una certezza: sono stato una schiappa. Bevo sempre troppo caffè e leggo troppi giornali, ormai non solo di carta.