Alessandro Merli, Il Sole 24 Ore 30/6/2013, 30 giugno 2013
IN BILICO TRA MIRACOLO E CRISI
Com’è lontana la crisi dell’Eurozona vista dalla Germania. E se solo le economie degli altri Paesi potessero essere come quella tedesca, la crisi scomparirebbe. Come suona bene ricordare che "der kranke Mann Europas", il malato d’Europa di dieci anni fa, è tornato a produrre un "Wirtschaftswunder", un miracolo economico come quello del dopoguerra.
Dal 2009 l’economia tedesca è cresciuta di oltre l’8% e ha creato un milione e 200mila posti di lavoro. La disoccupazione, al 5,4%, è la più bassa dalla riunificazione e quella giovanile non arriva all’8%, mentre nel Sud d’Europa supera il 50. Le imprese sono solide e l’export macina record, generando metà della crescita economica. I "campioni nascosti" del Mittelstand, la spina dorsale di medie imprese, sono spesso leader mondiali nei rispettivi prodotti e godono ora anche di un’intensa campagna e di finanziamenti a basso costo con risorse pubbliche. Le riforme del mercato del lavoro, fatte un decennio fa, e la lunga moderazione salariale, hanno garantito la competitività.
Le banche non lesinano credito: sono ricche di liquidità, grazie agli afflussi di capitali che cercano la sicurezza del rifugio tedesco in piena turbolenza, e le limitazioni ai prestiti alle imprese sono ai minimi storici. Grazie alle entrate gonfiate dalla crescita, il bilancio federale è pressoché in pareggio, tanto da consentire al cancelliere Angela Merkel di promettere, nella sua piattaforma elettorale, che dal 2015 comincerà a rimborsare il debito pubblico, messaggio che a un’opinione pubblica altamente conservatrice sul piano fiscale piace moltissimo.
Se il voto è deciso dall’economia, secondo la massima clintoniana, non dovrebbero esserci dubbi sull’esito delle elezioni di 22 settembre. E la percezione dell’elettorato è che effettivamente le cose vadano assai bene. Anche perché alla bassa disoccupazione si è sommata negli ultimi mesi una tornata di rinnovi salariali che hanno portato nelle tasche dei lavoratori aumenti superiori all’inflazione. Nel confronto con il resto dell’Eurozona, in contrazione da due anni, la Germania svetta, tanto che l’impressione dei tedeschi, avvalorata dalla classe politica, a lungo è stata che la crisi non avesse «nulla a che vedere con noi». La realtà presenta un quadro di grande solidità di fondo, ma meno brillante: rimbalzata dalla recessione del 2009 con una crescita impetuosa, nel 2010 e nel 2011, l’economia tedesca ha frenato bruscamente l’anno scorso e quest’anno, secondo le previsioni della Bundesbank, riviste più volte al ribasso, si espanderà di un modesto 0,3%. Il primo trimestre ha accusato una crescita prossima allo zero, tanto che Elga Bartsch, economista di Morgan Stanley, si è chiesta dove fosse finito il "miracolo". Nel secondo trimestre tuttavia ci sono indicazioni di recupero.
Il fattore di rischio principale, secondo il presidente della stessa Banca centrale, Jens Weidmann, è l’incertezza nell’area euro. A cui il Fondo monetario aggiunge il possibile indebolimento della domanda globale. Finora l’economia tedesca ha dribblato la crisi europea, reindirizzando le sue esportazioni dall’Eurozona (scesa dal 46% del totale nel 2000 al 37% nel 2012) agli emergenti, soprattutto Cina e resto dell’Asia, approfittando della sua specializzazione in macchine utensili e automobili: il rallentamento di questi mercati, sommato alla recessione dell’Eurozona e alla persistenza incertezza sui mercati finanziari, può però fare danni considerevoli all’export.
«Il rischio di medio termine - dice il capo missione dell’Fmi, Subir Lall - è un periodo prolungato di bassa crescita». La spinta maggiore dovrebbe venire dalle costruzioni, che si avvantaggiano della ripresa del mercato immobiliare dopo una stagnazione ultradecennale, e in misura minore dai consumi, su cui resta il punto interrogativo della proverbiale frugalità dei tedeschi anche a fronte dell’aumento dei salari reali e soprattutto per l’incognita creata dalle turbolenze esterne.
Il vero punto debole, tuttavia, su cui le analisi dell’Ocse insistono da tempo, è la carenza di investimenti. Oggi al 17% del Pil (erano il 22% all’inizio del decennio scorso), sono insufficienti, secondo gli economisti, a continuare ad alimentare il "miracolo". Secondo una ricerca del centro studi Diw di Berlino, la crescita potrebbe aumentare di un 1% l’anno se la Germania aumentasse l’investimento in infrastrutture. Nel suo programma elettorale, la Cdu della signora Merkel promette di far qualcosa (concentrandosi però soprattutto sulle autostrade), ma punta invece principalmente su un aumento della spesa sociale, più redditizio in termini di voti. Dal 1999, secondo il capo della Diw, Marcel Fratzscher, il Paese ha accumulato un "arretrato" di investimenti pari a mille miliardi di euro. In parte, è stata una scelta dettata da considerazioni di bilancio. Persino l’Fmi, difensore per eccellenza del rigore nei conti, nel suo rapporto approva la politica fiscale tedesca, ma suggerisce di evitare di fare più del dovuto, considerate le deboli prospettive della crescita. Il surplus è stato in gran parte "riciclato", invece che in investimenti in casa propria, in dubbie avventure finanziarie all’estero, secondo una tradizione che vede le banche tedesche coinvolte in tutte le grandi crisi finanziarie internazionali, fin da quella dei debiti latinoamericani degli anni 80, per venire ai mutui subprime negli Usa e all’esposizione nel Sud Europa di questi anni.
Quel che suscita seri dubbi in molti osservatori è che nel programma dei partiti manca, per il dopo-voto, un’agenda di riforme strutturali, come quelle che la Germania predica solitamente ai partner europei. Avendo incassato i dividendi delle riforme del mercato del lavoro adottate dal Governo Schröder nel decennio scorso, e il cui effetto propulsivo si sta attenuando, Angela Merkel non ha pronte misure che le sostituiscano. L’opposizione a sua volta sembra più concentrata sull’equità sociale attraverso maggior tassazione. Una prospettiva vista con notevole preoccupazione nel mondo delle imprese.
Del tutto assenti dalla campagna sono i benefici che l’euro, e paradossalmente anche la crisi dell’Eurozona, hanno portato all’economia. Le lamentele dei risparmiatori, attraverso le potenti e politicamente ben connesse casse di risparmio, rilevano che i bassi tassi d’interesse li danneggiano: ma, secondo un calcolo di Jens Boysen-Hogrefe del Kiel Institute, gli afflussi di capitale verso la Germania hanno consentito alle casse federali un risparmio di 80 miliardi di euro di interessi negli ultimi 5 anni. Mentre, di fronte alla possibilità di una rottura dell’euro o dell’uscita della Germania, per la verità confinata alle frange del dibattito politico, la Fondazione Bertelsmann ha risposto con uno studio in cui quantifica in un guadagno di 1.200 miliardi di euro da qui al 2025 l’appartenenza della Germania alla moneta unica, quasi la metà del Pil 2012.
Si tratta però di argomentazioni che elettoralmente non pagano: meglio accreditare l’interpretazione che è Berlino che sopporta finanziarmente il peso, o rischia di farlo, per le malefatte del resto dell’Eurozona. La scelta della signora Merkel è quindi di cercare di tenere l’Europa il più possibile fuori della discussione, evitando "incidenti" nell’Eurozona da qui al 22 settembre.