Giovanni Bianconi e Gianni Santucci, La Lettura 30/6/2013, 30 giugno 2013
IL PUGNO DELLA MAFIA RUSSA NELLE CASE DEGLI ITALIANI
Quattro lettere sul dorso del piede destro. Bluastre e sbiadite. Sono un’abbreviazione. Significano: «La morte per un poliziotto accoltellato». Sulla caviglia, un disegno che sembra una stella scomposta: «Vendetta compiuta». Coscia destra, una sorta di ideogramma: «Ladro». Il profilo di una mano con un bracciale incatenato, sul deltoide sinistro: «Condanna scontata». Portava la sua storia criminale tatuata addosso l’uomo assassinato nel giorno della Befana dell’anno scorso.
Bari, 6 gennaio 2012, è un venerdì. Piazza Aldo Moro, a pochi passi dalla stazione. Gli scaricano addosso l’intero caricatore di una Browning semiautomatica. Distanza di fuoco: non più di 50-60 centimetri. La pallottola mortale gli sfonda la fronte, sul lato destro. I poliziotti scoprono che il cadavere è di Revaz «Rezo» Tchuradze, 50 anni. Cittadino georgiano. Dagli archivi, spuntano solo un paio di controlli di polizia. Tutto qua. Troppo poco per spiegare un’esecuzione così feroce. Perché la criminalità organizzata dovrebbe ammazzare un georgiano in quel modo? È una vicenda strana. E poi ci sono quei tatuaggi. Rimandano a un altro mondo. A una criminalità arcaica e sconosciuta, carica di simboli e di codici. Parte da quei segni di inchiostro sulla pelle del cadavere l’inchiesta che, in un anno e mezzo, porterà gli investigatori della Squadra mobile di Bari e del Servizio centrale operativo della polizia ad agganciare il gotha della criminalità georgiana: i clan più potenti della mafia russa (o meglio, ex sovietica). Gruppi che stanno combattendo una guerra globale. Anche nelle strade (e nelle case) italiane.
Arcipelago Gulag
Questa è una storia che affonda le sue radici nelle pagine più nere del Novecento. Risale dalle carceri staliniane, dai campi di lavoro come la Kolyma (in Siberia), dai gulag. Dagli inferni di neve dov’erano rinchiusi i detenuti politici. E con loro vivevano internati loro: i vory v zakone, «ladri in legge», criminali con un codice. Adepti delle regole mafiose. Vory v zakone è la qualifica più elevata nella gerarchia della malavita russa. A quella comunità reclusa e non piegata, violenta e antistato, cementata nelle baracche dei gulag, unione di ladri, assassini, scassinatori, trafficanti e giocatori d’azzardo, sono dedicate pagine memorabili dello scrittore Varlam Salamov: quelli della malavita «negli anni Quaranta al collo portavano la croce... La croce di Naumov era liscia. Penzolava sul suo scuro petto nudo impedendo di leggere la "puntura" blu — e cioè il tatuaggio di una citazione da Esenin, l’unico poeta riconosciuto e canonizzato dal mondo dei criminali: Così poca è la strada percorsa,/ così tanti gli errori commessi» («Sulla parola», uno de I racconti della Kolyma).
È a quel passato lontano che si riallaccia la mafia di oggi. Tradizione e cultura carceraria, calate nell’opulenza e nella ferocia esplose dopo il crollo dell’Urss. Aveva aspirazioni legate a quel sistema il killer che ha sparato a Bari. Otto colpi per diventare un vory v zakone. Così gli era stato promesso. Per questo Kvicha Kakalashvili, anni 33, ladro d’appartamenti, secondo quel che hanno accertato le indagini che l’hanno portato in carcere, è partito da Pioltello, provincia di Milano. E ha guidato fino al capoluogo pugliese il suo commando di assassini. Racconterà mesi dopo una donna arrestata dalla Mobile barese, guidata dal dirigente Luigi Rinella: «Kvicha doveva a tutti i costi vendicarsi, perché solo con la vendetta sarebbe divenuto un vory». L’omicidio era stato deliberato in Grecia, dal boss del suo clan. Eccola, la mafia globalizzata trapiantata in Italia.
La cupola in Italia
Il killer del giorno della Befana cercava il migdoma, la raccomandazione di un boss per essere incoronato «ladro in legge». La carica si acquista per meriti di crimine. L’incoronazione avviene durante una skhodka, assemblea plenaria dei più alti capimafia. Merab Dzhangveladze, soprannome Jango, aveva organizzato una di queste riunioni a Roma, in programma per il 18 settembre 2012, in un albergo extralusso nei pressi della via Cassia. Erano già stati noleggiati piccoli pullman e grosse Mercedes («Solo Classe S», si raccomandava il capo) per accompagnare una sessantina di ospiti, arrivati da Mosca e da mezza Europa. La riunione alla fine è saltata per il sospetto che la polizia la stesse intercettando. Quella skhodka era un passaggio chiave nella guerra tra i due più grandi clan della mafia ex sovietica (i nomi derivano dalle città d’origine in Georgia): quello di Kutaisi, a cui apparteneva la vittima di Bari, e quello di Tbilisi/Rustavi, gruppo del killer. Quest’ultima cosca è egemone nella regione di Sochi, la cittadina russa dove nel febbraio prossimo si terrà l’Olimpiade invernale, con il fondato sospetto che la mafia si sia pesantemente infiltrata negli appalti per l’organizzazione. Il primo clan, più ramificato in Italia, è stato praticamente smantellato dalle indagini della polizia. Un’altra skhodka si è tenuta a Milano, il primo dicembre 2011, in un albergo di corso Italia, a pochi isolati da piazza del Duomo.
Dal 2009 Jango (arrestato in Ungheria su richiesta della Direzione distrettuale antimafia di Bari) era il successore di Tariel Oniani, capo del clan Kutaisi, una sorta di Riina della criminalità russa, in carcere a Mosca dal 2008. Tra lui e Jango, nonostante la detenzione, sono state intercettate varie telefonate. È Oniani a dare l’ordine quando si addensano i sospetti sulla riunione di Roma: «Annullate e sparite tutti». Durante le indagini, avviene il più eccellente delitto di mafia dell’ultimo decennio in Russia. Il 16 gennaio 2013 Aslan Usoyan, «nonno Hassan», padrino del clan Rustavi, viene ucciso da un cecchino mentre esce con le sue guardie del corpo da un ristorante nel cuore di Mosca. «È un compleanno per tutti — esultano i vory intercettati —, siamo andati cento passi in avanti». Per capire: con l’omicidio di Usoyan, è stato come se qualcuno avesse sparato a Bernardo Provenzano nel cuore di Palermo.
Ladri e padrini
Non ci sono ladri d’appartamento più svelti, preparati, agguerriti. Negli ultimi anni le «batterie» di georgiani sono state responsabili di migliaia di furti nelle case italiane. Terreni di caccia delle bande di Kutaisi: Bari, Milano, Roma, Firenze, Empoli, Venezia, Trieste. Zone dove sono stati documentati i furti riconducibili al clan Rustavi (attraverso un’indagine dei carabinieri di Novara nel 2010): Milano, Venezia, Reggio Emilia, Firenze, Perugia, Napoli.
Per ogni città, un «ladro in legge» sovrintendeva alle bande: Avto era a Bari (ricercato); Ika a Roma (arrestato); un certo Stalin a Milano (non identificato); Beso, una sorta di sovrintendente per tutta Italia, si spostava tra Bari, Napoli, Milano (arrestato anche lui — al telefono lo sentivano dire cose così: «Avete trovato la cassaforte?», «Uscite, è meglio spostarsi in un altro appartamento»). I ladri smerciano subito oro e pietre presso ricettatori locali, italiani; una parte dell’incasso viene girata al capo-zona. E così, per ogni casa svaligiata in Italia, si alimenta la ricchezza del clan. Tutto confluisce nella obshak, la cassa comune: una sorta di gigantesco fondo di investimento in cui finiscono anche i proventi delle estorsioni, dello sfruttamento dell’immigrazione clandestina e del traffico di documenti falsi. La obshak, secondo un rapporto Interpol del 2010, è calcolabile nell’ordine di miliardi di euro. La sua gestione sarebbe il motivo cardine del conflitto tra i gruppi Kutaisi e Rustavi.
L’importanza dell’indagine chiusa dalla Mobile di Bari e dallo Sco il 18 giugno scorso è certificata da una nota dell’Europol: tra i 19 arrestati per associazione a delinquere, «13 avevano il titolo di vory v zakone, è la prima volta che tanti mafiosi di così alto rango vengono bloccati in una singola operazione». Nell’obshak andava probabilmente a finire anche una parte dei guadagni delle estorsioni a Bari: Revaz Tchuradze «proteggeva» un’agenzia di spedizioni in piazza Aldo Moro, incassando tra 0,5 e 1,2 euro al chilo per ogni pacco che i suoi connazionali mandavano in Georgia. Il suo presunto assassino (bloccato in Portogallo) «aiutava» invece l’agenzia di spedizioni concorrente. Spartizioni mafiose. Tchuradze aveva due figli, Dato e Aleko. Ha raccontato un testimone: «Il figlio più grande è detenuto a Tbilisi. Non si taglia la barba da quando hanno ucciso il padre. Lo farà solo dopo averlo vendicato personalmente. Il clan di Kutaisi ha avallato la sua scelta».