Robert Storr, La Lettura 30/6/2013, 30 giugno 2013
UN REGALO DA UN MILIARDO DI DOLLARI
Qualche settimana fa, sul taglio alto della prima pagina del «New York Times», campeggiava una grande foto che occupava quasi metà delle colonne disponibili. Non era la foto di una catastrofe o di un vertice politico bensì l’immagine di una donna in poltrona, come la vide attraverso la lente del cubismo sintetico Pablo Picasso nel 1913. Una settimana più tardi, la riproduzione del medesimo quadro compariva su un annuncio del Metropolitan Museum of Art (Met), per pubblicizzare il fatto che l’opera era appena stata messa in mostra. Stiamo parlando di un quadro che conosco bene e che, grazie a fortunate frequentazioni, ebbi modo di vedere con regolarità e senza la presenza di guardiani, a casa di amici che furono tra i più grandi collezionisti al mondo di Picasso. E per dare un’idea della loro grandezza, mi limiterò a dire che all’altra parete della stanza c’era Il sogno di Picasso, uno dei suoi quadri più famosi. Quando i miei amici Victor e Sally Ganz morirono, i loro beni furono venduti all’asta e Donna in poltrona (Eva) scomparve dalla mia vita quotidiana, temevo per sempre. Da questo mese vi è miracolosamente tornata, essendo parte della straordinaria donazione che Leonard Lauder, collezionista d’arte e magnate dell’industria cosmetica, ha fatto al Metropolitan.
Il titolo dell’articolo del «New York Times» evidenziava l’entità economica della donazione, che totalizza una cifra veramente impressionante: un miliardo di dollari. In tema di soldi, vorrei anche far notare che Lauder, ex presidente del consiglio d’amministrazione del Whitney Museum of American Art, aveva già elargito a quell’istituzione centinaia di milioni di dollari sotto forma di sovvenzioni dirette, lasciti e opere, e che, per quanto è dato sapere circa le sue intenzioni, nulla lascia presagire che la donazione al Met sia il suo ultimo, grandioso gesto di filantropia. (Lui e la defunta moglie Evelyn donarono ingenti somme anche alla fondazione per la ricerca sul cancro al seno creata dalla stessa Evelyn).
L’interesse di Lauder convergeva sul cubismo e dunque, tolto il gruppo di americani che si recò a Parigi e seguì le orme di Picasso, Georges Braque, Fernand Léger, Juan Gris e artisti europei minori, nessuna delle opere più rappresentative del cubismo è firmata da nomi consoni alla sfera d’interesse prettamente nazionale del Whitney. Di conseguenza, la collezione Lauder — 78 opere tra cui capolavori su tela, disegni e collage (tecnica fondamentale nel cubismo) — è approdata al Metropolitan, la più ricca ed enciclopedica raccolta d’arte, nel centro di New York, benché finora avesse avuto un ruolo secondario, per quanto riguarda l’arte del XX secolo, rispetto al MoMa, più a sud.
La gamma, la pregnanza e la qualità della collezione cubista di Lauder non hanno pari, perlomeno nel collezionismo privato. Ciò si deve in larga parte alla strategia di Lauder, che comprò opere dalla precedente generazione di appassionati collezionisti, in particolare dai Ganz e da Douglas Cooper (il cui ex compagno John Richardson sta scrivendo il terzo volume della monumentale biografia di Picasso, che lui e Cooper conoscevano da molto vicino). Ciò non sminuisce in alcun modo, naturalmente, le doti di collezionista di Lauder. Altri magnati, compreso David Rockefeller e William Paley, attesero che la collezione di Gertrude Stein fosse messa sul mercato dopo la sua morte, e in seguito di quelle opere beneficiò il MoMa. Come soleva dire William Lieberman, prima curatore del MoMa poi del Metropolitan, il suo mestiere consisteva nel «collezionare collezionisti» ma, sarebbe il caso di aggiungere, soltanto dopo che i collezionisti avevano finito di collezionare da altri collezionisti. E a conferma della teoria di Lieberman, questa primavera, con un colpo che ha segnato un successo storico, l’attuale squadra del Met si è accaparrata il collezionista più grande del settore.
A fare la grandezza della collezione di Lauder sono state la sua eccezionale pazienza e l’accortezza di acquistare esattamente le opere che cercava, ignorando quelle minori. Si è inoltre tenuto alla larga dalle tendenze speculative oggi prevalenti nel mondo dell’arte, ove cosiddetti «collezionisti» operano in modo più simile a quello dei gestori di hedge fund (che è spesso la loro professione), comprando a basso prezzo e rivendendo a peso d’oro in tempi stretti. Al contrario, Lauder e altri veri intenditori pagano il massimo per cose che valgono il massimo. Il che rende ancor più encomiabile il fatto che resistano alla tentazione di far fruttare i loro tesori e li donino invece alle istituzioni pubbliche, dove tutti potranno goderne per i tempi a venire.
Il sistema fiscale americano penalizza gli artisti che donano le loro opere ai musei (se Jasper Johns lo facesse, potrebbe scaricare solo il costo originario di tela, colori e pennelli), ma premia con altrettanto vigore i ricchi che scelgono di condividere i loro patrimoni compiendo gesti come quello di Lauder — anche se, al momento della dichiarazione dei redditi, pur con un’esenzione fiscale su un miliardo di dollari, un magnate deve ugualmente sborsare al governo cifre cospicue. Quando però i teorici del sociale puntano il dito contro le malefatte dei ricchi, o i cittadini restano annichiliti dai resoconti di frodi finanziarie di vasta portata, farebbero anche bene a ricordare che, persino in questa nostra età dell’ottone e nella nostra imperfetta democrazia, alcuni esponenti ultraprivilegiati delle élite rispondono agli imperativi aristocratici, onorando in modo concreto il concetto di noblesse oblige. Se non dovrò più sfruttare dei privilegi sociali per vedere Donna in poltrona (Eva), ma mi basterà prendere la metropolitana per raggiungere il Met, è per me, e per tutti, un buon motivo per essere grati a Leonard Lauder. Resta ora da vedere se il controverso finanziere Steve Cohen un giorno mi restituirà Il sogno.
(Traduzione di Laura Lunardi)