Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2013  giugno 30 Domenica calendario

APPUNTI PER GAZZETTA - LA CRISI IN EGITTO


REPUBBLICA.IT
IL CAIRO - Migliaia di oppositori di Mohammed Morsi oggi hanno riempito nuovamente piazza Tahrir al Cairo scandendo lo slogan della rivoluzione che ha deposto Hosni Mubarak nel 2011, "La gente vuole la fine del regime", e urlando: "Morsi vattene!". Col passare delle ore è via via aumentato il numero degli egiziani scesi nelle strade di tutto il Paese. E gli organizzatori della giornata di protesta contro il presidente Morsi - Tamarod (Ribelli) - sperano che in serata siano milioni a partecipare a quella che considerano una mobilitazione decisiva per le sorti dell’Egitto. Oggi una persona ha perso la vita e sette sono rimaste ferite negli scontri fra pro e anti Morsi nella città di Beni Suef nell’alto Egitto, dove oggi sono state incendiate due sedi del partito di Fratelli musulmani.
Elicotteri militari sorvolano la piazza, che per il momento è tranquilla mentre l’esercito e la polizia sono dispiegati nei principali istituzioni e punti strategici del Paese. La polizia fa sapere di aver già sequestrato vari tipi di armi: si tratta di esplosivi, armi da fuoco e anche colpi di artiglieria. E sono 46 nella capitale le persone armate arrestate: un gruppo di loro era su un minibus in arrivo da Alessandria diretto verso Il Cairo per partecipare al sit-in della piazza di Rabea Adauiya, nel quartiere cairota di Nasr City, a sostegno del presidente Morsi.
Il palazzo presidenziale di Ittahadeya, al Cairo, è completamente blindato: blocchi di cemento sono stati piazzati lungo il muro di cinta per tenere lontano i manifestanti, che sopra hanno steso un lunghissimo striscione con l’immagine della guida spirituale della Fratellanza barrata con una X.
Le strade di accesso sono bloccate e i servizi d’ordine organizzati dai manifestanti controllano l’identità e le borse delle persone che entrano nella zona della manifestazione. Il presidente si trova al momento al palazzo presidenziale di Hadayek El-Qobba. Morsi ha incontrato i ministri dell’Interno e della Difesa chiedendo loro che si evitino scontri. Stasera è previsto un incontro anche con il premier Hisham Qandil.
La gente è scesa in piazza anche ad Alessandria, Port Said, Sharkiya, Kafr el Sheikh, Gharbiya, Menoufiya. Secondo fonti della sicurezza due sedi del partito della Fratellanza sono state incendiate a Beni Suef, nell’alto Egitto, e una a Daqhaleya. Tafferugli sono scoppiati in mattinata fra e pro e anti Morsi a Mahalla el Kobra, nel delta del Nilo provocando una decina di feriti.
I cortei in programma oggi erano otto, per quella che si annunciava già dalla mattina come una delle domeniche più difficili per il presidente egiziano. Solo ieri infatti Tamarod aveva fatto sapere di aver raccolto 22 milioni di firme per le dimissioni di Morsi: un numero enorme, un quarto della popolazione. E le tensioni della piazza hanno spinto il gran imam di al Azhar, Ahmed el Tayyeb, a fare appello "a tutti gli egiziani di dare prova di moderazione ed evitare qualsiasi forma di violenza oggi. E’ necessario fare prevalere l’interesse superiore della patria ed evitare atti che possono metterlo a rischio".
Egitto, otto cortei per le dimissioni di Morsi. Il presidente al Guardian: "Non me ne vado" Elicotteri apache nell’area di piazza Tahrir
L’intervista al Guardian. Dal canto suo, il presidente si mostra risoluto. "Non me ne vado", dice al quotidiano britannico Guardian. "Ci possono essere dimostrazioni ma non si può mettere in discussione la legittimità costituzionale di un presidente eletto". Così Mohamed Morsi respinge le richieste dell’opposizione di dimettersi, in una lunga intervista al quotidiano britannico.
"Se cambiassimo qualcuno eletto secondo la legittimità costituzionale, ci sarà qualcuno che si opporrà anche al nuovo presidente e una settimana o un mese dopo chiederanno anche a lui di dimettersi", ha affermato il primo presidente dei Fratelli musulmani. "Ci possono essere manifestazioni e le persone possono esprime la loro opinione ma il punto cruciale è l’applicazione della Costituzione. Questo è il punto cruciale", ha insistito.
Morsi accusa "i resti dell’ancien regime" per le violenze dei giorni scorsi, che hanno preso di mira sedi della Fratellanza e del suo braccio politico. "Hanno i mezzi, che hanno ottenuto con la corruzione e li usano per pagare teppisti e così scoppia la violenza". "E’ stato un anno difficile, molto difficile e penso che gli anni a venire lo saranno ancora, ma spero di fare sempre il mio meglio per soddisfare i bisogni del popolo egiziano", ha concluso il presidente.

CORRIERE.IT
ZECCHINELLI SU CORRIERE.IT
IL CAIRO - Sono iniziate nel pomeriggio, in tutto l’Egitto, le manifestazioni contro il raìs islamico Mohammed Morsi, proprio nel giorno del primo anniversario da quando è stato nominato primo presidente democraticamente eletto del Paese. Al Cairo, nonostante il giorno lavorativo, il solito traffico caotico è scomparso del tutto, e fiumi di gente si dirigono invece verso il palazzo presidenziale di Heliopolis da vari punti della città e soprattutto da piazza Tahrir dove da giorni era sorta una tendopoli e da molte ore la gente si stava radunando. Assente la polizia e nessun carro armato per le strade, l’esercito e la Guardia repubblicana discretamente assicurano solo le istituzioni chiave della capitale, dallo stesso palazzo presidenziale ai ministeri.
CARTELLINI ROSSI - La paura di scontri con i sostenitori del presidente per il momento si è rivelata infondata, il clima è quello della grande festa anche se nel quartiere di Nasr City, una dozzina di chilometri dal centro e relativamente vicino a Heliopolis, i Fratelli Musulmani continuano il sit-in in corso da venerdì. La gente, giovani e vecchi, ricchi e poveri, sventola bandiere egiziane e cartellini rossi per dire a Morsi che dopo un anno di governo ormai è «fuori».
IL FUTURO DEL RAIS - Il raìs ha continuato a ribadire che non si farà da parte e che la sua nomina e nel segno della «legittimità», pur concedendo di aver commesso «alcuni errori». Ma la sua permanenza al potere dipenderà da questa giornata, da quanti (e sono già tantissimi) scenderanno in strada, dalla sua capacità di evitare un bagno di sangue come molti temevano e temono ancora, da cosa deciderà di fare l’esercito che, ha già avvertito, non tollererà che «l’Egitto entri in un tunnel oscuro».
LA PAURA DELLE VIOLENZE - È soprattutto nelle città del Nord, da Alessandria al Delta, al Canale di Suez, che si temono violenze, come già stato negli scorsi giorni con sette vittime negli scontri tra le due parti, tra cui un ragazzo americano. A parte qualche arresto e qualche incidente minore, tutto si è svolto tranquillamente nelle prime ore della protesta indetta dal movimento di base Tamarrod (ribellione) che ha raccolto 22 milioni di firme della sua petizione per “dimettere” il raìs.
Cecilia Zecchinelli


Oramai una c’è una folla oceanica a piazza Tahrir al Cairo, dove decine di migliaia di persone hanno raggiunto le migliaia di altri che vi hanno trascorso la notte in vista della grande manifestazione organizzata dal movimento popolare Tmarod (ribelle) per chiedere le dimissioni del presidente Mohammed Morsi, sventolando il cartellino rosso, simbolo della necessità di cacciare il capo dello Stato. Altri manifestanti si preparano a marciare verso il palazzo presidenziale. I sostenitori di Morsi, esponente dei Fratelli Musulmani, sono invece riuniti da sabato sera davanti ad una grande moschea nella parte orientale della capitale egiziana. La manifestazione di oggi, nel primo anniversario delle elezione di Morsi, rappresenta il culmine di una campagna di opinione che è andata crescendo negli ultimi giorni, con scontri che hanno già causato sette morti (e in cui è stato ucciso un ragazzo americano).
IN PIAZZA - Proteste anti-Morsi sono già cominciate anche ad Alessandria, nelle città del delta del Nilo (Menuf, Mahalla), in quelle sul Canale di Suez, a Port Said, e anche nella città natale di Morsi, Zagazig. La polizia e i soldati sono schierati vicino ai principali edifici e il ministero della Sanità ha preannunciato che gli ospedali sono in allerta. Fonti della sicurezza hanno reso noto inoltre che in tutto il Paese sono state fermate 413 persone armate che volevano infiltrarsi nelle manifestazioni. Al grido di «Morsi, vattene», in vari punti del Cairo sono partite le marce dirette a piazza Tahrir e al palazzo presidenziale. Nella capitale intanto è salito a 46 il numero delle persone armate arrestate. Terminata la giornata lavorativa e affievolita la calura, è andato via via aumentando il numero di egiziani nelle strade di tutto il Paese: gli organizzatori - che considerano la giornata un momento decisivo per le sorti del Paese- sperano che, entro la serata siano milioni le persone nelle strade. Intanto Morsi si mostra per nulla intimidito: «Ci possono essere dimostrazioni ma non si può mettere in discussione la legittimità costituzionale di un presidente eletto», ha detto il presidente egiziano in una lunga intervista al quotidiano britannico The Guardian, una delle rare concesse a un media straniero.
IL PRESIDENTE ACCUSA L’ANCIEN REGIME - «Se cambiassimo qualcuno eletto secondo la legittimità costituzionale, ci sarà qualcuno che si opporrà anche al nuovo presidente e una settimana o un mese dopo chiederanno anche a lui di dimettersi», ha detto il primo presidente dei Fratelli musulmani al Guardian. «Non c’è spazio di discussione su questo punto. Ci possono essere manifestazioni e le persone possono esprime la loro opinione ma il punto cruciale è l’applicazione della Costituzione», ha insistito. Morsi ha quindi accusato «i resti dell’ancien regime» per le violenze dei giorni scorsi, che hanno preso di mira sedi della Fratellanza. «Hanno i mezzi, che hanno ottenuto con la corruzione e li usano per pagare teppisti e così scoppia la violenza». «È stato un anno difficile, molto difficile e penso che gli anni a venire lo saranno ancora, ma spero di fare sempre il mio meglio per soddisfare i bisogni del popolo egiziano», ha concluso Morsi.
22 MILIONI DI FIRME - Gli organizzatori di Tamarod hanno annunciato di aver raccolto 22 milioni di firme per la destituzione di Morsi, otto milioni in più dei voti ottenuti dal presidente al voto dello scorso anno. «Sentiamo di aver raggiunto un’impasse, con il Paese che sta crollando. Questo non perché il presidente appartenga alla Fratellanza Musulmana, o perché sia una sola fazione a governare, quanto perché il regime è stato un completo fallimento», ha sintetizzato Mohammed el Baradei, uno dei leader dell’opposizione, in un messaggio video diffuso nella notte. «La gente ha votato per Morsi, ma ora dice di voler tornare alle urne», ha aggiunto l’ex capo dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (Aiea), esortando gli egiziani a scendere in strada per protestare.

CRONACA DEL SOLE 24 ORE 29 GIUGNO
Un ispettore del ministero dell’Interno egiziano è stato ucciso da un gruppo di uomini armati a el Arish, nel Nord Sinai. Lo riferiscono fonti della sicurezza, spiegando che il generale della polizia Mohamed Hany stava viaggiando a bordo della sua auto quando è stato ucciso. Intanto è di sette morti e di 616 feriti il bilancio complessivo, secondo il ministero della Sanità egiziano, degli scontri fra sostenitori e oppositori del presidente egiziano Mohamed Morsi dall’inizio delle violenze mercoledì e che hanno infuocato particolarmente i governatorati del Delta a nord del Cairo e nei quali ha perso la vita ieri un giovane statunitense ad Alessandria.
In seguito a questo incidente il Dipartimento di Stato Usa ha autorizzato lo staff non essenziale e le loro famiglie a lasciare il paese e ha messo in guardia i cittadini americani a non venire in Egitto se non per viaggi assolutamente necessari. In mattinata una quarantina di persone dello staff della sede diplomatica di Washington si è imbarcata al Cairo su un volo per Francoforte.

Questa sera, inoltre, un ispettore del ministero dell’Intero egiziano è stato ucciso da un gruppo di uomini armati a el Arish, nel Nord Sinai. Lo riferiscono fonti della sicurezza, spiegando che il generale della polizia Mohamed Hany stava viaggiando a bordo della sua auto quando è stato ucciso.

Obama «preoccupato»
Il presidente americano Barack Obama ha espresso la sua preoccupazione per l’evolversi della situazione in Egitto e ha rivolto un appello al presidente islamista Mohamed Morsi a comportarsi in modo «più costruttivo». «Seguiamo la situazione con preoccupazione», ha dichiarato oggi Obama durante una conferenza stampa a Pretoria, in Sudafrica, precisando che il governo americano ha preso misure per garantire la sicurezza dell’ambasciata, dei consolati e del personale diplomatico.

Manifestazioni per chiedere le dimissioni di Morsi
Dunque, è di nuovo caos in Egitto, alla vigilia del 30 giugno, la giornata del primo anniversario di presidenza di Mohamed Morsi e che movimenti e opposizioni vorrebbero segnasse l’inizio della fine del regno dei Fratelli musulmani.

La situazione rimane di tensione anche se non si sono verificati nuovi scontri nella notte. Il Cairo - che ieri è stata relativamente tranquilla, anche se sono state denunciati cinque casi di aggressioni contro donne in piazza Tahrir - si prepara alla grande manifestazione di domani per chiedere le dimissioni di Morsi. I sit-in sono proseguiti in piazza Tahrir, degli anti Morsi, e davanti alla moschea di Rabaa el adaweya, dei pro. Cresce il numero di tende davanti al palazzo presidenziale di Ittahadeya, dove domani confluiranno sette grandi marce organizzate dal movimento Tamarod (Ribelli), che da oltre un mese raccoglie firme per chiedere le dimissioni di Morsi. Gli incidenti sanguinosi di ieri hanno spinto al Azhar a lanciare l’ennesimo allarme sui rischi di una «guerra civile». Gli incidenti, ha sottolineato, suonano come «un campanello d’allarme per la catastrofe».

ANALISI DI TRAMBALLI SUL SOLE DEL 29/6
Ciechi e sordi gli uni per le ragioni degli altri, gli egiziani marciano rumorosamente verso il disastro. Da una parte i Fratelli musulmani: cioè il presidente, il governo, quel che resta del Parlamento delegittimato dai giudici, e una buona parte del business. Dall’altra le opposizioni. È una definizione generica ma generico è il suo fronte: liberali, socialisti, nasseriani, marxisti, laici e anche salafiti, gli islamisti radicali in competizione e opposizione ai più moderati della fratellanza.

Domenica è il gran giorno. Da diverse parti del centro del Cairo i cortei dell’opposizione confluiranno nella zona della città attorno al palazzo presidenziale di Heliopolis, anche se per motivi di sicurezza ormai da giorni non è più lì che soggiorna Mohammed Morsi. Manifestazioni si terranno in molte altre città. Gli organizzatori consegneranno diversi milioni di petizioni raccolte negli ultimi due mesi: pretendono le dimissioni di Morsi e nuove elezioni presidenziali.
foto

Il primo anno di Morsi alla guida dell’Egitto

Chiamare in piazza milioni di egiziani in un momento di crisi politica ed economica profonda, è un rischio. Nessuno tuttavia ha tentato di prevenirlo, cercando un dialogo nazionale. Le ragioni del governo e delle opposizioni sono molte e confuse. Ma è ancora più difficile stabilire quale tra i due fronti abbia più torto.

I Fratelli musulmani
I nemici della fratellanza ricordano che un pilastro della strategia dell’Islam politico è la dissimulazione: dire una cosa per perseguire il suo contrario. I Fratelli musulmani avevano promesso di candidare un numero limitato di deputati per il Parlamento: invece ne hanno conquistato la maggioranza dei due terzi. Avevano detto di non volere la presidenza: poi hanno candidato Morsi. Avevano anche promesso di dare la vicepresidenza a un laico, di riempire il governo di donne, di non far pesare la loro maggioranza nella commissione incaricata di redigere la nuova Costituzione. Niente di tutto questo.

Lo spoil system, la progressiva occupazione del potere da parte della fratellanza, per quanto metodico è in realtà più misurato di quello dei partiti italiani. Ma in un momento di tensione come questo l’Egitto ha bisogno d’inclusione, di condivisione dei gravi problemi del Paese e delle possibili soluzioni. Più di una maggioranza e di un’opposizione, la necessità di scrivere le regole di una democrazia nascente richiede il lavoro di tutti. Soprattutto dopo aver dimostrato alla fine di un anno di governo il devastante dilettantismo dei Fratelli musulmani.

Gli oppositori
La nuova protesta egiziana è stata organizzata dai Tamarrud, i ribelli: un gruppo di giovani ispirati dal nasserismo, un’ideologia pan-arabista vecchia di 60 anni, dai risultati discutibili. Divisi, litigiosi e senza idee migliori, i partiti ufficiali e i reduci di piazza Tahrir hanno cavalcato l’iniziativa. Se non funzionerà, potranno dire di non essere stati loro a organizzarla.

Il livello di comprensione della democrazia non è più profondo di quello della fratellanza. Non ci sarebbe nulla di male, data la storia dell’Egitto, ma gli uni e gli altri rivendicano di rappresentarla in pieno.
L’Islam politico non ha ancora capito l’inclusività della politica. Ma dalla loro parte ci sono tutte le elezioni organizzate in questi ultimi due anni: erano le più trasparenti della storia dell’Egitto e le ha vinte tutte la fratellanza. È qualcosa che i Tamarrud faticano a comprendere.

La difficoltà non è trovare 15 milioni di egiziani scontenti di Morsi, data la mediocrità del suo governo. Il problema è cosa fare a partire da lunedì: che le manifestazioni e la reazione della base islamista provochino una guerra civile o che semplicemente Morsi rassegni le dimissioni. Durante la dittatura di Mubarak, subito dopo la rivoluzione di piazza Tahrir e ancora oggi, le opposizioni hanno sempre dimostrato un velleitarismo distruttivo. Incapaci di fare fronte e costruire una leadership, riescono a trovare l’unità necessaria su modelli antiquati: il ritorno a Nasser e un antiamericanismo infantile.

CRONACA DI UGO TRAMBALLI SUL SOLE DI STAMATTINA
ulla facciata di uno dei palazzi che guardano piazza Tahrir, i Tamarrud hanno disteso uno striscione: «Morsi, sei come Mubarak». È come se la rivoluzione incominciata su questa piazza più di due anni fa, non fosse mai avvenuta. Si azzera tutto, si ricomincia daccapo. Sempre che l’Egitto - la sua economia, la sua società civile - riesca a reggere una seconda rivoluzione.
La mobilitazione di quello che il giornale al-Gomhurriya ha definito «il giorno più lungo», è incominciata lentamente a metà mattinata: la domenica in Egitto sarebbe il primo giorno lavorativo della settimana. Una mobilitazione parallela: gli oppositori hanno incominciato a radunarsi nella storica piazza Tahrir; i sostenitori del presidente Mohamed Morsi dei Fratelli musulmani, nel quartiere borghese di Nasr City, roccaforte della fratellanza.
articoli correlati
Anche gli slogan erano parallelamente opposti. «Rivolta contro i ladri», dicevano in piazza Tahrir, convinti che il governo controllato dall’Islam politico non sia meno corrotto di quello precedente del regime di Hosni Mubarak. «Linea rossa della legittimità», rispondeva altrove la fratellanza, sottolineando che un anno fa Morsi era stato eletto dalla maggioranza degli egiziani: solo il voto popolare, non la piazza, lo può delegittimare.
Sotto il sole di una giornata caldissima anche per le abitudini egiziane, le mobilitazioni stanno avvenendo senza particolari tensioni. In una piazza e nell’altra sembra quasi una giornata di festa. Ma le cose potrebbero cambiare. Sono le forze armate, non la polizia, a occuparsi dell’ordine. Lo Stato maggiore ha chiarito di essere determinato a intervenire ovunque le manifestazioni si trasformassero in rivolta violenta.
I Tamarrud, i ribelli, i giovani che hanno organizzato la mobilitazione anti-Morsi e la raccolta di 22 milioni di petizioni per chiedere le sue dimissioni, hanno il loro piano. Pacificamente - continuano a sottolineare - da piazza Tahrir e da altri punti della città, diversi cortei convergeranno verso il palazzo presidenziale a Heliopolis: non molto lontano da Nasr City. Nel palazzo Morsi non c’è più e la zona è presidiata dall’esercito. Le opposizioni vogliono avvicinarsi in ogni caso per consegnare idealmente al presidente i 22 milioni di fogli firmati che invocano le dimissioni di Morsi ed elezioni presidenziali anticipate.
È dopo il tramonto, quando la calura si sarà relativamente attenuata, che le piazze si riempiranno davvero. Oppositori e sostenitori sono entrambi sicuri di riuscire a chiamare alla mobilitazione più di un milione di egiziani solo al Cairo. Altre manifestazioni sono in corso in diverse città egiziane dall’Alto Nilo al Sud, fino al Delta a Nord. Anti e pro-Morsi hanno l’intenzione di dimostrare di essere pacifici: ne hanno l’interesse politico. Ma in Egitto sono in molti a mestare, nella speranza di far tornare un regime autoritario simile a quello di Hosni Mubarak.

ANALISI DI UGO TRAMBALLI SUL SOLE DI STAMATTINA
IL CAIRO - È per le mancate risposte a una crisi economica precipitosa che gli egiziani occupano di nuovo le piazze e chiedono le dimissioni di Mohamed Morsi. Eppure, dice un diplomatico europeo, «la situazione è tragica ma non seria». Gli esperti ricordano che il debito pubblico è passato da 33 a 45 miliardi di dollari: se per la fine dell’anno non si trovano altri 20 miliardi, oltre a quelli già dati dagli arabi del Golfo, dalla Libia e dalla Turchia, l’Egitto fallisce.
È la parte "tragica" della questione. Poi c’è quella che la rende "non seria". Il sistema bancario locale ha una grande liquidità: «Raccolgono 100 e investono 60», spiega il manager di un istituto privato. Ma questo è il meno. Oltre 48 milioni di egiziani - la metà della popolazione - non hanno alcun rapporto con le banche: non un conto, mai visto un assegno né un bancomat. Sono soprattutto commercianti, titolari di piccole e medie imprese, e i loro dipendenti. È una montagna di denaro che in parte resta sotto il materasso, in gran parte circola. Difficile quantificarla. Solo nel commercio, nell’industria e nei servizi sono un milione e mezzo d’imprese con otto milioni di impiegati.
Infine, come in ogni Paese arabo, c’è la rete familiare, il sistema di garanzia sociale forse più efficiente e pratico al mondo. È tutto questo che rafforza in molti egiziani la pericolosa convinzione che il loro sia un Paese "too big to fail": troppo importante per fare bancarotta. A un forum italo-egiziano organizzato dal nostro ambasciatore al Cairo, Maurizio Massari, gli ospiti egiziani di ogni credo politico e convinzione economica si stupivano indignati che i 4,8 miliardi offerti dal Fondo Monetario Internazionale richiedessero "condizioni": riforme economiche, sociali e democrazia. Ma in piazza anche gli oppositori stanno gridando slogan contro il "colonialismo" dell’Fmi.
Sono convinti che l’Egitto debba essere aiutato in quanto Egitto. Come hanno fatto i Paesi della regione: Libia, 2 miliardi più 1,5 in petrolio; Turchia 2; sauditi 1; Qatar 8 promessi, quasi 5 sborsati. Il loro aiuto non era condizionato da nessuna richiesta. È solo diverso il tasso d’interesse del prestito: 3,5% (il Qatar ha rimodulato il suo al 3). Il Fondo offre il suo all’1,5%. E non si tratta solo di 4.8 miliardi ma almeno del doppio: il sì del Fondo sarebbe una apertura di fiducia al Paese. Dalla Ue, dalla Banca europea di sviluppo e da altre istituzioni multilaterali arriverebbe una cifra come minimo uguale.
Ma, appunto, è un problema di credibilità. Le insondabili risorse interne sotto i materassi dall’Alto Nilo al Delta e l’aiuto degli arabi permettono all’Egitto di non fallire, non di crescere né di evitare le proteste di piazza. Le riserve valutarie sono appena risalite sopra il livello di guardia: da 13 a 16 miliardi di dollari. Ma non sono certezza di investimenti internazionali, infrastrutture, radicali riforme. I sussidi all’energia - una richiesta di riforma pressante del Fondo - drenano più dell’8% del Pil e non garantiscono la parte più povera della società: secondo il World Food Program dell’Onu fra il 2009 e il 2011 il 15,2% della popolazione è scivolata nella povertà, il doppio di quella che ne è uscita. Ma un altro degli slogan forti delle manifestazioni è contro l’eliminazione dei sussidi.
Nel Paese sul quale forse piove cinque giorni l’anno, solo l’1% dell’energia elettrica consumata viene dal solare: esclusa dai sussidi, una unità costa il 150% più di una ad energia tradizionale. Il portavoce dei Fratelli musulmani al potere, Mourad Mohammed Aly, garantisce che il governo ha già varato «un piano quinquennale per ristrutturare i sussidi. Dobbiamo farlo: solo le compagnie telefoniche l’anno scorso hanno avuto un miliardo e 200mila litri di benzina a prezzo politico». Ma Ishac Diwan, direttore per il Medio Oriente al Centro per lo sviluppo internazionale di Harvard, ricorda che «potrebbe passare una generazione prima di realizzare le riforme».
Il problema del Medio Oriente, enfatizzato dal Paese più popoloso della regione e un tempo il più autorevole, è quello di un modello economico. «Diversamente dall’Europa dell’Est più di 20 anni fa, quando molti andarono verso il modello economico della Ue, oggi i Paesi arabi in transizione sono privi di un vero modello per la loro destinazione economica finale», sostiene Masood Ahmed, il direttore regionale del Fmi.
Tutti gli uomini della Fratellanza che contano sono anche uomini d’affari. Lo sono Khairat al-Shater e Hassan Malek, i possibili candidati alla successione di Morsi, se il presidente dovesse dimettersi sotto la spinta delle manifestazioni. Malek ha creato la Egypt Business Development Association, la Confindustria della fratellanza. Nel biglietto da visita di Mohammed Aly non è indicato il suo ruolo di portavoce del movimento ma di "Regional Managing Director" di Lundbek, multinazionale farmaceutica.
Per questa vocazione imprenditoriale del suo movimento, le opposizioni accusano Morsi di non essere diverso da Mubarak. Dopo un anno di potere, l’idea di un laissez faire egiziano, coltivata da al-Shater e dagli altri, è stata ammorbidita dalla necessità di qualche compromesso importante. Soprattutto con i militari perché si sentissero rassicurati: per loro nulla cambierà con l’Islam politico al comando. Le privatizzazioni e il liberismo della fratellanza si fermano ai cancelli dei grandi kombinat industriali di modello sovietico, controllati dalle forze armate.

JOHN LLOYD SU REPUBBLICA DI STAMATTINA
IL CAIRO
IL POPOLO egiziano, 85 milioni di persone, ha buoni motivi per essere arrabbiato. Nell’ultimo anno di governo del presidente Mohamed Morsi la situazione economica è peggiorata.
N GRAN parte a causa della crisi gravissima del turismo.
Le riserve di valuta sono agli sgoccioli (gira voce che si esauriranno nel giro di una settimana). La benzina scarseggia: si vedono code enormi, di ore e ore, a tutti i distributori. I blackout sono la norma. I prezzi salgono inesorabilmente, e questo in un Paese dove si calcola che il 50% delle persone viva con 2 dollari al giorno. Condizioni del genere alimentano tensioni dappertutto, e spesso gruppi estremisti soffiano sul fuoco.
L’insigne politologo Walid Kazziha mi ha detto che quando lavora per un’associazione di beneficenza nel sobborgo più povero del Cairo, Ezbat al-Khayal-
lah, lui e gli altri volontari scoprono che i musulmani, che costituiscono metà della popolazione del quartiere, vengono aizzati dagli islamisti radicali contro i cristiani copti, che rappresentano l’altra metà. Gli operatori dell’associazione cercano di calmare gli animi, poi i radicali ritornano e ricominciano ad aizzarli.
Una società povera e arrabbiata è spesso una società illiberale: negli ultimi mesi decine di copti sono stati massacrati in una delle loro cattedrali, e sono stati presi di mira, e uccisi, anche musulmani sciiti, che rappresentano una piccola minoranza in uno Stato musulmano sunnita. «Provate a essere diversi in questo Paese: è molto intollerante », dice Ramy Aly, giovane scrittore e cineasta, nel Café Riche, un caffè letterario di antica fama vicino
a piazza Tahrir. «Provate a essere neri; o sciiti; o cristiani, o atei. O ebrei!». Ma forse i Fratelli musulmani non si preoccupano più di tanto di tutto questo. Abdallah Hassan, nel suo libro di prossima pubblicazione intitolato “Cambiano le notizie, cambiano le realtà”, sul ruolo dei mezzi di informazione in Egitto negli ultimi vent’anni, dice che «non hanno fatto nulla per ristrutturare lo Stato. Il loro obbiettivo è solo occuparlo, per mettere loro uomini in tutte le posizioni di potere: alti funzionari, ministeri, alla fine anche l’esercito». Anche ai musulmani moderati — che forse sono la maggioranza — questo piace poco, e molti di loro oggi, domenica 30 giugno, scenderanno in piazza. Ma c’è un grossissimo problema al cuore di quella che i dimo-stranti,
in maggioranza giovani, chiamano «la seconda rivoluzione ». Gridano instancabilmente «Morsi, vattene!», ma così facendo creano due pericoli, per loro stessi e per il movimento d’opposizione.
Il primo è che Morsi è stato eletto, quasi esattamente un anno fa, in elezioni che in generale sono state giudicate corrette. I Fratelli musulmani, un tempo clandestini, temuti e imprigionati, governano con il diritto conferito dal voto dei cittadini. Hanno dato prova di una follia criminale nel rifiutarsi di condividere il potere con altre forze, ma avevano il diritto formale di farlo. Il secondo pericolo è che l’opposizione ha tanti gruppi ed esponenti di primo piano, ma nessun leader. Questo conferisce al movimento una seducente
aria di spontaneità e garantisce un’ampia partecipazione: ma significa che se dovesse “vincere”, e Morsi dovesse dimettersi, o se alle elezioni i gruppi delle opposizioni dovessero conquistare la maggioranza, non avrebbero né programmi né leader.
L’Egitto rischia di diventare un posto violento: già si fa il conto delle vittime, fra le quali, venerdì, un giovane insegnante americano ad Alessandria, probabilmente accoltellato. L’unica speranza, la necessità assoluta, è un compromesso. Ma questo fine settimana, nelle strade e nelle piazze in ebollizione della capitale egiziana, piene di gruppi contrapposti pro e contro il regime, di segnali di compromesso non se ne vedono.

FRANCESCA PACI SULLA STAMPA DI STAMATTINA
A piazza Tahrir sono tornate le tende. Non quelle cupe dei senza tetto che nei mesi dopo la rivoluzione del 2011 avevano approfittato della deriva anarcoide del post Mubarak per dividersi la terra di nessuno con malviventi, provocatori islamisti o nostalgici del regime e giovanissimi demoni dostoevskiani. Le tende che oggi accoglieranno con caffè caldo i manifestanti in arrivo da ogni angolo del Cairo e dell’Egitto per contestare il primo anniversario della detestata presidenza Morsi hanno l’entusiasmo di due anni e mezzo fa, quando un paese coraggioso ma incosciente e ingenuo riuscì in 18 giorni ad aver ragione del trentennale regime del Faraone.
«Allora chiedevamo pane, libertà, dignità per i poveri e trasparenza politica, adesso vogliamo che se ne vadano i nuovi potenti responsabili del fallimento di quel programma, ossia i Fratelli Musulmani» spiega Sherif Abdel Monem nella sede scalcinata di Tamarod, in arabo ribellione, il movimento che in tre mesi ha calamitato almeno 10 mila volontari e raccolto oltre 22 milioni di firme contro Morsi, 9 milioni in più dei voti ottenuti dal primo presidente islamista d’Egitto. Sherif, 30 anni, un posto in banca e una lunga militanza politica a sinistra, registra le schede con nome, cognome, documento e autografo che continua a ricevere: «Quando abbiamo iniziato non ci credevamo. Con Mubarak non sarebbe stato possibile, eravamo terrorizzati perfino dal criticarne la camicia, invece la rivoluzione ci ha dato coraggio e la mediocrità di Morsi ci ha rafforzato».
Il morale è alto e lo spirito vivace, come testimoniano le tshirt in vendita a Tahrir con Morsi che scappa travolto dal tifone «Tamarod» o gli onnipresenti cartellini rossi su cui, alla maniera calcistica, è scritto «espulsione». Ma se la prima rivoluzione è costata quasi mille vittime, la seconda potrebbe non essere meno violenta, almeno a giudicare dal bilancio degli ultimi tre giorni a Alessandria, Port Said e Mansura con 8 morti (tra cui l’americano Andrew Pochter), 606 feriti, 5 donne aggredite sessualmente.
«Ci aspettiamo scontri, ma la presenza dell’esercito e della polizia, ostili ai Fratelli Musulmani, incoraggeranno molte persone a scendere in piazza nonostante la paura» osserva Ayman Alkadi, attivista di Dustur, il partito dell’ex capo dell’Aiea el Baradei nonché una delle principali sigle del cartello delle opposizioni Fronte di Salvezza Nazionale. Per vedere i blindati in postazione bisogna andare alla sede della televisione di stato, al palazzo presidenziale o vicino all’ambasciata statunitense che, contrariamente all’invito al dialogo della Casa Bianca, resta un tabù tanto per gli islamisti radicali (unici alleati dei Fratelli Musulmani) quanto per piazza Tahrir, dove uno striscione accusa Obama di sostenere «i terroristi» con la sua indulgenza verso Morsi. Ma seppure in borghese i militari sono ovunque, pronti a impedire «il caos» come annunciato sibillinamente dal ministro della difesa el Sissi.
«Aspettiamo che dopo averci messo da parte il paese ci richiami per essere protetto dai Fratelli Musulmani, in fondo, per esempio, siamo noi che stiamo mettendo in difficoltà Morsi con Hamas distruggendo i tunnel del contrabbando a Gaza» racconta una fonte dell’esercito. Il presidente islamista in realtà ha i suoi bei guai anche in casa dove la disoccupazione ha superato il 13%, la crescita è la più bassa degli ultimi vent’anni, la valuta estera come il turismo è in fuga e il prestito di 4,8 miliardi di dollari atteso dal Fondo Monetario Internazionale rischia di rivelarsi un boomerang per via dei tagli necessari ai sussidi di cui vive il Paese. Ma i militari pensano assai più strategicamente di quanto stiano provando di saper fare i Fratelli Musulmani, avidi di potere con la foga dei parvenue. E lavorano per mantenere il controllo sulla politica accaparratosi dai tempi di Muhammad Ali.
A differenza del 2011 gli egiziani sono più consapevoli, confondono ancora l’opposizione con la protesta ma avanzano richieste concrete: dimissioni del presidente, governoprovvisorio,nuoveelezioni.Donne velate e non, cristiani, musulmani, tutti convinti che la partita non sia «il gioco a somma zero» vaticinato dall’analista Khalil Anani.
«Stiamo preparando i nostri attivisti a non rispondere se saranno attaccati» chiosa Sherif. La violenza è un gorgo e i ragazzi di «Tamarod» non vogliono annegare con gli ex amici barbuti.

ANALISI DI REPUBBLICA.IT
VINCENZO NIGRO
IL CAIRO - "Un segnale dei problemi economici dell’Egitto? Eccolo, e possono capirlo tutti: la bolletta elettrica per un appartamento grande come il mio costa solo 5 euro: d’estate, con l’aria condizionata al massimo, arriva a 10 euro. E questo vale per tutti, ricchi e poveri. Così il sistema non regge". Nella grande sala delle riunioni dell’ambasciata d’Italia c’è un bel gruppo di manager italiani in Egitto. Roberto Vercelli, il responsabile di Alexbank, la banca egiziana di IntesaSanpaolo, usa il termometro della bolletta elettrica per spiegare che il vero abisso su cui si affaccia l’Egitto è quello economico, e che lo scontro politico non fa che rallentare la messa in sicurezza di un paese sempre più vicino alla bancarotta.
In Egitto i prezzi dell’elettricità, del carburante, del pane sono sovvenzionati dallo Stato, ma ormai lo Stato egiziano non ce la fa più. Il Fondo monetario da più di un anno negozia un prestito di quasi 5 miliardi di dollari, ma il governo del presidente Morsi non dà nessuna garanzia di voler riformare l’economia. L’accordo sui soldi non arriva, quindi non arrivano i prestiti dell’Unione europea, quindi non ritornano gli investitori privati che anzi continuano a fuggire dal paese.
"In questo le responsabilità del presidente Morsi e della politica scelta dai Fratelli musulmani sono chiare e dirette", dice Khaled Dawoud, portavoce del Fronte di Salvezza Nazionale, il cartello dell’opposizione che in queste ore coordina la presenza in piazza dei partiti anti-Morsi. "Innanzitutto i Fratelli si sono dimostrati capacissimi di occupare posti e poltrone: ma hanno dimostrato una qualità, una competenza soprattutto nel settore economico davvero disastrosa. Ma poi il vero problema è che con la loro strategia di occupare, di "fratellizzare" ogni pezzo dello stato egiziano, hanno respinto ogni possibilità di collaborazione con noi, con l’altra metà dell’Egitto. E tutto questo ci avvicina sempre più al crollo economico e anzi lo favorisce, perché il caos politico fa fuggire gli investimenti, rinvia il risanamento".
La crisi economica - quindi - è un moltiplicatore della crisi politica e al tempo stesso un suo effetto: qualcosa che sembra destinato a peggiorare in maniera esponenziale dopo le manifestazioni di queste ore. All’inizio c’era il problema del prestito del Fmi. Dall’inizio del 2013, con il crollo del turismo, degli investimenti e della stessa capacità produttiva del paese, l’Egitto ha iniziato a vedere dissanguate le sue riserve di valuta estera. All’inizio di maggio le riserve erano crollate a 14 miliardi di dollari dai 35 dell’inizio del 2011, prima della rivoluzione. Al governo egiziano la valuta serve per comprare gas e petrolio per produrre elettricità e offrire carburanti a prezzo sovvenzionato ai suoi cittadini. Altri milioni di dollari servono a importare cereali e soprattutto grano e farina, sempre da offrire ai cittadini a prezzi sovvenzionati. L’Egitto è il primo importatore al mondo di farina, e le attuali riserve valutarie del paese gli garantiscono pochi mesi di importazioni fra carburanti e cereali.
La paralisi del turismo e dell’industria in genere in questi ultimi mesi è stata affiancata da una nuova sciagura economica: in Egitto il gas sta finendo. Nel senso che mentre alcuni giacimenti sfruttati da anni si stanno letteralmente esaurendo (fra cui alcuni pozzi gestiti dall’Eni assieme alla spagnola Repsol), altri giacimenti rallentano il flusso per mancanza di manutenzioni e di investimenti e nuove scoperte non vengono esplorate perché pochi in questa fase di caos investono nel settore petrolifero egiziano.
Il risultato è che al Cairo e in tutto il paese manca la benzina, le code sono chilometriche. Altro fattore: dopo due anni di caos post-rivoluzionario si sono paralizzate le manutenzioni e i nuovi investimenti in centrali elettriche, per cui ci sono black out di continuo. Quindi ancora più egiziani in coda per acquistare carburanti che sono già scarsi.
Ancora: in questa situazione l’Egitto è costretto a ripensare ai prezzi sovvenzionati che offriva a industrie energivore (come i cementifici italiani di Italcementi e di Caltagione). Le industrie già presenti sono incerte sul da farsi, chi potrebbe investire dall’estero in una situazione così confusa evita di metter piede nel paese.
Da mesi nei suoi negoziati il Fondo monetario aveva avvertito i governanti del Fratelli musulmani che il paese deve ristrutturare completamente non solo il sistema delle sovvenzioni, ma complessivamente i concetti-base del suo sistema industriale. Il Qatar e la Libia hanno offerto 3 miliardi di dollari da versare nelle banche egiziane per tamponare il crollo della valuta, e alcuni milioni di barili di petrolio o di gas. Ma sono misure tampone, che non reggeranno più di qualche mese.
La grande protesta politica di queste ore non fa che moltiplicare il disagio economico: in vista dei cortei, temendo ancora una volta scontri e disordini, centinaia di migliaia di egiziani si sono messi in fila alle stazioni di rifornimento. Le file sono controllate a stento dalla polizia, diventano esse stesse sintomo e causa di malessere politico. La strada verso la democrazia sarà ancora lunga.