Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2013  giugno 13 Giovedì calendario

LA SICILIA SI SOGNÒ SEPARATA

VENTIQUATTRO ORE DOPO che gli inglesi e gli americani erano sbarcati in Sicilia, l’operazione Husky non presentava più incertezze per i comandi alleati. Ora si trattava di andare avanti, sempre avanti fino a Messina, che era l’obiettivo finale della campagna. Esattamente 24 ore dopo lo sbarco, per il generale Alfredo Guzzoni, comandante della difesa in Sicilia, invece si imitava di prendere la più grave decisione della sua carriera. Il generale italiano non aveva dubbi sull’esito finale della lotta. Tuttavia, egli doveva decidere quella notte, nel suo quartier generale di Enna, se spostare le riserve che aveva fra Trapani, Palermo e Agrigento per farle partecipare alla battaglia presso le teste di sbarco, oppure se doveva lasciarle nell’occidente dell’isola a fronteggiare altri eventuali sbarchi.
Il problema era di intuire se gli Alleati si sarebbero limitati ad attaccare soltanto nei 260 chilometri di costa dove erano sbarcati il primo giorno, o se avrebbero sferrato nuovi assalti in altri punti dei mille chilometri di spiagge che rimanevano.
Un anno dopo, in una situazione simile, il comando del maresciallo Erwin Rommel, in Normandia, non abbe dubbi, ma non potè spostare subito le riserve, perché soltanto Adolf Hitler poteva dare quell’ordine e Hitler in quel momento dormiva. Guzzoni non dormiva e decise di manovrare le due divisioni che aveva a ovest, l’italiana Assietta e la tedesca Sizilien. Ma a differenza di ciò che accadrà un anno dopo in Normandia, in Sicilia le riserve erano costituite da povere truppe in grado di muoversi molto lentamente. Il modo più rapido di farle spostare era ancora la ferrovia. Per questo Guzzoni sapeva che il brillante problema strategico in realtà per lui non esisteva.
Era domenica a Palermo. I cittadini ancora ignoravano che la decisione di Guzzoni aveva praticamente aperto la strada della loro città agli americani del generale George Patton, i quali avrebbero potuto avari/are quasi indisturbati per Agrigento e Corleone. In 12 giorni gli americani corpirono quel paio di centinaia di chilometri e il 11 luglio si affacciarono su Palermo da Monreale. Patton avrebbe detto ai .suoi: «E stato il più grande blitz della storia». Ma in quella domenica, gli americani erano ancora lontani. Palermo era una città semidistrutta, quasi deserta. La disperazione era sul viso di ogni persona rimasta in città, gente che non dormiva più la notte per i continui bombardamenti e che passava la giornata alla ricerca di qualcosa da mangiare. Al caffè Sulis, che era il cenacolo degli intellettuali bollati di disfattismo dai fascisti, non si vedeva quasi più nessuno. A casa Rutino, dove si riceveva ogni pomeriggio e dove si parlava liberamente dell’ormai prossima libertà, gli amici non potevano più andare, perché i padroni erano sfollati. Fu in una casetta vicino alla città, fra gli aranceti, che nel pomeriggio di quell’11 luglio Andrea Finocchiaro Aprile, Lucio e Alessandro Tasca, Antonino Varvaro e altri si ritrovano per stendere il documento che sarebbe diventato la pietra fondamentale del Movimento indipendentista siciliano. Dopo molte discussioni, il testo delinilivo diceva: «Il popolo siciliano chiede ai governi alleati la costituzione di un governo siciliano provvisorio al fine di predisporre e attuare un plebiscito perché si dichiari decaduta la monarchia sabauda in Sicilia, nella persona di Vittorio Emanuele III e dei suoi successori, e la Sicilia sia eretta a Stato sovrano, indipendente, a regime repubblicano».
RESISTENZA ALLA PLAYA
INTORNO A GELA, in quel momento, c’era ancora un contrattacco italiano sulla testa di ponte americana. Vi venne distrutto letteralmente il Terzo battaglione del 34° reggimento di fanteria della divisione Livorno. C’era confusione dovunque; anche nella testa del capomanipolo Giuseppe Catanzaro, in quei giorni comandante di una batteria di quattro cannoni alle porte di Catania, alla Playa, dove i catanesi hanno il loro lido estivo. Il giovanotto apparteneva alla milizia contraerea. Studente universitario della stessa Catania, aveva in città la moglie che aspettava un bambino. Sui muri dell’ufficio nel comando di batteria uno degli ordini di servizio, firmato dal generale Azzo Passalacqua, diceva: «Non si arretra. Il presidio del caposaldo, anche se circondato e sorpassato dal nemico e ridotto nei mezzi e negli effettivi, non abbandona le posizioni assegnate, ma resiste a oltranza». L’ordine era datato 11 luglio. Il 12 e il 13 luglio gli attacchi aerei e i bombardamenti navali premettero su Catania. Gli inglesi, si sapeva, erano sul fiume Simeto, a sei chilometri dalla Playa. Erano avanzati fulmineamente, travolgendo ogni resistenza da Siracusa in poi. I colpi di cannone intorno alla Playa li facevano sembrare anche più vicini.
Il capomanipolo Giuseppe Catanzaro, la mattina dell’11, telefonò a uno dei tanti comandi: disse che la situazione gli sembrava disperata, non era il caso di distruggere i cannoni e ritirarsi? Gli risposero che facesse pure. Seppe poi che quel comando non c’entrava per niente e che aveva fatto il numero sbagliato. Glielo disse il generale Passalacqua, comandante della difesa di Catania, quando gli annunciò che lo condannava a morte per abbandono di posto davanti al nemico.
La sentenza fu eseguita dai carabinieri. Fu l’unico fucilato della guerra in Sicilia. Ora la sua vedova ha ottenuto la pensione e il risarcimento dei danni citando in tribunale il generale Passalacqua per omicidio volontario. Quaranta chilometri a sud, mentre il generale Passalacqua faceva fucilare il capomanipolo Catanzaro, l’impiegato comunale Carmelo Giummo fu fatto chiamare al comune dal nuovo sindaco di Augusta, nominato dagli Alleati, Sebastiano Catalano.
Giummo non era fascista, almeno non era mai stato iscritto, ma si ritrovò fra gli impiegati fascisti del comune che il sergente Menici della polizia militare alleata veniva interrogando a uno a uno, confrontando i nomi con l’elenco degli iscritti al partito che era stato trovato nella casa del fascio. «Giummo, tu non sei iscritto, puoi andare», disse il sergente Monici. «Qui c’è un altro Giummo, lo conosci?». «È mio fratello», disse l’impiegato. «Allora lo manderemo a prendere», disse il sergente, «un po’ di campo non gli farà male». «Ma il poveretto ha sette figli e non ha mai fatto niente di male», osò dire Carmelo Giummo, «perché volete portarlo via?». Il sergente Menici lo guardò, stette un momento soprappensiero e poi disse: «Va bene, vuoi dire che gli farai un po’ di compagnia, al tuo fratellino fascista. Portate via anche questo qui». Carmelo Giummo così si ritrovò nel campo di concentramento dei fascisti a Priolo. Era il 14 luglio.
Due mesi dopo, in settembre, la maggior parte dei fascisti ne erano usciti per tornare alle loro case, il povero Giummo era ancora lì. Aveva visto uscire anche suo fratello, che era iscritto al partito dal 1922. «Ma tu dovevi essere un fascista ben pericoloso», gli disse il capitano inglese che lo liberò per ultimo il 4 novembre, quando il campo si chiuse. Arrivò ad Augusta in tempo per assistere, mentre passava davanti a un accampamento, alla fucilazione di un uomo di colore che veniva giustiziato per aver fatto violenza a una donna. La gente batteva le mani fuori dal reticolato.
Soltanto una settimana prima, per mezzo di alcuni marinai italiani che erano arrivati nel porto con le loro navi da guerra, la gente di Augusta aveva saputo che il fascismo era caduto da più di tre mesi e che l’8 settembre c’era stato un armistizio. Il significato della caduta del fascismo era stato invece afferrato subito dal generale tedesco Hans-Valentin Hube che comandava le tre divisioni germaniche nell’isola: la Sizilien, la Góring e la 29a, che era in corso di trasferimento dall’Italia. L’ordine ricevuto da Hitler di sgomberare immediatamente l’isola fu tenuto segreto ai comandi italiani e messo in esecuzione il 27 luglio, d’improvviso, lasciando nei guai i pochi reparti italiani ancora impegnati. La fine era prossima, Benito Mussolini non era stato ancora messo in minoranza dal Gran consiglio, quando gli americani si affacciarono sulla Conca d’oro da Monreale. Palermo era lì sotto, a tre chilometri. La mattina del 22 luglio il Giornale di Sicilia era uscito con il suo ultimo numero, accusando i gerarchi fascisti di essere scappati davanti all’avanzata alleata, con scuse di convocazioni e rapporti a Roma. Era un articolo di fondo pieno di risentimento nel quale, oggi, è possibile intravedere quale fosse lo stato d’animo dei siciliani verso il fascismo e l’Italia. Il senso di abbandono e la disperazione non erano nemmeno mitigati dalle speranze nel futuro.
Quale futuro? In tutta la Sicilia in quel momento c’erano soltanto fame, distruzioni, miseria e morte. Anche i giovani ricchi, quelli che erano stati chiamati “gli antifascisti del jazz”, gli aristocratici e i borghesi che si erano fatti un punto d’onore d’imparare l’inglese “per dopo”, anche loro avevano fame e basta. A Monreale c’erano l50mila palermitani sfollati, alloggiati in baracche, cantine, grotte.
Quando arrivarono i primi americani li sommersero di entusiasmo. Gli buttavano fiori, limoni e meloni: era tutto ciò che avevano in quel momento. Il generale George Patton, dimentico del pericolo corso a Gela soltanto 12 giorni prima, dirà al fotografo Robert Capa: «Comincio a spaventarmi, questa gente è impazzita». Alle porte di Palermo c’era un altro generale. Era un anziano ufficiale con una cicatrice sulla guancia sinistra. Si chiamava Giuseppe Molinero: a lui il generale Mario Ansio, comandante effettivo della zona, aveva delegato il compito di trattare la resa della città con gli Alleati. Molinero aspettò in fondo a corso Calatafimi quasi fino al tramonto, quando finalmente a Monreale gli americani riuscirono a liberarsi dall’assedio della folla e arrivò il generale Geoffrey Keyes. I due si incontrarono alla presenza di un interprete italiano e di un frate cappuccino.
Molinero voleva evitare la prigionia dei soldati e degli ufficiali, dopo la resa. Keyes rispondeva che non c’erano condizioni da trattare, la resa doveva essere incondizionata. Le questioni particolari si sarebbero viste dopo. Molinero e Keyes andarono insieme al Palazzo dei Normanni, dove in un minuto fu firmato Fatto di resa. Per tutto il tempo il generale Molinero continuava a insistere con Keyes sui punti che Arisio gli aveva raccomandato di trattare, Keyes rimase impenetrabile, ripetendo di tanto in tanto due sole parole: «Unconditional surrender». Non sorrise mai, non strinse la mano al generale italiano nemmeno nell’atto di salire sul gippone che lo riportava fra le sue truppe, quando Molinero ancora insisteva sui termini della resa.
IL GOVERNATORE TRAVESTITO
CHARLES POLETTI ERA GIÀ a Monreale? C’è chi dice di sì, che il colonnello Charles Poletti (vice governatore di New York nel 1942, guidò l’amministrazione militare alleata come governatore della Sicilia dal luglio 1943 al febbraio 1944, di Napoli, di Roma e infine di Milano, ndr) era arrivato a Monreale durante la guerra presentandosi come un ex emigrato cacciato dagli Stati Uniti per fascismo. C’è chi giura di averlo visto con i suoi occhi nella cittadina vicino a Palermo e anche a Palermo stessa, insieme a eminenti prelati e anche con noti gerarchi. Certo è che quando, il 23 luglio 1943, il colonnello Charles Poletti fu presentato come capo dell’Amgot per la città e poi per tutta la Sicilia, a molti quella faccia non era nuova. Oggi in Sicilia è impossibile ricostruire questo particolare. Probabilmente la storia della sua presenza nell’isola prima dello sbarco in parte si inquadra con le leggende nate poi sulla potenza del personaggio. In parte è dovuta alla frequenza con cui si verificarono infiltrazioni di agenti alleati in Sicilia prima dello sbarco: tutta gente che sembrava qualunque e poi, all’impi ’ov/ -iso, apparve in divisa militare dopo l’arrivo degli Alleati.
C’era un verduraio a Pachino, che si chiamava Giovanni Gaspar. Andava in giro con la sua carretta di verdura per il paese e le campagne, mesi e mesi prima dell’invasione. Tutti lo conoscevano e nessuno avrebbe mai dubitato che fosse siciliano. Parlava un dialetto strettissimo: si sarebbe detto che fosse dell’interno, Caltanissetta forse, o chissà dove. Quando la prima ondata dell’invasione fu passata, Giovanni Gaspar riapparve in divisa inglese. Si chiamava John Gaspar, in realtà, ed era di origine maltese. Fu il primo governatore dell’Amgot a Rosolini. Era stato sbarcato un anno prima dell’attacco alla Sicilia da un sottomarino. A Gela si ricordano che due operai della diga di Disueri, che venivano sempre in città, furono rivisti, dopo, in uniforme inglese: erano figli di siciliani emigrati in Egitto molti anni prima, paracadutati poi in Sicilia con una radio trasmittente che avevano messo in funzione durante lo sbarco. A Catania perfino un ex ufficiale d’aviazione sembra sia ricomparso, dopo, in una fiammante divisa americana; pare che prima avesse incarichi amministrativi in un aeroporto militare. Certo sbarchi di commandos e informatori ce ne furono. Un nipote di Aldisio, il dottor Dino Orlandi, era sottotenente a Gela quando il 7 luglio, due giorni prima dello sbarco, dovette mandare il suo attendente ad avvertire la fidanzata che quella sera non poteva andare a trovarla. Il soldato partì in bicicletta, fece l’ambasciata e nel tornare sparì. Nessuno seppe più nulla di lui fin quando riapparve dopo la guerra. Lungo la strada litoranea, rientrando alla caserma, era stato atterrato da alcuni strani tipi vestiti di gomma, che nel buio della notte lo immobilizzarono, lo legarono come un salame e lo portarono a bordo di un sottomarino poco distante dalla costa. Lo interrogarono per due giorni su tutto quello che sapeva.
In tutti i paesi dove gli Alleati arrivarono, i vecchi emigranti rientrati per nostalgia in Sicilia, o alcuni per filofascismo, furono in prima fila ad accogliere gli angloamericani. Ne parlavano la lingua, conoscevano il paese : molti riscossero in pieno la loro fiducia. Poletti, in particolare, se ne serviva. Dicono che molti di questi siculo-americani fossero mafiosi. Forse è vero che Luchy Luciano, dopo la liberazione di Palermo, girava per la città nell’auto lussuosa del primo console americano che vi venne nominato. Ma questo è un capitolo ancora troppo misterioso della guerra in Sicilia. (La relazione tra Alleati e mafia forse non fii legata ad accordi precedenti lo sbarco in Sicilia, ma si sviluppò per controllare il territorio. Il governo militare alleato, avanzando nei territori occupati, nominava sindaci e amministratori. A offrirsi come amministratori erano spesso i capimafia locali, che si facevano passare per antifascisti perseguitati dal regime. Ci furono però veri patti tra americani e clan. Sul tema: Mafia eAlleati, di Ezio Costanze, 2006, ndr).
Il 28 luglio 1943 l’avvocato Finocchiaro Aprile e l’avvocato Antonino Varvaro andarono da Poletti a presentargli la richiesta dei separatisti siciliani per l’indipendenza dell’isola. Parlarono al colonnello della situazione politica, gli spiegarono che cosa avevano provato i siciliani dopo il proclama del generale Mario Roatta, che trattava i siciliani da estranei all’Italia, gli dissero che i siciliani non avrebbero mai più creduto in qualcosa che venisse dal governo italiano dopo ciò che era successo. Il colonnello Poletti non aveva tempo da perdere. In realtà si sgomentò. Finì per congedarli bruscamente. Fu allora che nacque nella mente dei fratelli Tasca l’idea di offrire l’adesione della Sicilia al Commonwealth britannico. La proposta fu fatta, è un dato storico. Alla fine di luglio la guerra in Sicilia continuava, come aveva annunciato Pietro Badoglio. Catania non era stata ancora occupata. Il capomanipolo Giuseppe Catanzaro da un punto di vista militare era stato un po’ precipitoso ad abbandonare i suoi cannoni due settimane prima. Gli inglesi comandati dal vincitore di El Alamein non erano ancora riusciti a sfondare la resistenza a sud della città. Gli americani, dal canto loro, marciavano rapidamente verso oriente. Era chiaro che questa volta era veramente la fine, ma ci sarebbe voluto ancora un po’.
Si stava parlando di questo, il pomeriggio del 3 agosto nella casa che gli Amato, armaioli di Catania, avevano in campagna, a Mascalucia. Faceva molto caldo, la famiglia era ancora a tavola. Il vecchio Giovanni Amato, di 81 anni, aveva il tovagliolo in mano quando si affacciò sull’uscio a vedere chi era che chiamava. E con il tovagliolo bianco in mano cadde indietro, la gola aperta da una raffica di mitra. Il vecchio era sempre stato un grande ammiratore dei tedeschi. Era stato in Germania per 3 suo commercio di armi e di esplosivi, ne aveva riportato un’impressione di eccezionale correttezza.
Ne parlava sempre in famiglia. Erano soldati tedeschi, adesso, che gli avevano aperto la gola. Perché? Il nipote Giovanni non finirà mai di domandarselo. Oggi ricorda soltanto che resosi conto di ciò che era successo corse in una stanza vicina, strappò dal muro una doppietta e cominciò a sparare contro i tedeschi che stavano sulla strada, dietro un muricciolo.
La casa degli Amato era piena di munizioni, ne avevano portate alcune casse un mese prima da Catania quando avevano chiuso il negozio. Lupara contro Schmeisser, la battaglia infuriò per qualche minuto intorno alla casetta degli sfollati. Le sorelle di Giovanni Amato, suo padre, tutti sparavano contro i tedeschi di fuori. E nessuno sapeva perché. In paese, a poche centinaia di metri, c’era un gruppo di vigili del fuoco distaccati da Catania. Erano armati anche i pompieri, in quei giorni, e accorsero a dare man forte agli Amato. La battaglia divenne generale fin dentro il paese, dovunque c’era un tedesco. Arrivarono anche i soldati italiani di una compagnia di proiettori lì vicino. Avevano piazzato un fucile mitragliatore sulla cabina di un camioncino millecento e venivano avanti per la strada sparando raffiche micidiali. I tedeschi si ritirarono, saranno stati una ventina, lasciando sul terreno cinque morti. Più tardi giunsero alcuni ufficiali a parlamentare: volevano i due feriti tedeschi rimasti in paese e 50 italiani da fucilare contro i cinque tedeschi uccisi. I pompieri di Catania dissero che non avrebbero dato nessun italiano e se volevano i feriti se li prendessero. Il paese stette sveglio tutta la notte ad aspettare che i tedeschi radessero al suolo l’abitato. Erano arrivati da Catania i carabinieri. Per fare opera di pacificazione e per informarsi come questa storia fosse incominciata. Il tenente voleva arrestare i responsabili.
TROINA, ULTIMA ROCCAFORTE
LA MATTINA DOPO si videro avanzare dei grossi carri armati, erano dei Tigre, fecero la circonvallazione di Mascalucia. La gente aspettava in silenzio, rassegnata che sparassero il primo colpo, ma i carri armati continuarono a sferragliare nella strada finché il rumore si allontanò. Allora capirono: i tedeschi si stavano ritirando. Giovanni Amato ricorda che la gente scappò fuori dalle case e corse, corse via nella direzione opposta a quella dove erano scomparsi i Tigre fino a quando non videro le prime pattuglie di inglesi che avanzavano. Gli corsero incontro come forsennati a rischio di farsi sparare addosso dai nervosi esploratori delI’VIII armata.
Il 6 agosto venne occupata Catania. Il podestà, marchese Antonino di San Giuliano, ricevette i conquistatori nella caserma dei carabinieri. Il federale e il prefetto erano già oltre lo Stretto di Messina. L’arcivescovo Carmelo Palane, da Milo, dove si era rifugiato con il tesoro della cattedrale (i preziosi reliquiari e il tesoro di sant’Agata furono nascosti in una cisterna vuota nella chiesa di Fieri, a pochi chilometri da Milo, ndr), mandò il suo cameriere, don Beppino Bonaccorsi, a chiedere che sii inviassero una scorta per tornare in città. Il fotografo Salvatore Consoli quello stesso giorno incontrò davanti al palazzo della federazione fascista una faccia che conosceva. Anche l’americano in divisa di maggiore lo conosceva benissimo.
«Grazie per le mance che mi ha dato, signor Consoli», gli disse. Il fotografo ricordò: quel tale era stato lustrascarpe a Catania fino a poco tempo prima. Aveva il suo banchetto proprio davanti al portone della federazione. La gente quel pomeriggio cominciò a ritornare in città dai paesi intorno all’Etna dove si era rifugiata da mesi. Il giorno, dopo si riaprì un cinema, davano Il segno di Zorro.
Lo stesso giorno di Catania, fu occupata Troina. È un paese sperduto a nord dell’Etna, a più di mille metri d’altezza. Una roccaforte, pensava il tenente John Armellino della Prima divisione americana. Troina sembra veramente una fortezza, vista da lontano. Ma c’erano, il 6 agosto, non più di una quindicina di tedeschi e altrettanti italiani. I tedeschi erano tutti ventenni della divisione Sizilien che avrebbero dovuto andare in Tunisia mesi prima, poi erano stati sorpresi dalla resa dell’Africa in Sicilia e qui si erano fermati. Avevano soltanto voglia di farla finita. Ma il tenente John Armellino, che comandava le pattuglie avanzate della Prima divisione, non lo sapeva, perciò con i walkie-talkie del suo plotone continuava a ripetere: «Bombardate quel dannato posto se volete che ci vada». E l’artiglieria bombardava instancabile quel paese sperduto nelle montagne. I corrispondenti di Life telegrafavano: «Soltanto il fortissimo baluardo di Troina impedisce la fine rapida della guerra in Sicilia». Il 6 agosto, quando Filippo Furia, con Willy Pettinato e altri, uscì dal paese con un grande lenzuolo bianco per avvisare gli americani che da una settimana a Troina non c’era nessuno che impedisse l’occupazione, in paese c’erano già 112 morti (Troina nel 2007 ha ricevuto la medaglia d’oro al valore civile dal presidente Giorgio Napolitano, ndr). Nell’abitato non erano rimaste più di mille persone. Il paese m occupato alle dieci del mattino. A mezzogiorno il colonnello Empoli dell’Amgot riunì i fascisti nella sede del comune e disse loro che non potevano allontanarsi di più di tre chilometri da Troina. «Fate il vostro dovere di italiani», disse loro. Dieci giorni dopo, l’ultimo traghetto nello Stretto di Messina lasciò la Sicilia. Il comandante aveva l’ordine di affondare la nave appena sbarcati i passeggeri. Il Villa non portava più carri ferroviari, ormai, ma soltanto fuggiaschi, civili e militari. Era la sera del 16 agosto. Esattamente un anno prima era arrivato un ordine che consentiva il passaggio dello Stretto sui ferryboat soltanto alle vetture di prima classe e alle vetture letto. I passeggeri di seconda e terza classe dovevano scendere dai treni a Villa San Giovanni.