Franco Pierini, L’Europeo 13/6/2013, 13 giugno 2013
10 LUGLIO 1943 LO SPARCO DEI PAISA’ OPERAZIONE HUSKY
ERA STATA UNA GIORNATA DI VENTO. La mattina era caduta anche qualche goccia di pioggia. Nella sera ormai prossima il paese si risvegliava. Durante le ore di luce c’erano state le solite incursioni di passaggio; aerei che andavano a bombardare Catania e Messina, Siracusa e Comiso. La contraerea aveva sparato qualche colpo. Poi l’afa del pomeriggio aveva ristabilito il silenzio solo guastato dal sibilo di calde raffiche ventose e dal passaggio di qualche autocarro militare. Il dottor Sebastiano Fortuna, uno dei medici di Pachino, poco prima delle otto uscì di casa per andare a fare una visita. Ebbe una stretta al cuore vedendo lo squallore delle distruzioni intorno alla piazza del suo paese e la gente che come ogni sera si preparava a partire per la campagna dove avrebbe passato la notte per evitare i lunghi allarmi e i bombardamenti. Lo sconforto lo coglieva ogni volta che posava lo sguardo sulla piazza di Pachino così malconcia. Subito rabbrividiva al pensiero di ciò che doveva ancora venire.
Come tutti in paese, il dottor Fortuna non dubitava che un giorno o l’altro lì, nella punta estrema della Sicilia, si sarebbe combattuto duramente e che la guerra sarebbe passata in quella piazza quadrata. Come tutti, il dottor Fortuna aspettava lo sbarco: quella sera, fatti pochi passi nella piazza, il dottore fu raggiunto dalla sua donna di servizio: «È venuto un soldato, dottore, ha detto che l’aspettano subito al cinema, è urgentissimo». Al cinema Tufari, lì vicino, il dottor Fortuna trovò un’agitazione terribile. Nel cinema era stabilito il comando militare della città. Mentre entrava in un ufficio, sentì un ufficiale che ordinava per telefono: «La prima cosa, ricordatevi, è di rendere inservibile il campo d’aviazione. No, niente bidoni vuoti, bisogna prendere i trattori e ararlo subito. Ararlo, capito?». Il dottor Fortuna capì benissimo anche lui. Questa volta era lo sbarco sul serio. Il suo primo pensiero, lo ricorda ancora oggi, fu di sorpresa. Ci avevano pensato tanto, ne avevano parlato così a lungo, ma tutti restarono come folgorati, quella sera dell’estate 1943, quando i comandi militari della Sicilia annunciarono che l’isola era in “stato d’emergenza”. Al cinema Tufari, un colonnello disse al dottor Fortuna che lo sbarco era previsto per la mattina del giorno dopo, avrebbero avuto bisogno di lui, doveva tenersi a disposizione. Il medico ricorda ancora che si domandò che giorno fosse l’indomani, pensando ai suoi impegni. Era il 10 luglio, sabato.
Circa tre ore prima che il dottor Fortuna fosse chiamato al comando di Pachino, due idrovolanti Cant erano decollati dalla rada di Augusta per il normale turno di ricognizione serale. A grande altezza, verso le 18.30 si trovavano a nord di Malta, lungo una rotta che ormai era consueta ai ricognitori: a una ventina di miglia dall’isola, gli aerei iniziavano un vasto cerchio che li faceva girare in tondo sulla roccaforte per riportarli poi verso nord in dirczione della Sicilia. I due aerei avevano quasi raggiunto il punto più meridionale della loro virata a largo raggio intorno a Malta, quando gli osservatori e i piloti si trovarono dinnanzi lo spettacolo più straordinario che avessero mai visto in tre anni di guerra. Tutto l’orizzonte a sud e a est di Malta era pieno di navi. Non potevano contarle. Saranno state mille, 2mila? Forse più. C’erano navi da guerra e da trasporto, piccole e grandi. C’erano anche aerei da caccia nelle vicinanze: ebbero soltanto il tempo di guardare ancora un attimo lo spettacolo e filare via. Gli osservatori, che erano ufficiali di Marina, cercarono di calcolare la rotta di quella enorme flotta. Con la carta davanti non ebbero più dubbi: era l’invasione. Qualche istante dopo, la base ricevette per radio il rapporto dei ricognitori: sei convogli diretti verso la Sicilia fra Gela e Capo Passero. Alle 19 l’annuncio arrivava al comandante in capo generale Alfredo Guzzoni nel suo quartier generale di Enna. Fu chiesta una conferma ad Augusta. La conferma arrivò 20 minuti dopo. Alle 19.25 l’allarme generale di massimo grado, chiamato convenzionalmente "emergenza", fu dato a tutti i comandi costieri e interni della Sicilia.
Alla stessa ora, su una nave trasporto americana che faceva parte della flotta d’invasione e che era contrassegnata con un grande numero a prua e a poppa, un tenente dell’amministrazione dell’esercito degli Stati Uniti, Salvatore Pappalardo, leggeva alla luce del tramonto un foglietto dattiloscritto che era stato consegnato a tutti gli ufficiali. Era un ordine del giorno del generale George Smith Patton, comandante della VII armata. Diceva: «Quando sbarcheremo, incontreremo tedeschi e italiani che avremo l’onore e il privilegio di attaccare e distruggere. Molti di voi hanno nelle vene sangue tedesco e italiano, ma ricordate che i vostri avi amarono tanto la libertà da abbandonare la loro casa e la loro terra per varcare l’oceano in cerca di libertà. Invece gli avi di coloro che dovremo ora uccidere non ebbero il coraggio di far questo sacrificio e rimasero schiavi».
LUCE VERDE IN DUE MINUTI
IL TENENTE PAPPALARDO sorrise leggendo il linguaggio alato del generale Patton. Lui avrebbe preferito che lo avessero destinato in qualche posto vicino a Catania, di dove erano partiti i suoi per l’America nel 1912, invece aveva in tasca l’ordine di organizzare l’amministrazione civile e militare a Pachino «appena fosse stata conquistata». Aveva anche un elenco di nomi di persone che avrebbe dovuto convocare appena arrivato sul posto, per trovare gli individui adatti a reggere l’amministrazione. In testa alla lista c’era un certo avvocato Corrado Bellomia. Il tenente Pappalardo non sapeva che l’avvocato Bellomia era morto da anni, riposava ormai in pace dopo molto soffrire per via del fascismo. Sua figlia aveva sposato il dottor Fortuna, che proprio quella sera dovette andare a Portopalo, esattamente dove si prevedeva lo sbarco, a curare il bambino di uno dei guardiani del faro di Capo Passero. Quello sarebbe stato il primo posto dell’Europa dove gli Alleati avrebbero rimesso piede dopo tre anni da Dunkerque (la sconfitta nella battaglia di Dunkerque, nel Nord della Francia, combattuta dal 26 maggio al 3 giugno 1940, costrinse l’esercito francese e il corpo di spedizione britannico a ripiegare, incalzati dalle truppe tedesche che avevano invaso la Francia, ndr).
Era buio da non più di due ore quando da bordo di un Dc-3 in volo il colonnello James Maurice Gavin, detto Jumping Jim, Jim il saltatore, vide la costa della Sicilia sotto l’ala di sinistra dell’apparecchio. Era strano, perché nei voli precedenti fatti per preparare il lancio dei paracadutisti nella zona presso Gela la costa era sempre apparsa sulla destra dell’aereo. I piloti dissero che c’era molto vento, forse erano un po’ fuori rotta. «Non importa», disse il colonnello, «l’ordine è di lanciarsi in ogni caso. Accendete la luce verde fra due minuti». Al segnale verde nella carlinga, i paracadutisti si alzarono dalle panche e a uno a uno si lanciarono nel buio. Sotto di loro la Sicilia. Ma sarà poi la Sicilia? Gavin se lo domandava mentre scendeva lentamente appeso al paracadute. Non riconobbe nessuno dei segni particolari che si era fissato in mente durante i voli di ricognizione. Il dubbio gli rimase anche quando fu a terra e si trovò intorno non più di una decina dei suoi uomini, lui che era il comandante di un reggimento. Si sentiva qualche sparo in lontananza, ma per il resto la notte era silenziosa. Gavin decise di andare verso gli spari lontani. A West Point gli avevano insegnato che bisogna sempre dirigersi verso il rumore della battaglia. Ma poi gli spari cessarono. Dunque non c’era nessuna battaglia. Allora, come si fa?, si domandava il colonnello, che, come tutti gli americani dell’821 divisione paracadutisti, era alla sua prima azione di guerra.
A un tratto udirono qualcuno che fischiettava in una stradicciola lì vicino. Il primo prigioniero della guerra in Sicilia, pensò subito Gavin. Si buttarono addosso all’uomo che veniva avanti con le mani in tasca tranquillo e lo immobilizzarono. Era un giovanotto con la testa grossa, magro. «Dove Siracusa?», «Dove Palermo?», domandò subito Gavin all’uomo che li guardava con gli occhi sbarrati. Il colonnello voleva orientarsi in qualche modo, se il siciliano lo avesse aiutato. Ma quello, muto come un pesce, tremante, emetteva solo suoni indistinti. Il sospetto di non essere in Sicilia, ma nei Balcani, tornò al colonnello. Evidentemente non soltanto il prigioniero non capiva l’italiano, ma non aveva mai sentito nominare ne Palermo ne Siracusa. A un tratto il prigioniero afferrò con la mano il coltello lucente che uno dei soldati gli teneva puntato sul ventre e cominciò a divincolarsi. Da un taglio profondo che si era fatto sulla mano nel prendere la lama uscì uno zampillo di sangue e l’uomo si mise a gridare: «Mamma mia! Mamma mia!». Il colonnello Gavin tirò un sospiro. Almeno erano in Italia.
CHE COS’È QUESTO SEPARATISMO?
PER FAR TACERE L’UOMO i soldati gli si buttarono addosso e lottarono per qualche minuto. Quando ebbero finito, si guardarono esterrefatti: nel buio avevano lottato fra loro. Il prigioniero era fuggito. L’allora colonnello Jumping Jim, che oggi è l’influente ambasciatore James M. Gavin, rappresentante degli Stati Uniti a Parigi, non seppe mai che il primo prigioniero fatto dagli Alleati in Sicilia la notte fra il 9 e il 10 luglio 1943 nei pressi di Acate era lo scemo del paese, un povero ragazzo ritardato che sapeva dire soltanto «Mamma mia». Mammamia, infatti, era chiamato.
Pressappoco mentre il colonnello Gavin cercava a tentoni nella notte siciliana i dispersi gruppi del suo reggimento di paracadutisti (e li avrebbe ritrovati, in parte, soltanto due giorni dopo), l’avvocato Salvatore Aldisio (durante lo sbarco degli Alleati assunse la guida della nascente Democrazia cristiana siciliana; negli anni Cinquanta fu ministro dei Lavori pubblici nel VI e VII governo De Gasperi, dell’Industria e commercio nel I governo Pantani, ndr) si sdraiava sul letto nella sua villa di Capo Soprano, alle porte di Gela. C’erano stati molti allarmi quella sera, ma la villa era isolata, coperta da un grandissimo gelso che la nascondeva sia verso il mare sia verso la terra. L’avvocato Aldisio, che a Gela e in tutta la Sicilia molti chiamavano ancora onorevole in ricordo delle sue battaglie di deputato nel Partito popolare di don Luigi Sturzo prima del fascismo, non immaginava certo, addormentandosi, che proprio quella notte avrebbe fatto di lui, nuovamente, uno degli uomini più importanti della Sicilia per molti anni.
In quella stessa villa, qualche giorno prima, era venuto a trovarlo un avvocato palermitano, un certo Andrea Finocchiaro Aprile (leader del Movimento indipendentista siciliano, attivo tra il 1943 e il 1951, ndr). Gli aveva parlato di ciò che sarebbe accaduto nel caso che la Sicilia fosse invasa. Finocchiaro Aprile si era dilungato a spiegare ad Aldisio l’idea del nuovo movimento che chiamavano “separatismo”. Voleva il suo appoggio autorevole e il suo grande seguito di popolarità nella zona di Caltanissetta e Gela per presentare agli Alleati, quando fossero sbarcati, la volontà unitaria del popolo siciliano di staccare l’isola dall’Italia per formare una nazione a sé: «Ma che vuole questo Finocchiaro?», aveva commentato Aldisio la sera di quell’incontro. «Separatismo. Quattro fessi che nessuno ha mai visto. Che vogliono separare? La miseria?». L’avvocato Aldisio la sera del 9 luglio 1943 non si figurava certamente che tre mesi dopo tutta la Sicilia sarebbe stata appassionatamente separatista e che soltanto lui e l’anziano Enrico La Loggia (fece parte della Consulta regionale siciliana e fu uno dei protagonisti della stesura dello Statuto speciale della Sicilia, ndr), fra i molti vecchi deputati prefascisti, non avrebbero aderito al separatismo. E che proprio a lui, in quanto alto commissario per la Sicilia, sarebbe toccato, un anno dopo, di liquidare energicamente il separatismo politico e quello armato.
Quella notte Salvatore Aldisio si addormentò tranquillo. Non sentì che poco dopo i soldati andavano in tutte le case del vicinato a svegliare la gente. Erano le 11 di sera, c’era l’ordine di evacuare tutta la fascia costiera di Gela. Nessun civile doveva restare dove fra poche ore si sarebbe combattuto. Lunghe colonne di gente semiaddormentata, con coperte, pacchi, valigie, sacchi in spalla, si avviarono a piedi verso la campagna. I soldati che correvano di qua e di là in una confusione indescrivibile. La gente era ancora tutta in mezzo alle strade quando si sentirono aerei molto bassi. L’antiaerea cominciò a sparare. Gli aeroplani mitragliavano raso terra alla luce della luna, lanciavano spezzoni incendiari che appiccavano immediatamente il fuoco agli edifici. La gente che sfollava fu colta quasi tutta ancora dentro le mura del paese dall’attacco aereo.
L’EROICO POSTINO
A UN CHILOMETRO dalla casa di Aldisio, quasi nel centro di Gela, uno che aveva capito subito che cosa stava succedendo era stato il maestro Rocco Tignino. Era un antifascista, ma nessun comando dei carabinieri lo aveva mai considerato pericoloso. Un tipo chiuso, solitario, sempre indispettito e scontroso. Tignino vide da casa sua quello che avveniva nelle strade del paese. Vide venire avanti a balzi, da un angolo all’altro, le pattuglie di paracadutisti americani che entravano a Gela sparando contro i reparti italiani che si ritiravano combattendo. Non aspettò molto, il maestro Tignino, a porgere il primo saluto a coloro che egli considerava i liberatori. Aprì il balcone che dava sul corso e uscì fuori gridando come un forsennato: «Evviva la libertà! Evviva l’America! Abbasso Benito Mussolini!». Si mise anche a cantare, ma non aveva finito la frase «Si scopron le tombe...» che una raffica gli aveva arrossato di sangue la canottiera bianca sul petto. Cadde giù dal balcone, senza un grido, ai piedi della pattuglia di americani che l’aveva colpito senza capire quello che diceva. I soldati, vedendo quell’uomo in maglietta che gridava al balcone, avevano creduto che fosse un fanatico capo fascista che incitava alla resistenza.
Invece, quasi tutti i reparti di camicie nere della difesa costiera a quell’ora avevano abbandonato le spiagge della Sicilia meridionale. Alle quattro, prima che si levasse il sole, già ci si vedeva bene, e tutto il mare da Siracusa a Licata, per 260 chilometri, apparve pieno di navi. Pochissimi capi fascisti videro lo spettacolo, occupati com’erano a cercare abiti borghesi in ogni casa dove andavano rifugiandosi mentre si allontanavano dalla costa. «Il mare sembrava un melone d’acqua, sa, di quelli che ci sono dalle nostre parti. Le navi sul mare erano fitte come i semi neri del melone», ricorda la maestra Ignazia Guarino di Cassibile, un paesino a sud di Siracusa che era il limite estremo destro dello schieramento di sbarco. Cassibile poco tempo dopo sarebbe diventato famoso, non per lo sbarco, ma per l’armistizio che venne firmato sotto l’ombra di un albero in contrada San Michele. Questa faccenda dell’armistizio la gente di Cassibile l’avrebbe saputa molto tempo dopo la fine della guerra. La mattina dello sbarco videro il mare coperto di navi e quasi tutti ruggirono a ripararsi in campagna. Il barone Gaetano Francica Nava, proprietario del luogo, aveva messo a disposizione le sue masserie per gli sfollati, fin dalla notte, quando c’era stato un grande bombardamento navale dal mare di fronte a Cassibile. Uno dei pochi a rimanere in paese, la mattina del 10 luglio, era stato il postino Paolo Cianci, che era andato a vedere se era arrivata la posta. La posta c’era regolarmente, in tutta quella confusione. Nonostante i bombardamenti, i mitragliamenti e lo sbarco, il servizio postale di Siracusa aveva funzionato regolarmente. Alle 4.45, quando il sole si alzò a 12 chilometri da Cassibile, al ponte sul fiume Anapo, erano già morte combattendo alcune decine di soldati inglesi di un battaglione di paracadutisti, lanciati con il compito di tenere aperto il ponte e la strada verso Siracusa.
Di mille inglesi scesi dal cielo, soltanto un gruppetto di 16 era riuscito a trovare il ponte e a prenderlo di sorpresa. Il resto del battaglione era stato disperso dallo stesso vento che aveva prima dirottato e poi disseminato per mezza Sicilia i paracadutisti del colonnello americano Jumping Jim. Affacciandosi alla porta dell’ufficio postale, il postino Cianci, quella mattina, ebbe l’impressione che stesse finendo il mondo. Ricorda ancora che le gambe gli tremavano e che non fu capace di reggersi in piedi. Dovette sedersi. E in quella posizione, con la borsa della corrispondenza sulle ginocchia, dalla porta semiaperta dell’ufficio vide arrivare di corsa i primi gruppi da sbarco inglesi che venivano dalla spiaggia lontana un chilometro.
Per quello che il portalettere ricorda, gli unici che vide difendersi la mattina furono le guardie di finanza, che si ritiravano sparando con i moschetti mentre i primi carri armati entravano in paese. I cannoncini dei forti sulla spiaggia non sparavano più da molto tempo. Intanto le ondate di invasione si succedevano l’una all’altra fra una tempesta di fuoco. Cianci si ricorda del suono di una zampogna in quelle ore dell’alba e per molti giorni, fin quando non vide, dopo, un gruppo di scozzesi, si domandò chi poteva essere stato quella mattina a suonare la zampogna in mezzo a tanta ira di Dio. Mentre il sole saliva, la gente che a Cassibile era stata ancora trovata in casa veniva avviata sulla spiaggia. Agli uomini, più tardi, fecero scavare delle fosse, grandi e profonde, nelle quali furono poi calati i corpi di 535 soldati e civili. Erano italiani, tedeschi, Alleati, tutti morti nelle prime ore dello sbarco. A 25 chilometri di distanza, altri prigionieri in quel momento stavano scavando altre fosse, presso Pachino, in contrada Baroni. Vicino al ponte di Saia Baroni, sulla strada che da Pachino porta a Rosolini, c’erano morti italiani e tedeschi e alcuni camion bruciati dalle granate. Non erano stati gli inglesi delI’VIII armata, ne i canadesi della Prima divisione a ucciderli.
Prima dell’alba del 10 luglio 1943 l’unico combattimento a distanza ravvicinata svoltosi intorno a Pachino, a parte la resistenza di alcuni fortini a Marzamemi, era stato fra italiani e tedeschi. Lo scontro era avvenuto tra un reggimento di fanteria italiano e una colonna motorizzata tedesca in fuga. Sul terreno rimasero parecchi morti. Li videro per primi le avanguardie dei carri armati inglesi che all’alba già avevano superato Pachino e marciavano verso l’interno. Dapprima credettero fossero stati i paracadutisti lanciati nella notte, ma poi certi segni inequivocabili resero evidente che alla lotta non avevano partecipato le truppe alleate. L’interrogativo su quell’episodio, ancora oggi non del tutto chiarito, rimase a lungo nella mente dei carristi del generale Bernard Montgomery (comandante delI’VIII armata britannica, ndr) mentre proseguivano alla volta di Rosolini e di Ispica. All’alba, sbarcati dalla rada di Portopalo, mentre a Marzamemi qualche fortino di fanteria costiera resisteva ancora, i primi carri armati inglesi intorno a Pachino erano già alcune centinaia. Le navi davanti a Capo Passero più di mille.
Alle nove del mattino apparvero sui muri diroccati della piccola città i primi manifesti dell’Amgot (governo militare d’occupazione, l’Allied Military Govemment of Occupied Territories, ndr) in inglese e in italiano, firmati dal generale Harold Alexander. Imponevano: la consegna delle armi, la distruzione delle radiotrasmittenti, il coprifuoco. Promettevano: la libertà, il libero ascolto delle radioriceventi, l’assistenza alimentare.
A quell’ora il tenente Salvatore Pappalardo dell’Amgot aveva già saputo che il vecchio avvocato Corrado Bellomia era morto. Prima di mezzogiorno avrebbe già nominato il nuovo sindaco di Pachino, l’avvocato Bartolomeo Pacca, che fu il primo sindaco dell’Europa liberata. Il primo arrestato dai liberatori fu il segretario politico del fascio di Pachino, ragionier Edoardo Costa. Insieme con lui, gli Alleati volevano tutti i fascisti responsabili di malefatte negli ultimi 21 anni, ma non ce n’erano più. L’unico squadrista di Pachino, un certo Gambareri, era già morto e non doveva più render conto dell’olio di ricino fatto bere al povero Bellomia, anche lui deceduto. Il segretario politico Costa fu messo lo stesso giorno su un camion inglese e portato in giro per il paese perché tutti vedessero che era finita la sua potenza. Le donne gli tirarono addosso l’unica cosa di cui in quel momento ci fosse abbondanza a Pachino: pomodori. Mentre questo avveniva sulla piazza, nell’unica trattoria del paese, da Oddo, il generale Alexander pranzava insieme con il generale Montgomery.
I TIMORI INFONDATI DI PATTON
A QUELL’ORA, A UN CENTINAIO di chilometri di distanza, a Gela, un altro generale destinato a diventare famoso, George Smith Patton, stava nel suo quartier generale a poche centinaia di metri dalla spiaggia fumando nervosamente un grosso sigaro mentre parlava al telefono con i comandanti delle sue pattuglie avanzate. Aveva come sempre due grosse pistole al fianco, alla maniera dei cowboy, e il suo linguaggio era più vivace che mai: «Dite a quei fottuti che se non smettono di ritirarsi gli faccio sparare addosso dalle navi». Il generale Patton era nei guai. Italiani e tedeschi stavano premendo sulla testa di sbarco di Gela. Almeno così credevano i suoi uomini.
Di fatto un contrattacco ci fu, violento e coraggioso. Due carri armati leggeri italiani, di quelli che i soldati chiamavano scatole di sardine, arrivarono fin sulla piazza di Gela. Ma dietro di loro non c’era nessuno o quasi. I carri armati della divisione corazzata Goring, che dovevano appoggiare l’azione, non si erano fatti vivi. Uno dei due carri italiani fu immobilizzato sulla piazza, quasi davanti alla chiesa, l’altro riuscì a svincolarsi e a ritornare indietro. Il pilota del primo carro, quando uscì dallo sportello, fu freddato da una mitragliatrice e cadde in avanti. Rimase lì per ore. Ma l’attacco aveva impressionato i “rangers” della Prima divisione americana. Credettero che quella fosse soltanto l’avanguardia di un’offensiva diretta a rigettarli in mare. Anche Patton ci aveva creduto e aveva avvertito le navi al largo di tenersi pronte a un eventuale reimbarco. Non ce ne fu bisogno. Qualche ora più tardi il generale Patton e il suo stato maggiore erano ospiti in una villa principesca di Gela. Il padrone di casa disse che era lieto di ricevere i figli della libera America. In una delle tante fosse che in quel tardo pomeriggio si stavano scavando in tutta la Sicilia meridionale, nel cimitero di Gela, a poche centinaia di metri dalla villa principesca, decine e decine di morti venivano sepolti soltanto avvolti in lenzuoli. Il maggior numero indossava poveri abiti borghesi. Si dice che a provocare più morti siano state le artiglierie italiane che sparavano dall’interno in appoggio a un contrattacco che poi non si potè fare. Gli abitanti di Gela si erano rifugiati proprio nella parte del paese che da verso la campagna, nell’illusione che il maggior pericolo fosse dalla parte del mare. La notte prima c’era stato un forte attacco aereo. Si erano visti alianti e paracadutisti nella zona di Siracusa. Verso la mattina c’era stata la interruzione completa delle linee telefoniche con il comando e con le altre batterie. Nessuno ebbe la sensazione che si trattava dell’invasione. Nelle ultime settimane gli attacchi aerei erano stati continui. Le navi si erano sempre tenute prudentemente al largo da Santa Panagia che poteva colpire con i suoi cannoni fino a 35 chilometri di distanza. L’ordine di “emergenza” non era arrivato chiaramente. All’alba del 10 luglio, però, si erano viste navi lontane. Senza comunicazioni telefoniche era stato impossibile stabilire se fossero italiane o avversarie. Soltanto dopo che aprirono il fuoco si capì che erano navi inglesi. «Brutto segno», disse il comandante della batteria, capitano Salvatore Conigliano. Risposero al fuoco e le navi filarono via fuori tiro.
SMANTELLARE L’ISOLA DEL DIAVOLO
LA PIÙ POTENTE BATTERIA della Sicilia rimase inattiva dall’alba fino al pomeriggio, quando un sottotenente mandato a cercare notizie in motocicletta ritornò a informare che aveva visto avanzare soldati inglesi, che da Siracusa tutti i comandi fuggivano e che gli altri forti intorno ad Augusta stavano saltando a uno a uno. Infatti tra le 11 e mezzogiorno, sotto la minaccia ancora lontana di un attacco da terra, le difese di Augusta ricevevano una dopo l’altra l’ordine di smantellamento. Gli inglesi avevano soprannominato Augusta risola del diavolo a causa della fortissima difesa contraerea. La mattina del 10 luglio, i pezzi dell’antiaerea di Augusta colpirono soltanto alcuni apparecchi italiani della base idrovolanti da ricognizione, alla fonda nella rada. Ebbero l’ordine di cannoneggiarli per sottrarli a un’eventuale cattura. C’erano, fra questi, anche i due Cant che poche ore prima avevano avvistato la flotta d’invasione al largo di Malta. Alle otto di sera, il tenente Marturano accese le micce delle cariche esplosive nei cannoni di Santa Panagia. I cannoni non avrebbero potuto essere utilizzati verso terra. Il mare davanti era ancora deserto, ma gli inglesi erano a pochi chilometri sulla strada nazionale di Siracusa. Il grande boato dei 381 che saltavano in aria fu udito ad Augusta dalla gente che stava raccogliendo a sacchi le cose abbandonate nei magazzini militari. Pasta, scatolette di carne, zucchero, vino e liquori, tutto veniva portato via dai pochi rimasti in città. Era un saccheggio autorizzato. Nella piazzaforte non era rimasto nessun comando. Il primo che ad Augusta vide gli inglesi m un esattore delle imposte di consumo, Giuseppe Tringali. Lo presero il giorno dopo, mentre stava guardando che cosa era rimasto in un magazzino svuotato. Erano marinai inglesi e greci, lo portarono a bordo di un cacciatorpediniere e lo interrogarono. L’esattore delle imposte disse che ad Augusta non c’era più nessuno. Il comandante del caccia si portò via il Tringali per due giorni, lo condusse fino a Malta, poi lo riportò a Siracusa. Quando Tringali tomo ad Augusta, la Gibilterra della Sicilia era già una città di retrovia. Fortezza marittima, era stata presa da terra, dalla parte dove non ci si era aspettato che i suoi cannoni dovessero mai sparare. Dopo, dissero che Augusta si era arresa senza combattere: tradimento. Soltanto il 13 maggio 1943 ad Augusta ci furono 200 morti civili in una notte di bombardamento aereo. Morti così, senza combattere.
La sera del primo giorno dell’invasione scese in Sicilia serena. Il forte vento di scirocco era cessato. La luna era alta nel cielo; come la notte precedente sarebbe calata presto. C’era, nella notte, gente che fuggiva e gente che avanzava, qualcuno poteva dormire già sonni più tranquilli. In certe case della Sicilia l’agonia della guerra era finita, in numerose altre doveva ancora cominciare. In un fosso, dalle parti di Gela, un colonnello dei paracadutisti, che un giorno sarebbe diventato ambasciatore degli Stati Uniti a Parigi, si preparava a muoversi alla ricerca del suo reggimento che non aveva ancora ritrovato, dopo averlo perduto fra il cielo e la terra in quella “dannata isola”, come la chiamava il generale Patton. Nell’ufficio comunale di Pachino il tenente Pappalardo leggeva la copia di un manifesto tratta da un pacco che nessuno aveva pensato di affiggere nei giorni precedenti: «State sicuri, siciliani! Noi militari italiani e tedeschi penseremo a difendervi». Era firmato dal generale Mario Roatta e Pappalardo non sapeva il dramma che quella frase aveva provocato. Di quelle infelici parole aveva parlato anche Finocchiaro Aprile ad Aldisio per convincerlo che erano gli stessi italiani a considerare i siciliani degli estranei.
Era la prima notte dell’invasione e a quell’ora molti paracadute di seta bianca, delle migliala che ne erano scesi nelle ultime 24 ore, erano già stati venduti e rivenduti. Valevano dalle 200 alle mille lire, secondo le zone.