Valeria Palumbo, L’Europeo 13/6/2013, 13 giugno 2013
NON CE LA SIAMO RACCONTATA
[Paolo Colombo]
«Premetto che mi porto nel Dna una certa difficoltà a ragionare in termini di cesure»: chiarisce subito Paolo Colombo, che insegna Storia delle istituzioni politiche e Storia contemporanea all’Università cattolica di Milano, è autore di molti saggi ed è anche uno dei rari docenti italiani a "essere sceso in palcoscenico". Ovvero ha fatto della divulgazione storica una sorta di missione. Per questo, da anni, organizza, con Chiara Continisio, il ciclo Storia & Narrazione (prossima tappa il 13 giugno alla Società umanitaria di Milano con Through the Barricades. Fuori dagli anni di piombo, dentro agli anni Ottanta).
Detto questo, che tipo di cesura ha rappresentato e che tipo di ferite ci portiamo dietro dal Ventennio? La radice dell’Italia attuale è nella lotta al nazifascismo o è più antica?
È difficile affermare che il 1946 segni un taglio netto con il passato. La cesura c’è formalmente, inevitabile. Ma in realtà proprio le nostre istituzioni hanno fortissime linee di continuità con il sistema liberale, monarchico e pre-fascista. Ce ne siamo accorti in questo periodo: il ruolo politico del capo dello Stato non deriva solo dai dettami costituzionali, ma è legato all’eredità monarchica. Dunque, passando alla repubblica si cambia, ma persistono, con il regime monarchico, linee di continuità forti. Al tempo stesso ci siamo tirati dietro gli effetti della reazione al fascismo: nutriamo una forte diffidenza verso l’esecutivo. Il che ci regala un sistema non troppo equilibrato. L’esecutivo forte, sia pure nel senso positivo del termine, continua a farci paura.
Non è paradossale che i nostri due primi presidenti della Repubblica, Enrico De Nicola e Luigi Einaudi, siano stati monarchici, ma entrambi si siano vantati di essere "solo" i notai della Costituzione? Solo più tardi, da Giovanni Gronchi in poi, quando il re era un ricordo, il ruolo del presidente si è rafforzato.
Discorso complicato. Ma è un paradosso solo apparente. La qualità politica e umana dei personaggi in gioco contava. O almeno contava il loro senso dello Stato. Che, appunto, si radicava a prima della repubblica. Enrico De Nicola e Luigi Einaudi erano legati alla contingenza: in quel momento era inevitabilmente forte la tendenza a fare i garanti della Costituzione nascente. Ma il tema del re costituzionale, poi distorto, restava comunque vivo: Vittorio Emanuele III continuò a rivendicare questo ruolo, benché, visto a posteriori, fosse improponibile. De Nicola non era indenne da questa tradizione. Per decenni abbiamo continuato a dire che la monarchia non era operativa. Invece il nostro presidente ha ereditato esattamente alcune prerogative del re: ha poteri rilevanti. E comunque non c’è stata una crescita continua del potere dei presidenti: ognuno ha interpretato il ruolo a modo suo. Resta che, nel proclamare la repubblica, abbiamo rafforzato il processo di creazione di un sistema parlamentare, nato 150 anni fa, al cui centro o al cui vertice c’è un capo dello Stato. Altro che moral suasion di Giorgio Napolitano: riaccettando la presidenza ha detto qualcosa che assomiglia al Proclama di Moncalieri di Vittorio Emanuele II (20 novembre 1849). In sintesi: «Se le cose non vanno avanti come dico io, non sarà mia responsabilità ciò che succede e io ne trarrò le conseguenze». Ovviamente Napolitano e Vittorio Emanuele avevano in mente cose diverse, ma la dinamica è quella.
Questo però svaluta quasi del tutto l’esperienza fascista. Aveva ragione allora Einaudi quando scriveva "Heri dicebamus», riprendendo la sua collaborazione con il Corriere della Sera e bollando il regime fascista come una parentesi irrilevante.
Per alcuni aspetti sì. L’immagine della "parentesi" è stata molto usata. Io ritengo che l’interruzione fascista non sia stata così netta, ci sono linee di continuità carsiche. E non solo: quando cadde il fascismo, l’ordine del giorno Grandi, del 24 luglio 1943, si appellava all’articolo 5 dello Statuto albertino per spingere il re ad assumere «quella suprema iniziativa di decisione che le nostre istituzioni a Lui attribuiscono», soprattutto come capo militare.
Vuol dire che il fascismo non ha inciso sul piano istituzionale?
Ma certo! Ci mancherebbe. La continuità formale con la repubblica non c’è, ma ciò che è più rilevante è la reazione agli apparati fascisti, che dura ancora oggi. Pensa solo alla nostra fatica a costruire mitologie collettive: è quello di cui abbiamo parlato nel reading su John Kennedy e la Nuova frontiera (reading teatrale organizzato da L’Europeo nel 2012 con Paolo Colombo e gli Shut up, ndr). Pensa a come sia difficile per noi, a differenza degli americani, usare "alte parole" e richiamarci a miti collettivi. O pensa alla nostra fatica nel sentirci italiani...
E questo costituisce una differenza con la Francia...
Certo. La reattività a tutto ciò che ci suona fascista si esprime anche nella fatica che facciamo noi "divulgatori" ad andare in giro a raccontare "storie di storie": agli italiani non si possono narrare miti. Non solo per colpa fascista, certo. Ma soprattutto per colpa della retorica del Ventennio. I francesi hanno anche salvato alcune dinamiche istituzionali: nel 1968 Charles de Gaulle ha reagito ai manifestanti come noi non avremmo mai potuto fare. Il portato fascista di repressione non era però nel Dna della monarchia liberale, qualsiasi cosa si pensi di quella monarchia. Per questo: altro che parentesi, il Ventennio! Della storia del fascismo come parentesi si è fatto tutto un fascio, tanto per giocare con le parole: ma una cosa è tracciare le continuità istituzionali, un’altra è non riconoscere la peculiarità dell’esperimento mussoliniano.
Non ho capito…
Se si pensa che dal 1922 al 1943 c’è stata solo una sospensione dello Statuto e che dall’8 settembre sia ripreso tutto come prima si ha una visione semplificata. Sono stati 20 anni di repressione.
Mi sembra però che così si insista sulla circostanza che ci tiriamo dietro una "reazione perpetua" al fascismo, più che sul fatto che abbiamo ancora il codice penale Rocco, del 1930. Oppure che abbiamo ereditato il sistema delle partecipazioni statali dalle riforme degli anni Trenta.
Vero: Iri, Imi e compagnia bella, fino alle privatizzazioni. Era questo che dicevo: arriva la repubblica ed entra in vigore una Costituzione che certo fascista non è, ma resta vivo per decenni un apparato normativo e amministrativo vecchio. Anzi, qualcosa ce lo portiamo ancora dietro. Ma secondo me non è questo il punto, anche perché, per quanto faticoso, il processo di modernizzazione c’è stato e c’è. La continuità mi sembra più marcata proprio nella reazione: vero, il peso dello Stato nell’economia ci deriva dal fascismo, ma quanto deriva dal rifiuto di quel sistema la nostra incapacità di difendere un bene perché pubblico? E la nostra difficoltà a investire nel pubblico? Negli anni del boom non siamo nemmeno riusciti a fare vera pianificazione...
Siamo cioè diventati allergici allo Stato?
Sì. Stando attenti a non dare tutte le colpe al fascismo: siamo refrattari al pubblico di natura, senza scadere nei luoghi comuni. E soprattutto siamo allergici alla retorica. Lo vedo in aula: appena gli studenti avvertono in te qualcosa di retorico, sei finito. Hanno dentro un senso della parodia del pubblico, direi.
Eppure con la festa del 25 aprile si è tentato di costruire una "retorica nazionale" antifascista. La festa ha ritrovato vigore.
Vorrei rovesciare la domanda. Siamo davvero sicuri che il 25 aprile abbia attecchito come festa antifascista? Secondo me non siamo riusciti a creare una mitologia della Resistenza e della Seconda guerra mondiale. Siamo colpevoli in questo.
Pero se perfino le Brigate rosse si rifacevano a una Resistenza mai finita... questo non è un fiume carsico?
Be’, più che carsico, contiguo: i primi gesti di "teppismo politico" sono degli anni Sessanta, la guerra e la Resistenza erano recenti. Però io non riesco a vedere la mitologia della Resistenza come fondante nel nostro essere italiani oggi. E mi dispiace dirlo. Dopodiché il 25 aprile ha guadagnato negli ultimi tempi. Vent’anni fa non era così. Mi ha colpito che quest’anno molti auguravano, anche in occasioni ufficiali: «Buon 25 aprile!». Non ricordo che succedesse negli anni Ottanta e Novanta. Si è lavorato a un senso di "italianità", ultimamente, e il 25 aprile ne fa parte.
Però ai ragazzi...
Però ai ragazzi non si accelera il polso parlando di Resistenza. E qui torna il problema della difficoltà nel costruire mitologie e narrazioni. Non sappiamo raccontarla quella storia, renderla epica. La forza dei miti si rivela nella durata: se la Resistenza diceva qualcosa soltanto alla generazione che ne era uscita, non siamo stati capaci di farla diventare mito. Io ho in testa il mito dei Mondiali di calcio del 1982: ma lo racconto ai ragazzi e per loro, al massimo, hanno senso quelli del 2006. A meno che io non sia in grado di raccontarglielo bene: e torniamo al punto di prima.
Perché abbiamo bisogno di miti per stare insieme? Perché serve ancora una narrazione comune? La democrazia non dovrebbe essere la tomba della narrazione comune?
Io credo il contrario. Avverto che sto giocando con i luoghi comuni, ma se riteniamo che la democrazia sia il sistema della massima comunicazione, ci dovrebbe essere il massimo sforzo, la "massima narrazione". In particolare per la Seconda guerra mondiale e il fascismo abbiamo perso un’occasione clamorosa.
Ovvero?
Non siamo stati capaci di raccontare la povertà che abbiamo vissuto durante la guerra. Ovvio che non possiamo raccontare quella guerra in toni epici e guerrieri. Anche se mi chiedo perché sia svaporata così in fretta l’epica della ritirata di Russia: Omero ne avrebbe fatto una storia grandissima. Noi leggevamo Il sergente nella neve di Mario Rigoni Stern negli anni Sessanta e poi... nulla. Certo rendere mitiche le sconfitte è sempre complesso. Però io credo che la democrazia potrebbe usare toni epici perché gli italiani spesso dimenticano che, dal dopoguerra, vivono un tempo fantastico. Il che non vuol dire che vada tutto bene.
È ciò che mi capita con le donne. Quando sento dire "stiamo andando indietro", intuisco che non si conosce la storia.
Assolutamente. Dovremmo appunto raccontare com’eravamo durante la Seconda guerra mondiale. Semplicemente per avere il senso di che cosa è successo e che cosa sta succedendo. Due generazioni fa eravamo una massa di poveri cristi. La guerra ha visto orrori di ogni genere, degrado, violenza, repressione. Se non lo raccontiamo, i ventenni di oggi, per quanto vivano in un periodo critico, non possono rendersi conto della differenza. E rendersi conto, per esempio, di che cosa significa vivere in libertà.
Raccontare è un modo per salvaguardare la democrazia...
In qualche modo sì. E anche di costruire degli antidoti contro certe degenerazioni. Molto semplicemente: democrazia, libertà e benessere sono tre valori grandiosi da raccontare. Che si realizzano, da noi, in un tempo brevissimo. E anche questa è una storia bellissima: una generazione è passata dalla miseria alla ricchezza. In fondo, noi siamo ancora cresciuti con gli ammonimenti tipo: «Dici così perché non hai visto la guerra, non hai fatto la fame, ma vai a lavorare in miniera», e così via. Se sapessimo raccontarla, quella miseria, rafforzeremmo i nostri valori fondanti.
Però ancora mi chiedo: perché abbiamo bisogno dei miti?
Perché no? In fondo la nostra generazione si racconta ancora a cena gli spot di Carosello... O, come dice Diego Abatantuono in Marrakech Express: «Noi siamo gli ultimi dei mohicani, l’ultima generazione ad avere i ricordi in bianco e nero». Possiamo passare ore a ricordare i primi sceneggiati televisivi, e se abbiamo mitizzato pure quelli... E comunque, di nuovo: che cambiamenti per le donne! Perché non raccontarlo in maniera epica?
Allora il danno maggiore del fascismo è "narrativo"?
Ci ha ubriacati. A loro modo i fascisti avevano chiarissimo il problema ed erano bravissimi. La gente, perché negarlo?, faceva con entusiasmo il saluto con il braccio teso. Io tengo una lezione all’Università in cui dico ai ragazzi: «Vogliamo ammettere con onestà che i totalitarismi ci sono sembrati belli?».
Ne parla appunto un saggio, Il male dentro, di Thomas Kühne (Edizioni dell’Altana), che spiega come l’ideologia nazista "lavorò" la psiche tedesca, creando un senso inedito di appartenenza, di solidarietà, un entusiasmo collettivo per un "noi" inventato che rendeva nemico il resto del mondo. Ovvero Kühne identifica le cause "positive" dell’adesione ai regimi totalitari.
Certo, e qui torniamo alle contingenze. Dopo la guerra abbiamo dovuto giustamente raccontare che il fascismo era una "cosa brutta". Solo che non l’abbiamo fatto benissimo, l’abbiamo fatto in maniera noiosa. Nessuno ha osato dire: attenti, che la dittatura sembra bella. Gli antidoti funzionano un po’ come con la droga. A un ragazzo devi dire: quella sostanza non devi prenderla, ma è uno sballo. Se continui a dire che è brutta, quando la prova ti dà del bugiardo. Qui vale lo stesso: solo che il prezzo dell’adesione a un totalitarismo sono le guerre mondiali e gli Olocausti. Pensiamoci: da qualche tempo si è ricominciato a narrare della Costituzione, della bandiera, della storia d’Italia... ma sono racconti troppo espliciti e didattici, il mito non funziona così. Non possiamo ripetere mille volte che la Costituzione è bellissima: dobbiamo farlo "passare".
Esiste una via moderna alla costruzione di un mito nazionale?
Sono convinto di sì. Il che non significa che io sappia esattamente come funziona. Certo dipende da che cosa e come si racconta. E, certo, ha rischi altissimi: quasi nessuno ha voluto prenderli dopo il fascismo. Nessuno se la sente di dire: adesso vi dico io in che cosa dovete credere.
Però, appunto, si poteva inventare una grande epopea dei vinti... in fondo è quello che ha fatto Omero…
Giusto. Da questo punto di vista, sono stati bravi gli ebrei: la Shoah è stata ben raccontata. Noi abbiamo provato a farlo con il mito degli "italiani brava gente", ma è risultato debole, per quanto sia ovvio che tutti i miti sono soltanto in parte storici: vanno costruiti sui lati positivi di una realtà storica. Inutile illudersi che si poggino su una narrazione oggettiva e scientifica. Credo che sulla sconfitta potevamo costruire un’ottima narrazione nazionale: perché appunto, bastava riconoscere che non avevamo i valori giusti per vincere. I valori giusti sono quelli venuti dopo.
E adesso come si recupera?
Il modo c’è: per esempio, come dicevo, ricordando la nostra povertà. Questo serve anche per affrontare le crisi, non soltanto l’attuale. Se ricordiamo ai giovani che siamo sopravvissuti perfino al 1943... diciamo loro che possiamo sopravvivere a tutto.
Così, raccontando com’eravamo, ricostruiamo la speranza?
Sì, e possiamo anche rendere evidente quale privilegio sia vivere in un così lungo periodo di pace, sia pure parziale, di democrazia e di libertà. Sto preparando una lezione sul piacere di entrare in una libreria e trovare tutto. Santo cielo: vivo in un Paese dove non bruciano i libri! Lo trovo fantastico. Così come trovo un’immensa fortuna essere uomo in un Paese di donne che sono finalmente libere: di viaggiare, muoversi, studiare e così via...
Insomma, possiamo raccontarci le nostre passate sventure...
Direi piuttosto che possiamo paradossalmente costruire una narrazione positiva dei nostri lati negativi: noi non abbiamo senso di identità, non crediamo a niente, noi tendiamo allo sberleffo. E se non fosse un male? Forse tra 200 anni potremmo essere l’unico popolo salvo da un’ubriacatura nazionalista.
Però questo non spiega come mai una ventina d’anni fa molte persone, in Nord Italia, si siano fatte abbindolare da storie di ampolle d’acqua del Po e finte corna celtiche... Ovvero, a livello popolare non sembra che ci voglia molto a far "nascere miti".
Vero. Però poi abbiamo visto i leghisti inseguire con i forconi il figlio di Umberto Bossi? No: i "duri e puri" non esistevano e all’acqua del Po non credeva nessuno. Però, di nuovo, la mia era una provocazione: e se tra 200 anni i nostri non-valori si rivelassero grandi valori e noi non li avessimo riconosciuti? Sarà un problema non essere mai stati "nazione"? Duecento anni fa gran parte delle nazioni non esistevano. Esisteranno tra altri 200? Immaginiamo che cosa sarebbe successo a un popolo che, negli anni Venti o Trenta, fosse stato indenne dal razzismo: sarebbe passato da stravagante a geniale in pochi anni. Perché non siamo riusciti a costruire un’idea positiva del nostro sentimento libertario?
Vorrei tornare alle guerre: partecipando per anni al Festival della storia di Gorizia, ho notato che le persone si accapigliano ancora, in Friuli, per la Prima guerra mondiale, battagliano un po’ sulla Seconda, che pure ha lasciato, proprio a Gorizia, un muro simile a quello di Berlino. E raccontano con indifferenza, quando pure le raccontano, di quelle balcaniche, che hanno visto dal Castello e che anche i trentenni ricordano bene. Che cosa serve dunque a una guerra per restare nella memoria? La Seconda, che ha colpito le popolazioni civili ben più della Prima, è sopravvissuta nella nostra memoria?
La Prima ha rotto culture e ambiti linguistici ben consolidati: forse per questo l’impatto dura. Però resto dell’idea che dipende sempre dal come e che cosa si testimonia. Quelle contemporanee sembrano guerre non vissute o almeno non combattute: i bombardamenti hanno avuto un peso crescente. In più, in Italia, pure nel più sperduto paesino, c’è un monumento ai caduti della Prima guerra mondiale. I caduti della Seconda o i partigiani, quando va bene, hanno la targa aggiunta sotto al monumento. In un tempo in cui i monumenti parlavano, nel Primo dopoguerra, il racconto c’è stato. Il Secondo conflitto, invece, non è stato narrato. Le targhe dei partigiani sono anonime: non le vedono neanche gli inquilini degli stessi palazzi. E comunque la Prima è stata vinta. La Seconda non è stata né vinta né persa, ma chissà... la solita acrobazia italiana. In ogni caso, ci siamo detti che era meglio non parlarne. Ci hanno provato solo i sopravvissuti.
Paradossalmente, nonostante tutte le loro rimozioni, i tedeschi sono stati talmente sconfitti che se la sono dovuta raccontare per forza... Adesso il serial tv Unsere Mütter, unsere Väter ha suscitato un vero dibattito nazionale. Va detto che fino al 1968 i tedeschi non hanno voluto parlare del nazismo: c’era il trauma della divisione della Germania. Anche per questo il loro 1968 è stato così violento: hanno chiesto ragione ai padri che avevano già rimosso il nazismo e non ne volevano più parlare.
Vero: esiste una psicanalisi della storia, esistono veri processi di rimozione. A noi è risuccesso di recente con il terrorismo. Paradossalmente visto che le Brigate rosse dicevano di rifarsi alla Resistenza, abbiamo così finito con il seppellire anche quella.