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 2013  giugno 21 Venerdì calendario

LO CHOC DELL’IGNOTO, SEGRETO ADELPHI

Il festeggiamento dei cinquanta anni della Adelphi, e la recente pubblicazione dell’«Impronta dell’editore», suscitano alcune riflessioni che partono dalla storia di una casa editrice ancora giovanissima, eppure, nell’immaginario collettivo, di antica tradizione, come se avesse una molto più lunga storia alle spalle.
Il racconto che lei svolge nel primo capitolo è particolarmente avventuroso. Partiamo da qualche coordinata storico-geografica, soprattutto per i più giovani.
Alla metà degli anni Sessanta, quando nasce la Adelphi, l’editoria di alta qualità si confronta con la cultura laica, cattolica e marxista. La Adelphi entra come un corpo estraneo, che rimane tale, per recuperare «una vasta parte dell’essenziale» lasciata fuori dalle tre culture, anche in senso geografico. E quindi Mitteleuropa, culture orientali, una certa letteratura anglosassone, Simenon, scoperte e riscoperte, dentro e fuori Europa, eccetera. E per la letteratura italiana, la riscoperta di autori fuori dal canone eppure accomunati proprio da affinità «di catalogo», da Savinio a Manganelli, dalla Ortese alla Campo a Morselli, e Gadda. Ora che i confini fra le tre culture sono meno riconoscibili, qual è la «parte dell’essenziale» che la Adelphi può ancora contribuire a recuperare?


La descrizione delle «coordinate storico-geografiche» entro cui è nata ed è cresciuta Adelphi mi sembra molto precisa e molto utile. E, appunto per questo, mi dà l’occasione per dire qualcosa che è stato ed è tuttora il presupposto della casa editrice. Mi è capitata sott’occhio una mia intervista del 1978 a «Lotta Continua» (significativa la data e la testata) dove dicevo, a proposito del programma di Adelphi: «Vorrei innanzitutto evitare di rispondere in termini di «filoni», «aperture», «linee di tendenza», «politica culturale». Non posso che confermare: non abbiamo mai ragionato in termini di filoni, aree, percorsi, come molti invece amano fare. Cercavamo innanzitutto una certa qualità (sapendo che è la parola più indefinibile — e non a caso oggi le neuroscienze ci stanno battendo la testa) e in particolare un certo dono di metamorfosi del lettore che alcuni libri possiedono. Che poi quei libri provenissero da un luogo remoto o da sotto casa, da tremila anni fa o dall’altro ieri, ci sembrava del tutto indifferente.
La scommessa era che, se quei libri avevano agito su di noi, potessero agire anche su altri ignoti, se possibile numerosi. Queste due regole, che erano il nostro sottinteso all’inizio, rimangono identiche oggi. Nel frattempo, però, è ovviamente cambiata in modo considerevole la scena del mondo. Nel 1963 si trattava di scoprire e riscoprire non solo quello che era stata la Mitteleuropa ma il grande Novecento in genere (di cui oggi si può dire che si concluse proprio con gli anni Cinquanta). Perciò non si trattava solo di Hofmannsthal o di Kraus o di Loos, ma di Artaud o di Daumal o di Jarry o di W.C. Williams o di Yeats — o anche, fuori dell’ambito letterario, non solo di Nietzsche ma di Guénon o Granet o Simone Weil. Quanto all’Oriente, era più o meno terra incognita, per ragioni dovute a una certa angustia che ha origine nella cultura italiana dell’Ottocento, cioè dell’epoca in cui la grande orientalistica era fiorita in Germania, in Francia e in Inghilterra — e non fiorì da noi.
Quanto agli autori italiani, la prima responsabilità che sentivamo era verso la lingua italiana. Gli scrittori sono venuti a poco a poco, da Solmi a Manganelli, da Morselli a Satta, dalla Campo alla Ortese, da Landolfi a Flaiano, da Sciascia a Malaparte, da Savinio a Gadda. Se considerati oggi come una costellazione, credo si possa dire senza timori che sono una «vasta parte dell’essenziale» all’interno della letteratura italiana fra il Novecento e oggi. Ma capisco che la domanda batte sull’oggi. Premetto subito che il nostro intento non è mai quello di «recuperare» (verbo dalle connotazioni funeree), ma di scoprire o di mostrare ciò che altrimenti non si sarebbe visto (e quel mostrare si sovrappone in gran parte allo scoprire). Premetto anche che questo ormai deve avvenire in anni che mi è capitato di chiamare «l’età dell’inconsistenza». Per intendersi rapidamente, basterà fare un confronto fra ciò che è avvenuto negli anni 1900-1913 e quanto abbiamo visto negli anni 2000-2013. Confronto devastante, a nostro sfavore, in tutti gli ambiti, dalla letteratura all’arte, dal pensiero alla musica. Con la sola possibile eccezione della scienza, dove però alcune delle scoperte più sconcertanti sono ancora sub iudice — e potrebbero anche rivelarsi fuochi di paglia.
In questa situazione, applicare i due criteri che all’inizio ho presentato e che sono rimasti intatti, diventa indubbiamente più arduo. Ma c’è anche un terzo criterio che abbiamo sempre applicato e oggi potrebbe diventare ancora più importante: lo spostamento della soglia del pubblicabile. Ci sono tuttora immensi tesori di testi che rimangono pressoché inaccessibili al semplice lettore intelligente perché sepolti in pubblicazioni accademiche o marginali o comunque escluse da ciò che la grande editoria ritiene fit to print. Anche solo se guardo al portafoglio dei titoli di Adelphi da pubblicare o di quelli che vorremmo varare, fa una certa impressione constatare quanti sono in attesa o, come si direbbe in gergo bancario, in sofferenza. Perciò, anche se le pure novità dovessero rivelarsi deludenti, rimarrebbe una imponente quantità di titoli che sarebbe bello pubblicare — e talvolta inventare.
Un’ultima chiosa: ci sono titoli di autori classici, antichi e moderni, che esistono soprattutto come flatus vocis, senza che i veri lettori li abbiano letti. E spesso si tratta di autori ipernoti, che stanno sotto gli occhi di tutti. Un esempio recente, per noi, è lo stupefacente romanzo di Conrad, Chance, che abbiamo appena pubblicato in una traduzione finalmente adeguata, ma esattamente come se fosse il romanzo di un esordiente, senza prefazione o postfazione o note. Contando perciò sul fatto che l’ignoto lettore curioso lo apra e si renda conto di che cosa sta leggendo.


La cura editoriale dei libri Adelphi è un’impronta, un segno che ha sempre caratterizzato il lavoro editoriale — plurimi «giri di bozze», letture interne ed esterne, controllo delle citazioni, verifica della coerenza interna dei testi — e che persiste, nonostante la sciatteria dominante non solo nell’editoria low cost, nell’editoria self publishing, o nell’editoria a pagamento. È stato notato — in particolare da Mariarosa Bricchi, editor di Bruno Mondadori, su «Alias» del 14 aprile — che è possibile rilevare una sorta di contraddizione tra una certa sprezzatura dell’Adelphi «fondata fin dagli inizi sulla scelta ardita, e discussa, di ostendere i libri liberi, entro certi limiti, da mediazioni interpretative e persino da inquadramenti storici» (Bricchi) e la curatela filologica che contraddistingue invece molte imprese editoriale messe a telaio nell’officina Adelphi.


Vorrei rassicurare (o ulteriormente inquietare) Mariarosa Bricchi sulla questione che solleva. Fin dall’inizio abbiamo scelto di pubblicare sia «libri liberi, entro certi limiti, da mediazioni interpretative e persino da inquadramenti storici», sia libri contraddistinti da un’alta «curatela filologica». E questo non per inclinazione al paradosso o incuranza delle contraddizioni, ma perché pensiamo che così sia giusto fare. Il compito peculiare dell’editore è quello di aiutare, per quanto può, a capire un libro.
Così ci sono libri che esigono una edizione con apparati filologici e critici, ma ci sono anche altri libri che altrettanto fortemente esigono di essere letti così come sono. Ogni aggiunta, in quei casi, sarebbe disturbante. Il buon editore si distingue allora non solo perché ha scelto quel libro, ma perché ha scelto il modo di trattarlo. In Adelphi abbiamo spesso scelto la via del minimo, accostando ai testi solo una copertina e il risvolto. Ma in molti casi abbiamo scelto anche l’ardua via filologica (il Milione curato da Giorgio R. Cardona, la Hypnerotomachia Poliphili di Marco Ariani e Mino Gabriele, i Commentari di Enea Silvio Piccolomini, curati da Luigi Totaro, o le Note Azzurre di Dossi, curate da Dante Isella). Ogni libro è una singolarità — e richiede di essere trattato con accorgimenti appositi. Do subito un esempio: l’edizione Colli-Montinari di Nietzsche non solo è la prima edizione critica dell’autore, ma propone circa tremila pagine sino allora totalmente inedite. Pubblicare Nietzsche in quel modo non solo era d’obbligo, ma aveva un’importanza capitale per la comprensione dell’autore. E questo ebbe risultati sconvolgenti, come poi si è visto.
All’estremo opposto citerei, si licet, il primo libro che ho curato per Adelphi: Il racconto del pellegrino di Sant’Ignazio di Loyola. Lo tradussi e introdussi con una brevissima prefazione, tutta fattuale, e accompagnando il testo con un minimo di note.
Perché questa scelta? Ogni testo di sant’Ignazio si presta a smisurati commenti — e di fatto li ha provocati nel corso del tempo. Non avremmo forse dovuto accodarci anche noi, offrendo un commento se possibile più lungo del testo? Abbiamo fatto il contrario perché volevamo esporre il lettore al benefico choc dell’ignoto, che i testi danno soltanto se si offrono nel loro stato di natura. E questo perché l’autobiografia di Ignazio ci interessava non certo come documento storico-culturale, ma come testimonianza ancora oggi bruciante di qualcosa che era avvenuto in quel molto singolare uomo che fu sant’Ignazio. Era perciò un perfetto esempio di libro unico nel senso bazleniano. Ogni «inquadramento storico» (categoria prediletta dall’editoria italiana, tuttora morbosamente storicista) sarebbe servito soltanto a ottundere la percezione immediata da parte del lettore, a impedire quello choc dell’ignoto che spesso è la parte più fascinosa e corroborante di una lettura. Dopodiché, ovviamente, il lettore intelligente saprà provvedere da solo a ricostruire ogni sorta di inquadramenti storici connessi al libro.

In un’intervista lei ha raccontato, citando Hofmannsthal, un aneddoto secondo cui, durante la rivolta dei Boxer, di fronte a una fila di cinesi che ordinatamente aspettavano di essere decapitati, l’unico cinese che attendeva pazientemente il suo turno leggendo un libro attrae l’attenzione di un ufficiale che assiste all’esecuzione. Così l’ufficiale chiede al condannato: «Perché lei legge in un momento simile?». La risposta è semplice: «Ogni riga letta è di profitto». Il cinese ottiene la grazia. Il suo commento all’ufficiale è essenziale: «Il suo gesto le sarà di grande profitto». Pensa che questo gesto possa ancora dirsi tale?

La storia raccontata da Hofmannsthal vale oggi come ieri e varrà sempre. Ma non vorrei che fosse interpretata nel senso della bigotteria attuale, quale si può constatare nelle risibili campagne pubblicitarie per la promozione della lettura o altre iniziative del genere. Sarebbe funesto pensare che la lettura sia qualcosa di buono in sé. Pochi libri hanno avuto tanti zelanti lettori come Mein Kampf. Il migliore argomento che conosco in difesa della lettura in quanto tale è un’osservazione di Robert Walser: «Chi legge, nel momento in cui legge, non fa danno».
Roberto Calasso

Il dialogo che pubblichiamo è tratto dal «Foro della rivista "Ecdotica"» che si è tenuto di recente a Bologna presso la Biblioteca dell’Archiginnasio. Le domande sono state rivolte a Roberto Calasso da Paola Italia