Lauretta Colonnelli, Corriere della Sera 01/06/2013, 1 giugno 2013
«L’ARTE E’ UNA FAMIGLIA CRESCIUTA CON ME»
Nello scantinato del palazzo dove oggi Ovidio Jacorossi occupa tutto il piano attico, suo nonno Agostino, contadino sceso dalle montagne reatine di Leonessa, nel 1922 aveva cominciato ad accumulare legna e carbone per riscaldare gli appartamenti dei romani. Agostino ebbe undici figli. Uno solo, Daniele, aveva studiato. In seminario. E fu chiamato ad occuparsi dell’azienda di famiglia. Ovidio la ereditò nel 1950. Tre anni dopo acquistò il suo primo appartamentino, all’ultimo piano, 80 metri quadrati ai quali aggiunse man mano le abitazioni adiacenti.Dall’attico di Ovidio provengono le tre opere di Tano Festa, scelte fuori concorso dalla Santa Sede per inaugurare l’apertura del suo primo padiglione alla Biennale d’arte veneziana appena inaugurata. Scelta clamorosa, che ha sorpreso quanti conoscono la storia di trasgressioni di Festa, protagonista, con il fratello Francesco Lo Savio, a Franco Angeli e a Mario Schifano, della Scuola di piazza del Popolo. Artisti che trasformarono in icone pop i simboli della storia di Roma. Angeli adottò la Lupa, Festa il Michelangelo della Sistina. «Per me che sono cattolico, apostolico, romano, e sono nato a un tiro di schioppo dal Vaticano, pop è la Cappella Sistina», diceva. Si ispirò ai dettagli degli affreschi della Genesi, riprodotti sulle pagine dei «Maestri del colore», della Fabbri, venduti con grande successo in edicola. Da qui nacque la definizione «Maestri del dolore», che il gallerista Plinio De Martiis coniò per il gruppo dei giovani pittori, intuendo forse la svolta tragica dei loro destini.Da Plinio De Martiis, Ovidio comprò nel 1963 i tre dipinti visibili da ieri alla Biennale: la figura di Adamo con la mano protesa verso quella del Creatore, il serpente nella scena del peccato originale, il volto di Adamo. Furono i primi acquisti di una collezione che oggi conta centinaia di pezzi. La maggior parte sono nei caveau. Quelli più amati illuminano le pareti dell’appartamento nel cuore di Roma, che Ovidio abita con la moglie Loredana e che raccoglie la storia di una vita. Qui l’arte contemporanea non è esibita come un fiore all’occhiello dall’industriale che a diciott’anni iniziò, con i fratelli Angelo e Giancarlo, a costruire una delle più grandi aziende dell’energia passando dal carbone al petrolio, che vide evaporare questa azienda a metà degli anni Novanta, che ricominciò daccapo nel campo della riqualificazione ambientale. Le opere sono disseminate ovunque, mescolate quasi affettuosamente alle sedie in stile neogotico che il nonno aveva comprato con i primi risparmi, ai divani bianchi anni Ottanta, ad alcuni bei pezzi Liberty che convivono con la fontana in marmo zampillante in mezzo al salotto, alle grandi vetrate che sfiorano le cupole delle chiese romane. Si cammina sui marmi e sul cotto, sui parquet a listoni di legno recuperato e sui tappeti di varie epoche e provenienze. In un miscuglio che non stride, ma riserva all’ospite lo stupore di scoprire dietro a ogni porta una casa vissuta senza patemi di rappresentanza. Come non disturbano ? accanto alle opere di artisti come Festa e Schifano, Aristide Sartorio e Gino de Dominicis, Emilio Prini e Mario Giacomelli ? i tre alberi dipinti a olio da Loredana sulle pareti che si avvolgono a spirale intorno alla scala di ferro. «Simboleggiano la nostra famiglia, noi due e nostro figlio», spiega Ovidio.Racconta come ha ristrutturato questa casa in cima al palazzo attribuito all’architetto Baldassarre Peruzzi, seguace di Raffaello; e abitato in seguito da Cassiano dal Pozzo, collezionista e protettore di Nicolas Poussin. È nata così la casa-labirinto sovrastata da terrazze su più livelli, con i vasi in ghisa di un secolo fa dove i gabbiani depongono le uova, e il piccolo giardino d’inverno che custodisce una testa scolpita dal bulgaro Assen Peikov, lo stesso che realizzò nel 1969 la statua di Leonardo all’aeroporto di Fiumicino. Al pianterreno, dove possiede altri locali, Ovidio vorrebbe creare una specie di museo per esporre le opere raccolte in mezzo secolo. Tutte contemporanee. «Sono convinto, come lo era Schifano, che sia l’unica arte democratica e popolare. Perché non c’è bisogno di capirla, basta ascoltarla per sentire che è un fortissimo strumento di sollecitazione creativa». Attribuisce a questa arte anche il merito di averlo fatto arrivare alla soglia degli ottant’anni con una grande energia. Aiutato «dalla sobria alimentazione, dall’afflato verso il prossimo e dall’esercizio fisico». Corre ogni giorno sul tapis roulant, osservando sulla parete di fronte le istantanee incorniciate del suocero Giovanni Lalle, meccanico, che assisteva il pilota Piero Taruffi alla guida del suo «bisiluro».
Lauretta Colonnelli