Lauretta Colonnelli, Corriere della Sera 28/05/2013, 28 maggio 2013
GIOCHI DI LUCI E OMBRE DI UN INCISORE POETA
Livio Ceschin, oltre che un grande incisore, è anche poeta. Canta disegnando il gioco di luci e ombre proiettato dai rami degli alberi sulla neve, gli infiniti riflessi dell’acqua, le umili erbe che crescono sul margine di una strada dismessa o lungo i binari della ferrovia. Ricrea, disegnando, una certa integrità del paesaggio trevigiano, che aveva ispirato in passato tanti artisti e che nel dopoguerra è andato via via degradandosi, mangiato dall’avanzare degli insediamenti industriali. Le incisioni di Livio Ceschin hanno dimensioni poco convenzionali: sono orizzontali o verticali, sempre lunghe o strette. «Il taglio - spiega - è uno degli elementi più rilevanti nello studio compositivo dei miei lavori. La forma orizzontale e verticale è in stretto rapporto con lo stato d’animo. La visione orizzontale di una pineta o di una marina manifesta serenità, gioia, fiducia. La verticalità di un torrente montano o di una vallata desta invece maggior dinamismo e tensione, come trovarsi sospesi sulle punte dei piedi».Una sessantina di lavori dell’artista, nato a Pieve di Soligo nel 1962, si possono ora vedere nella mostra «Livio Ceschin. Il gioco serio dell’incisione», aperta fino al 30 giugno presso il Museo didattico dell’Istituto nazionale per la Grafica (via della Stamperia 6, catalogo Skira). L’artista ha cominciato nel 1991, riproducendo opere di Rembrandt, Tiepolo, Canaletto e ispirandosi a quelle di maestri più recenti, come Giovanni Barbisan, che nella sua giovinezza, agli inizi degli anni Cinquanta, ebbe la fortuna di dipingere paesaggi campestri senza spostarsi dalla soglia di casa sua, alla periferia di Treviso. Ceschin vive in collina, ai margini di un piccolo territorio di proprietà dei Collalto, che l’antica famiglia ha preservato dalla speculazione. Gli basta fare pochi passi per trovare angoli intatti di natura. È lì che sceglie i suoi soggetti: «Camminando per i boschi o percorrendo remote stradine di campagna, mi capita talvolta di sentirmi smarrito. Allora mi fermo, prendo la matita e raffiguro in un foglio bianco l’elemento che mi ha così impressionato». Una folgorazione romantica che rielabora poi nell’atelier, cercando l’inquadratura e trasponendo il disegno su carta velina e infine sulla lastra. Spesso ritorna sul luogo, in diverse ore del giorno, per fotografare l’ambientazione prescelta e coglierne la luce migliore. La fotografia gli serve anche per la precisione dei dettagli, che riporta nelle sue incisioni elaborandoli e combinandoli talvolta tra loro in modo da adattarli alle proprie esigenze espressive. Così, come per miracolo, riesce a ricreare il paesaggio perduto.
Lauretta Colonnelli