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 2013  giugno 13 Giovedì calendario

SCORDATEVI DI ELIMINARE SILVIO


La politica italiana senza Silvio Berlusconi è inimmaginabile, anche solo mentalmente, come schema astratto. Berlusconi per paradosso è diventato l’alfa e l’omega della politica italiana. È il suo alfabeto. Non c’è trippa per altri gatti, non c’è spazio per alcuno.
Gli avversari sul campo, diversamente dalle lobby editoriali e giudiziarie che giocano fuori del perimetro della sovranità democratica e delle decisioni popolari, si dividono in due categorie: quelli che il Cav. ha battuto, quelli che aspettano di batterlo o farsi battere, praticamente il solo Matteo Renzi, che però sembra già meno giovane del suo competitor, meno espansivo, più convenzionalmente legato alle tristi vicende interne di un partito-apparato in crisi, diviso, quasi paralizzato da logiche di corrente. Enrico Letta è persona seria e capace, ma è uno che si fida di dire che «ci vuole più Europa, non meno Europa», una formula che sa di stantio e che non sarà mai capita finché il governo di grande coalizione non sostituirà l’attuale di piccola coalizione e non riuscirà a farsi sentire a Berlino e a Francoforte.
La seconda parabola di questo singolare imprenditore, politico e uomo di stato (uso un linguaggio da lemma della Garzantina per definire chi è insieme politico e azionista-editore di questo giornale) è cominciata quando la prima parabola aveva toccato il punto più basso. Una rotta, una ritirata disordinata e senza prospettiva, una sconfitta personale, politica e di governo, nel pieno di una tempesta della finanza e dell’opinione pubblica antipolitica, poi una lunga attesa all’ombra di Mario Monti e infine un nevrotico rincorrere le più diverse ipotesi, come ricorderete dalle vicende dell’autunno scorso in fase preelettorale, dallo spacchettamento ad altre soluzioni di marketing compresa la lista animalista.
Una bussola impazzita, una totale assenza di prospettiva. Perfino in un partito personale che tutto gli doveva si era fatta largo un’ipotesi di superamento, non già del berlusconismo classico, che è ormai un problema vero anche di Berlusconi, ma di lui stesso come leader. Molti, quorum ego, pensavano che un secondo ciclo fosse inimmaginabile se fondato sulla sola autorità del capo, sulla sua capacità di risorgere prima nel consenso degli italiani e poi nella politica nazionale.

È andata altrimenti. In parecchi ci siamo sbagliati. E il punto dolente dell’errore è sempre lo stesso: un’idea razionale della politica, dunque alla fine un’idea troppo povera per un Paese fantasioso e pazzo come questo, per una personalità che ha lo sconcertante potere di perseguire obiettivi di cui una tradizionale e classica visione della politica non arriva ad afferrare il senso.
Fatto sta che Berlusconi è risorto doppiamente. È vero che ha perso 6 milioni di voti, mentre il suo avversario ne perdeva 3, e c’è proporzione rispetto al grande risultato del Pdl nelle elezioni del 2008, l’immediato precedente del risultato dello scorso febbraio 2013. Beppe Grillo, antipolitico e comico, ha fatto la sua parte convogliando verso il nulla di una protesta cieca molti elettori di destra e molti elettori di sinistra. Ma il Cav. ha fatto pari e patta con il Pd, e i 9 milioni alla sua coalizione, i 7 al suo partito, si sono rivelati prova di una resistenza, anche nelle condizioni più difficili, assolutamente straordinaria. E questo per ammissione universale.
Consenso a parte, e non è un particolare secondario, Berlusconi ha giocato da re la partita a scacchi postelettorale, e ha determinato o codeterminato, ma con il vantaggio della previsione e della perseveranza, il risultato finale: l’equilibrio che si è stabilito nelle istituzioni con la sconfitta di Romano Prodi e la rielezione di Giorgio Napolitano, una prima volta da record negli annali, come «prima volta» da record è quasi tutto quel che il Cav. tocca; e l’equilibrio di governo, con un esecutivo di larga coalizione da Berlusconi rivendicato da subito e da lui ottenuto con un segno di egemonia politica che non è necessario enfatizzare, e che lui non enfatizza.
Hanno voglia di dire gli sconfitti del Pd che la colpa è di Grillo intestardito su Stefano Rodotà e negativo a un improbabile governo Bersani «di cambiamento»: sanno anche loro che alla base di quel che è successo sta il pronunciamento popolare, la sua composizione, che ha travolto perfino la clausola del premio di ultramaggioranza scattata per un Pd che non ha toccato nemmeno il 30 per cento, a un’incollatura dall’inseguitore.
Così una politica senza Berlusconi, eliminato da clausole di interdizione giudiziaria o spacciato a colpi di ineleggibilità, un mostro comico a uso degli idioti, dei rancorosi, degli odiatori più coacervi e lenti di digestione, non è oggi immaginabile.
La sinistra estrema e manettara si racconta la favola di una sinistra istituzionale e di partito cedevole, incapace di fissare una norma di esclusione autoritaria del fenomeno politico di massa più rilevante della storia della Repubblica (il famoso conflitto d’interessi). Accusano Napolitano, che pure ha insignito Mario Monti del senatorato a vita, lo ha messo a capo del governo e ha manovrato per un cambio di cavallo rispetto al vincitore delle elezioni del 2008 sempre nei limiti di legittimità e di imparzialità politica propri all’istituzione che presiede, senza sconti per nessuno, Berlusconi compreso, di essere all’origine di tutte le rovine dei loro sogni o incubi, e cercano di stroncarlo con un linguaggio banditesco, al quale si piega un vanitoso Rodotà con i suoi pari dell’azionismo torinese polveroso, o con liste peregrine alla Antonio Ingroia o campagne finite nel nulla alla Antonio Di Pietro.

Non è colpa di Grillo, non è colpa di Massimo D’Alema, non è colpa di Napolitano. È il corso effettuale delle cose e la manifestazione di una chiara volontà politica popolare che hanno condannato all’irrilevanza e alla sconfitta, esperienza dei governi Prodi e ulivisti compresa, coloro che hanno sfidato il Cav., sempre inseguendo la mostruosa obiezione moralista e superciliosa, fetida e propagandistica, offerta dalle procure compiacenti alla coalizione politica antiberlusconiana.
Prendete cento italiani, interrogateli nel modo opportuno per ottenere risposte equanimi, e vedrete che otto su dieci vi diranno che allo stato delle cose l’ipotesi di sbarazzarsi di Berlusconi senza tornare a sfidarlo in campo aperto, e senza costruire qualcosa di più convincente per sostituire la sua influenza e presenza pubblica, insomma con sentenze o giochetti parlamentari, è ipotesi irrealizzabile. E questa è la vera ragione per cui, fatta salva la vigilanza verso forme di accanimento personale, ad personam, che sono un danno ingente non già alla pacificazione ma alla ragionevolezza e al principio di realtà, non è dal grumo dei processi e delle sentenze in giudizio che può venire, a meno di un impazzimento generale e di una definitiva perdita di fiducia nella democrazia rappresentativa, un vero e concreto pericolo per ciò che Berlusconi continua a rappresentare.