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 2013  giugno 15 Sabato calendario

IL PARTITO CARISMATICO E L’OSSESSIONE ORGANIZZATIVA

Il dibattito sul futuro politico del Pdl è concentrato sul risparmio in metri quadri calpestabili che la nuova sede di piazza in Lucina consentirà e sull’inquadramento fiscale delle sedi regionali. Del resto, l’ossessione organizzativa e la forma-partito sono fattori costitutivi del centrodestra berlusconiano sin dalle origini. «Come dibattito è un po’ angusto – dice Alberto Mingardi – non mi convince nemmeno questo tentativo di reclutamento di classe imprenditoriale, difficile trovare cloni». Un tentativo già fatto in passato, e senza successo. I no incassati a suo tempo da Antonio D’Amato, il quale ha sempre esercitato un fascino anche dialettico su Berlusconi, o da Luca di Montezemolo. E i no di questi giorni, di Guido Barilla e Alfio Marchini.

L’INNOVAZIONE CHE NON C’È
In teoria, sul piano organizzativo, basterebbe fare dei congressi e assecondare la selezione di nuova classe dirigente. Basterebbe volerlo. Ma il vero problema del centrodestra è non essere più percepito come fattore di innovazione politica, sociale ed economica. Spiega Sergio Fabbrini, direttore della School of Government della Luiss: «Nato su base carismatica per bloccare la coalizione alternativa, il contenuto politico del centrodestra italiano – prima forza liberale, poi forza conservatrice – è sempre sembrato una derivazione dell’atteggiamento carismatico del capo. E il capo non ha mai pensato a istituzionalizzare il suo carisma. Questo è il primo problema del Pdl». Aggiunge Mingardi: «Strano, certo, anche perché questo immobilismo un po’ cupo in teoria non corrisponde all’immagine a colori che Berlusconi continua a trasmettere di sé. L’identità del partito non c’è più. Basta una ricognizione sui programmi: niente idee sul fisco se non l’Imu come bandiera, nessun ragionamento sui tagli alla spesa». Anzi, c’è una disposizione questa sì post-democristiana e, lato sensu, partitocratica sulla spesa pubblica come volano di consenso: basti pensare alla P.A., dove i fannulloni non si licenziano, ma si spera che diventino efficienti. «Da questo punto di vista – dice ancora Mingardi – nell’agenda economica non c’è differenza tra centrodestra e centrosinistra. Approccio comune. D’altra parte spesso specchio della società. Per esempio tutto il Mezzogiorno ha un riflesso di dipendenza dalla spesa pubblica. Quindi, nessuna differenza tra destra e sinistra, ma un pensiero dominante: il problema non è l’eccesso di spesa, ma l’austerità. Siccome è colpa e della Germania e dell’Euro, non c’è spazio per le riforme». Gustavo Piga, economista politico a Tor Vergata, dice: «Il mantra è: non ci sono risorse. Ma c’è il totale rifiuto di considerare che ci sono 800 miliardi di denaro di spesa pubblica a disposizione. Tagliamo. Come si fa a non ragionare su questo?».
Ulteriore ricognizione sul programma: scarse idee sul rapporto tra economia e giustizia, su formazione e istruzione, tradizionale tendenza alla minimizzare su innovazione e ricerca (temi confindustriali, nella retorica del centrodestra), dopo Tremonti e le sue opinioni peraltro contrastate, nessun ragionamento sulla Grande Crisi, «se non qualche nostalgia protezionista», nota Mingardi. E aggiunge: «Non c’è un’idea generale di società. Il quadro è desolante. Dopo cinquant’anni di sistema misto, la definizione del rapporto tra Stato e individui non è stata scalfita dai successivi venti di centrodestra sedicente liberale. Con una eccezione: la sanità lombarda. Solo lì – pur con tante cose da perfezionare – è stato realizzato qualcosa che assomiglia a un modello. Per il resto, tutto rinunciatario».
Cosa fare per darsi un po’ di identità? «Un partito di destra – dice Piga – dovrebbe essere liberale. Mettere al centro di tutto l’individuo e le sue capacità e, einaudianamente, tutelare i deboli. Ma non lo fa. Come la Lega d’altra parte, messa malissimo nel nordest perché piccola impresa e giovani non sono tutelati. I giovani dovrebbero essere un capitale su cui investire, ma nessuno se ne occupa. Come se non esistessero, neanche da un punto di vista elettorale».
Fabbrini torna al punto di partenza: «Il Pdl non ha un’idea di società, perché non si è mai posto il problema del programma, subordinato alla questione carismatica. Che potrebbe fare? Tante cose, ma deve decidere. Essere un partito liberista un po’ euroscettico, essere un partito conservatore continentale, oppure – terza via – partito mediterraneo che difende il suo sistema di piccola e media impresa». Si aspettano decisioni.