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 2013  giugno 14 Venerdì calendario

IL MIO SUCCESSO? LA MORTE ORA NON MI FA PIÙ PAURA


[Franco Battiato]

MILO (Catania). Spartiti, biografie in tutte le lingue, pagine sparse in inglese e in tedesco, libri fotografici. Händel ha invaso il salotto. Scaffali, tavoli, sedie, persino il divano. Franco Battiato ha completato la sceneggiatura del film su Georg Friedrich e fra una data e l’altra del tour di Apriti Sesamo ci rimette le mani, rilegge ad alta voce, sceglie il commento sonoro, aggiusta il cast. Ha già Willem Dafoe e Charlotte Rampling, che da sempre adorano la sua musica, e ora ha contattato John Carson. «Che bello lavorare con questi artisti straordinari», dice. «Non si parla mai di soldi, si capisce che lo fanno con una motivazione diversa. Sto pensando anche a Christopher Plummer, potrebbe essere un Cardinale Ottoboni eccezionale. Perfetto per quella scena della festa per la Resurrezione di Händel, presenti Scarlatti e Corelli, in cui finisce in camera da letto con una ragazza che denuncia i vescovi che trafugano l’argenteria e fanno la corte ai castrati – storia vera, non ho inventato niente».
Insolitamente il telefono interrompe spesso la quiete della casa di Milo, alle pendici dell’Etna. C’è un tour da portare a termine, il quarto film da avviare alla produzione e un paio di appuntamenti estivi fuori programma: due concerti con Antony and the Johnsons (il 31 agosto al Mandela Forum di Firenze e il 2 settembre all’Arena di Verona) e una serata intitolata Aria di Rivoluzione con Claudio Rocchi e Gianni Maroccolo, il 26 giugno all’Auditorium Parco della Musica di Roma nel corso della rassegna Per voi giovani. «Con Antony canterò Del suo veloce volo e poi magari una canzone in inglese. Ma lo voglio anche nel film, vestito da donna», rivela. «Mi ha detto: "Non posso recitare. Sono stato troppo umiliato in passato quando volevo farlo e tutti mi deridevano". Ma un ruolo en travesti lo ha entusiasmato. Ho pensato a lui per la parte della regina d’Inghilterra e a Dino, il vecchio caro Dino di Te lo leggo negli occhi, per quello del Re; insieme canteranno un’aria stupenda di Giovanni Bononcini. Aria di rivoluzione invece prende il titolo da un mio brano del ’73 ripreso dal vivo dai PGR. Andai a vederli a Messina, dove il gruppo di Lindo Ferretti si esibiva come spalla di Jovanotti. Furono solo fischi, come spesso succedeva, e Giovanni: "Ragazzi, adesso cantiamo una canzone di Battiato, del resto c’importa una sega". Ci assomigliamo da questo punto di vista. Di fischi ne ho avuti tanti anch’io, ma solo quando ero in cartellone con i rocker. Come sperimentatore, invece, avevo un seguito piccolo ma fedele. Non si può credere com’ero all’epoca. Ancora oggi resto allibito dalla violenza e dalla lucidità mentale con cui mi esprimevo; poi ho mediato, è stato giusto così, perché ho trascinato più di qualcuno da questa parte. Oggi durante i concerti c’è un silenzio quasi religioso, applausi scroscianti per L’ombra della luce, gente che conosce a memoria Gilgamesh; ormai io e il mio pubblico condividiamo molti interessi, dalle letture agli ascolti. Questa è stata la mia fortuna, diversamente mi sarei ritirato».
Gli dimostrano devozione. E non solo in Italia, ma anche in Germania, in Francia, in Spagna. Cinquant’anni di carriera e nessun compiacimento. «Il rapporto con il pubblico non mi ispira né mi lusinga», precisa. «La retorica rock non mi sfiora. Mi sono trovato su quel percorso, incidentalmente, ma non era la mia strada. Avrei potuto fare il compositore, questo sì». Trionfi all’Olympia di Parigi, al Barbican di Londra, al Teatro Circo Price di Madrid. Tutto è andato a gonfie vele, lo si capisce anche dalle interviste rilasciate nei vari Paesi. Loquace, rilassato, leggero. Con il giornalista Carlos Marcos del Dominical ha anche parlato di sesso. E noi che pensavamo che avesse sublimato tutto in trascendenza! «No, no, non ho ancora chiuso, ma sto rallentando, forse fra un anno non ne farò più» scherza. «Poco a poco tutto diminuisce, anche il sesso, come una rosa che comincia ad appassire. Ho trovato un modo equilibrato di convivere con l’idea dell’invecchiamento e del trapasso. Devo dire la verità, questo è il momento più bello della mia vita. Alla mia età (68 anni) si entra in certe zone in cui il rapporto con il soprannaturale diventa più intimo; intendiamoci, non sono così imbecille da credere di aver raggiunto chissà cosa, ma sono in contatto diretto con la morte, al punto da controllare la paura. Paura di cosa? I fantasmi sono autocreati; la realtà oggettiva è un’altra. Morire è come un sogno. Credo nel karma, può esserci una felicità tremenda fuori dalla prigionia del corpo».
Nessuna cornice sul pianoforte, dischi d’oro appesi alle pareti o foto ricordo nella villa di Milo. Battiato ha bandito compiacimenti o morbosità proustiane nella vita e nell’opera; ne sono privi anche i tre volumi di Fleurs e l’incantevole Quand’ero giovane, la canzone più recente che pure è un amarcord. «Ne sono immune. È la mia natura», spiega. «Non ho mai pensato al successo. A 19 anni per vivere ho fatto la canzonetta. A 22, quando ho capito di essere di un’ignoranza inaccettabile, ho cominciato a essere più esigente con me stesso, a leggere come un forsennato, anche tre o quattro libri contemporaneamente. Negli anni Settanta, il pregio di chi faceva musica progressiva – c’era una frattura enorme tra noi e i pop singer – era il totale distacco dall’idea della carriera. Ci pagavano la diaria, e per noi era più che abbastanza. Quando Pollution (1972) arrivò ai primi posti in classifica, non mi rendevo neanche conto di quel che stava accadendo tanto era inatteso e fuori dalle mie aspettative. Non pensavo che quel disco potesse sortire dei risultati economici. Poi ci fu un cambiamento alla fine del decennio, dopo tanti anni di avanguardia volevo finalmente guadagnare qualcosa – pur sempre con un distacco sentimentale dai ricordi. Non guardo mai le vecchie foto. Mi crea disturbo. Siamo quel che siamo oggi. Credo nella reincarnazione, ma se sono stato un santo o un assassino non fa nessuna differenza, anche se ho delle intuizioni di vite passate – credo di essere stato donna nei primi del Novecento».
Lo va cantando da 1991: «Povera patria! Schiacciata dagli abusi del potere / Di gente infame, che non sa cos’è il pudore / Tra i governanti, quanti perfetti e inutili buffoni! / Non cambierà, non cambierà». Eppure ci ha provato. Su invito di Crocetta ha accettato di ricoprire l’incarico di assessore al turismo della regione Sicilia. Ha resistito cinque mesi, poi dopo l’esternazione di Bruxelles («Ci sono troie in giro in Parlamento che farebbero di tutto, dovrebbero aprire un casino»), le dimissioni forzate. «Mi vergogno a dirlo, ma per un attimo ci avevo creduto», confessa.
«Rosario mi era sembrato un vero rivoluzionario, anche se gli altri si facevano delle grasse risate ben sapendo che nulla sarebbe cambiato. Ho capito che non c’era niente da fare quando ho saputo che Nello Musumeci ha detto: "Tanto tutti questi fra un mese saranno cacciati ". Poi quelli di destra hanno cominciato a mandarmi segnali di disturbo, del tipo attento che quando arrivi qui te la facciamo vedere noi... Fino all’attacco di Ardizzone per essermi presentato all’assemblea regionale senza cravatta. È stato il Pd, Grasso in testa, che ha voluto le mie dimissioni, non aspettavano altro. Da anni dico cose tremende contro i politici, le ho cantate con una violenza inaudita; la Finocchiaro sa benissimo che il mio non era un attacco generalizzato alle donne ma al meretricio della politica, parlavo di chi si vende per quattro soldi». S’interrompe, fissa lo sguardo fuori dalla finestra. «Non sa cos’è per me quell’albero di ciliegio. Quando è in fiore è di un bianco accecante. Questa per me è la metafisica. C’è un roseto qui sotto, ogni tanto i fiori mi omaggiano della propria presenza, si arrampicano fin sotto la finestra». Scende ad accarezzare le rose, profumatissime. È sereno, totalmente in sintonia col suo paradiso terrestre; quella di Bruxelles è il massimo della violenza che uno come lui può permettersi. Un J’accuse ma soprattutto l’istinto della belva che lo ha spinto a uscire (in fretta) dal recinto. Il cielo è terso, oltre il giardino, all’orizzonte, si distingue chiaramente il continente.
«Nascere esseri umani è un grande privilegio», riflette, «abbiamo il libero arbitrio. Anche se ho visto cani molto più spirituali di tanti uomini».
Giuseppe Videtti