Rita Fatiguso, Il Sole 24 Ore 15/6/2013, 15 giugno 2013
E LA CINA HA SEMPRE PIU’ PAURA DEI DAZI
Questa volta non c’entra il sacro terrore di perdere la faccia (mianzi). La Cina non mollerà la presa sui pannelli solari in Europa per ragioni squisitamente economiche, costretta com’è a difendere con le unghie e con i denti persino le disfunzioni del proprio modello produttivo. Una sorta di coazione a ripetere che già sta contaminando altri settori dell’economia.
Certo, i dazi Usa (dal 24% fino al 225%, con una media del 31%) hanno fatto crollare l’export da 11 milioni di celle a 900mila nei primi quattro mesi del 2013 con l’effetto di rimpiazzare l’export cinese con quello di Taiwan e Malesia. Ma la vera malattia cinese resta il surplus produttivo: nel 2012 si sono prodotti 55 gigawatt di pannelli pari al 150% della domanda globale. «La Cina oggi può produrre una volta e mezza il fabbisogno mondiale di pannelli solari. Il consumo europeo è pari a 15 GW nel 2012. La sovrapproduzione è il doppio del fabbisogno europeo. Appena tre anni fa era di appena 6,5 GW», commenta Bernanrd o’Connor, esperto in diritto del commercio internazionale.
Dopo i pannelli, l’acciaio: nel 2011 la produzione era di 863 milioni di tonnellate, mentre la domanda locale era di 650 milioni, con un gap di 213 milioni. La capacità mondiale era di 1.975 milioni con una domanda di 1.480 milioni e un gap di 491 nel 2011. La Cina oggi ha più del 40% della capacità mondiale e sta aumentando il ritmo, da 200 milioni del 2002 a 900 milioni nel 2013.
Una simile espansione è stata innescata da altrettanta iniezione di fondi come per i pannelli. Dietro tanto accanimento terapeutico sui pannelli solari - in ballo c’è il futuro dei rapporti con l’Europa - c’è un sistema produttivo malato di gigantismo, affetto da sovrapproduzione ma, in filigrana, incapace di cambiare passo, di rivolgersi al mercato interno oppure di diversificare la produzione per lasciar fare realmente all’economia privata. Fiumi di finanziamenti si sono riversati nel settore dell’energia solare cinese con risultati talvolta discutibili.
Morale: per smaltire i suoi prodotti la Cina non ha altra scelta che spingere sui mercati stranieri, costi quel che costi. Bloccata dai dazi statunitensi, ora da quelli europei (anche se provvisori), la Cina attraversa il Pacifico e si fionda in Sudamerica, Cile, Argentina, Ecuador. Lì si ricomincia e la competizione riparte, al ribasso, con gli stessi concorrenti, ma su altre piazze. Una miriade di produttori più piccoli rispetto ai big Trina Solar, Jinko Solar, Yingli e Suntech prende la valigia, assume un interprete e parte per piazzare solare Made in China.
Paradossalmente il Paese che vantava il 65% della produzione mondiale di pannelli ha assorbito una quota infinitesimale di energia solare, molto meno di quanto non abbia fatto l’Italia, due gigawatt contro 7-9. Un assurdo, date le dimensioni dei due Paesi. Perché in Cina manca la rete in grado di gestire le cosiddette smart grid, le centrali intelligenti e il 40% del Paese non è attaccato alla rete. Il lavoro da fare su questo fronte è enorme, la ricerca dovrebbe sostenere scelte razionali e utili per la popolazione locale.
Interi distretti produttivi, invece, si sono dedicati alla monoproduzione di pannelli, celle, wafer. Wuxi, nello Jiangsu è stata nel bene e nel male, l’epicentro del boom del solare. La capitale dei pannelli ora cerca di uscire, a fatica, dall’incubo della depressione da sbornia solare che ha lasciato sulla città una fine coltre di silicio, gli scarti della lavorazione dei pannelli sono particolarmente inquinanti. Il segretario del partito locale Huang Lixin, è una signora gentile che cerca di attirare nuovi investimenti snocciolando opportunità nell’It, nella produzione di film, di bus elettrici. Nessun accenno ai pannelli solari per i quali il Governo ha ingaggiato una lotta all’ultimo sangue. Wuxi è stata il regno del mago dell’elettricità sostenibile, Shi Zhengrong, l’uomo che Time aveva definito the Green Witz, il mago verde, e Forbes incoronato come il più ricco della Cina, oggi solo il presidente detronizzato della Suntech, colosso ormai fallito, oberato dal peso di 541 milioni di bond in perenne scadenza e da scandali ancora tutti da decifrare. Le autorità cinesi passano a setaccio le carte della multinazionale quotata a Wall Street, a corto di liquidità, in crisi industriale e con mille ombre sulle operazioni realizzate in Europa, compresi manager spariti nel nulla e bund falsi da 400 milioni di euro piazzati a banche cinesi a garanzia di investimenti in Europa, in Puglia, in particolare.
La guerra commerciale con gli Usa e l’Europa ha fatto il resto, innescando il crollo, nel 2012, degli ordini di pannelli cinesi, addirittura dell’80% (secondo China PV industry alliance), spingendo il 90% dei produttori cinesi del settore a chiudere i battenti o a ridurre la produzione. Quintali di pannelli giacciono in magazzino, le catene di montaggio vanno a singhiozzo, le società falliscono.
Per difendere tutto questo, ad libitum, la Cina ha schierato a Bruxelles personaggi ben noti anche da noi per una lunga serie di dispute in cui l’Italia è stata in prima fila, dai dazi sulle scarpe, a quella sul tessile. Gao Hucheng, ministro del Commercio estero e Zhong Shan, viceministro affiancano il premier Li Keqiang, massima autorità economica del paese. Basta l’annuncio di un portavoce del Mofcom a bloccare i sogni di export dei produttori di vino europeo: abbiamo avviato un’inchiesta sull’import di vino made in Europe venduto a meno di un euro a bottiglia.
Ma la storia dei pannelli, delle produzioni seriali che non trovano un mercato interno, rischia di essere un precedente pericoloso per la stessa Cina. C’è chi già intravvede il prossimo crack, nell’acciaio, nell’industria automobilistica e via dicendo. E non è certo evitando i dazi che la Cina troverà la strada di una crescita sostenibile né, tantomeno, pompando liquidità in aziende non profittevoli.