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 2013  giugno 14 Venerdì calendario

CHI HA UCCISO LA SINISTRA?


[Alfredo Reichlin]

ROMA. Alfredo Reichlin lo dice con uno speciale disappunto: «Vuole sapere quello che vedo oggi in Italia? Vedo i banchieri che governano in silenzio. I tecnici che amministrano. E i politici che vanno contenti in televisione».
Lo dice dall’alto dei suoi 88 anni appena compiuti che coprono l’intera storia politica della Prima e della Seconda Repubblica, partigiano comunista a 17 anni, presidente dei Ds a 80, in mezzo cinque legislature e un carisma sempre crescente, un’aura da padre nobile che soppesa le parole e si misura con i rendiconti della Storia, nel suo caso transitata da Togliatti al post Bersani, da Berlinguer al quasi Renzi: dalla rinascita dell’Italia in macerie di ieri, alle macerie dell’Italia di oggi.
È della sinistra italiana che parla, di quella lunga sequenza di trasformazioni per lo più onomastiche – Pds, Ds, Ulivo, Pd – scivolate sulla superficie della nostra scena politica da quando si è diradata la polvere del Muro di Berlino: «Bisognerà pur dire che la mia generazione, quella che nel 1945 ha ereditato un Paese in ginocchio, distrutto dalla guerra, semi analfabeta, contadino, governato dal latifondo e dalla Chiesa, il suo dovere lo ha fatto. Quel mondo che ci è cascato addosso quando avevamo vent’anni lo abbiamo ricostruito. Non da soli, certo. Con infinite contraddizioni, magari, con la questione Meridionale non risolta, le mafie non sconfitte, le sacche di sottosviluppo, le ingiustizie non sanate, la corruzione. Ma è con quello sforzo durato trent’anni che il Paese è rinato».
Ed eccoci al punto: «È la generazione successiva alla nostra che deve fare i conti con il proprio fallimento. E da questo fallimento trarne le conseguenze».
Lei parla dei dirigenti di questi ultimi vent’anni, da Occhetto in poi. I D’Alema, i Veltroni, i Bersani, eccetera?
«Io i nomi non li voglio fare. Non mi piace. Non sono un giudice. Sono un politico che analizza la storia di un clamoroso declino, di un deficit di strategia».
I fallimenti sono degli uomini, hanno cognomi e responsabilità.
«Ma i partiti sono organismi collettivi che dovrebbero – anzi: avrebbero dovuto – leggere le dinamiche della realtà, cercando di indirizzarle o di trasformarle».
È quel condizionale che ha imprigionato il suo partito?
«La sinistra quelle dinamiche non le ha proprio lette, non le ha capite. È rimasta inerte mentre nel mondo globalizzato l’economia prendeva tutto il potere e la politica perdeva il proprio, fino allo spettacolo desolante di oggi».
Lei parla dell’economia finanziaria?
«Sì, quella che produce denaro con il denaro. Che sposta enormi investimenti da un Paese all’altro con un click. Che in un minuto determina le fortune di un’area del mondo oppure la sua rovina creando ingiustizie così profonde tra il Primo e il Terzo mondo che per trovarne un corrispettivo bisogna risalire al Medioevo. Che esprime in pieno la sua potenza in grado di spazzare via ogni potere locale e in prospettiva di liquidare gli Stati nazione».
In Italia questo distacco tra potenza e potere ha spiazzato tutta la politica, non solo la sinistra, non crede?
«Ma è stata soprattutto la sinistra a non capire, giusto vent’anni fa, la profonda trasformazione del Nord, quando finisce il mondo della grande fabbrica e inizia quello delle partite Iva. Al netto di tante cattive ragioni, Bossi e Berlusconi, nascono dentro a quel mutamento che è insieme un nuovo dinamismo economico e una nuova insofferenza alle regole».
Loro avanzano, voi declinate.
«Le radici della nostra crisi sono lì. Noi vecchi abbiamo le nostre responsabilità, non mi sento innocente. Ma provi a pensare a come il Pci negli anni Sessanta, Settanta, Ottanta, aveva accompagnato la crescita dell’economia in Toscana, in Emilia, in Umbria: l’artigianato che diventa piccola industria diffusa, gli operai che si mettono in proprio, la politica locale che asseconda quel mutamento e lo governa... E ora lo confronti con il distacco, anzi l’estraneità, della sinistra a intere aree produttive del Nord, la Lombardia, il Veneto, che negli anni Novanta hanno compiuto dei veri miracoli...».
Miracoli rimasti senza una vostra rappresentanza politica.
«Appunto».
Quindi?
«Quindi penso che ora tocchi a una nuova generazione di dirigenti, quella dei trentenni, provare a rilanciare la sinistra, a darle una nuova prospettiva, nuovi valori, a misurarsi con i nuovi mutamenti della realtà».
Matteo Renzi ha ragione?
«Renzi ha le sue ragioni».
Si schiererà con lui?
«Mi schiererò per il bene del partito. Come sempre. In fondo ho contribuito a scrivere la carta dei valori del Pd».
Perché sorride?
«Perché non so più dove l’ho messa. Faccio fatica a ricordarmela. E del resto non ne parla nessuno. Ho contribuito. Ma di quel documento non è rimasta traccia».
Ultimamente i valori di cui si è molto parlato a sinistra sono quelli in contanti dei Penati, dei Lusi, del Monte Paschi.
«Il giornalismo, specie quello televisivo, racconta che il disastro della politica è solo nel ladrocinio, nella corruzione. Ma c’è persino di più: il rischio di rendersi irrilevanti sino alla scomparsa».
Grillo la auspica.
«Grillo la grida con un furore che non promette nulla di buono».
A proposito, nei sessanta giorni del dopo voto, durante la graticola Bersani, poteva diventare vostro alleato?
«No, non era possibile».
I numeri c’erano.
«Non c’erano le garanzie per fare un governo con un soggetto politico così inaffidabile».
Meglio la stabilità dell’alleanza con Berlusconi?
«Con Silvio Berlusconi c’è un accordo di governo, non un’alleanza».
Lana caprina.
«Per nulla. È lana politica. Togliatti si accordò persino con il Re per salvare l’Italia, ma non si sognò mai di considerarsi alleato di Badoglio».
Il rendiconto dentro il Partito democratico si farà al prossimo congresso?
«Spero lo si farà sulla politica e non sui nomi. Su un progetto, sulla nostra idea del mondo».
Teme il regolamento di conti delle correnti?
«Vedo un eccesso di narcisismo in giro. Anche su questo la mia generazione era assai più disciplinata, prima il partito, poi le storie personali. Di solito ora accade il contrario».
Lei vede questo rischio?
«Sì».
In quel caso?
«Non parteciperò al gioco. Mi interessano di più le domande cruciali: chi siamo, cosa vogliamo. E se saremo in grado di allargare la sinistra all’area moderata del Paese, alle nuove culture progressiste e a quelle liberali».
L’Ulivo fu quel tentativo.
«L’Ulivo era una coalizione di forze. Come disse Massimo D’Alema, l’amalgama non è riuscito».
Il Pd le sembra un amalgama migliore?
«La sfida è proprio questa. Se la sinistra dovesse fallire vedo un futuro nero, il Nord che si stacca definitivamente dall’Italia, il Sud che sprofonda, l’Europa che ci lascia andare».
Lei è pessimista o ottimista?
«Non è questo il punto. Siamo a un passaggio cruciale della nostra storia».
È il fallimento della sinistra che ha determinato la lunga egemonia di Silvio Berlusconi?
«In gran parte è stata colpa nostra. Anche se bisogna riconoscere la sua spregiudicata grandezza. Si ricorda cosa diceva Giovanni Agnelli nel ‘94? Mandiamolo avanti, se perde, perde lui, se vince, vinciamo noi. All’inizio sembrava vero. Poi non più. Ha vinto lui e basta».
Che giudizio si è fatto?
«Su di lui? Che è un incantatore. Una figura potente. Un uomo paragonabile a Cagliostro».
In questo momento sta fronteggiando, oltre ai guai aziendali, due condanne e tre processi, anche una destra litigiosa, la Lega in declino, 45 ragazzine questuanti, alcune riforme costituzionali e incidentalmente il governo Letta.
«Lo abbiamo di sicuro sottovalutato. E di sicuro ci siamo sopravvalutati noi».
È stato il Re incontrastato della destra.
«Con il suo partito a vocazione maggioritaria ha unificato il voto reazionario con quello moderato. E quando una certa borghesia ha provato a riorganizzarsi dietro a Mario Monti, con una coalizione che andava da Montezemolo alla Comunità di Sant’Egidio, è stato un fallimento».
Probabile che abbiate anche sopravvalutato Monti. Avete appoggiato il suo governo sino a quando Berlusconi ha staccato la spina.
«È vero, siamo stati subalterni. E l’abbiamo pagata moltissimo. Avremmo dovuto porre fine al governo Monti sei mesi prima, ma volevamo onorare gli impegni presi».
Poi tutto lo sforzo elettorale il Pd lo ha concentrato nelle primarie Bersani-Renzi.
«Sono state un fatto positivo di democrazia e trasparenza».
Peccato che poi il partito si sia dimenticato della campagna elettorale vera.
«Il risultato elettorale è stato certamente negativo e Bersani doveva trarne le conseguenze subito».
Per tornare al voto?
«No, il Paese non avrebbe retto altri mesi senza governo».
La rielezione del presidente Napolitano è stata la scelta giusta?
«Napolitano ha salvato il Paese da una deriva pericolosa».
Le larghe intese sono la risposta adeguata?
«Era la sola risposta possibile. La politica si fa con le condizioni date».
Non teme che il Pd, schiacciato da questo governo, rischi di smarrire ancora di più la sua identità?
«Le ultime amministrative hanno dimostrato che il patto fiduciario tra il Pd e il suo elettorato non si è rotto».
Però avete perso parecchi voti.
«Era fisiologico. Il futuro del Pd e della sinistra si giocherà al prossimo congresso in autunno. Siamo al dunque».
Ci sarà il cambio generazionale?
«Lo spero. Il ricambio è vitale, guardi la Chiesa».
Parla del nuovo papa?
«Venivano da uno stallo clamoroso: le dimissioni di un papa, una cosa mai vista negli ultimi sette secoli. E in due giorni di conclave si sono inventati un nome, un sorriso, ed è comparso Francesco».
Non per nulla hanno duemila anni di storia.
«È stata una formidabile lezione».
Pino Corrias