Antonio Steffenoni, il Venerdì 14/6/2013, 14 giugno 2013
L’ORLO CHE COPRE LE CAVIGLIE E SI SCOPRE IL MASCHILISMO DELLA TURCHIA IN FIAMME
ISTANBUL. Spesso, nella storia, grandi sconvolgimenti vengono annunciati da eventi di piccole dimensioni. Qui a Istanbul, la minaccia di sradicare 600 alberi a Gezi Park ha innescato la ribellione che, di lì, si è estesa in tutto il Pese e che tradisce uno stato di esasperazione che va ben al di là dell’evento. Allo stesso modo, l’iniziativa della Turkish Airlines che ha recentemente deciso di allungare le gonne delle hostess, di terra e di volo, trasformando le gonne di ieri in gonnone fino alla caviglia, la dice più lunga di quanto possa apparire sulla condizione della donna in quel Paese. Ne parlo con alcune importanti scrittrici turche.
Elif Shafak, la più nota fra loro che, con il suo romanzo La bastarda di Istanbul è stata tradotta in 30 Paesi (Rizzoli Bur 2013) dice: «La Turchia è una nazione maschilista». Sarà vero. Anche l’Italia o la Spagna lo sono, ma perfino i più retrogradi fra gli uomini italiani e spagnoli sanno che decidere di fare marcia indietro su certe conquiste, anche solo estetiche e modaiole del mondo femminile, sarebbe un autogoal clamoroso.
L’episodio dell’allungamento delle gonne operato dalle Turkish Airlines sembra confermare le voci, allarmate, che circolano sul peso crescente che sta acquistando, in Turchia, la morale islamica. Il sogno di Ataturk, di occidentalizzazione e laicizzazione del Paese, sembra tramontato. «La Turchia sta diventando più conservatrice e io sono preoccupata. Vede, il nostro è un Paese davvero complicato. Le donne sono molto attive, si fanno sentire, ma il Paese è ancora nettamente dominato dagli uomini. Soprattutto in politica. Abbiamo donne nelle università, nelle arti, nei media, nella medicina, ovunque. Eccetto in politica. Dove sono pochissime».
Elik Shafak è un’esperta in fatto di pregiudizi nei confronti delle donne. Nel 2006 è finita sotto processo con l’accusa di «attentato contro l’identità turca» perché nella Bastarda, fra le altre cose, fa dire a uno dei personaggi che quello attuato, ai tempi della Prima Guerra Mondiale, nei confronti dei curdi fu un genocidio. Altri lo avevano detto, ma il fatto che la cosa venisse ripetuta da una scrittrice fece scalpore.
«Non credo che le reazioni sarebbero state diverse se a scriverlo fosse stato un uomo. Ma una cosa è certa: il linguaggio che viene utilizzato per criticare gli scrittori maschi è molto diverso da quello che viene utilizzato nei confronti delle scrittrici. Anche il mondo letterario, in Turchia, è maschilista e sessista».
Dello stesso parere è un’altra scrittrice turca, internazionalmente nota, già editorialista di importanti quotidiani nazionali (sui quali oggi rifiuta di scrivere) e, guarda caso, finita lei pure sotto processo per un romanzo nel quale, secondo le autorità, era contenuto un inequivocabile invito alla diserzione.
Incontro Perihan Magden in un bar alla moda nella piazza Taksim, vero centro della modernità e della movida cittadina e in queste settimane centro nevralgico della rivolta. Anche lei, pochi anni fa, è finita in tribunale con l’accusa di «attentato all’integrità turca» che prevede una pena a tre anni di reclusione. Al termine del processo, la pena fu condonata ma lo shock subito in seguito alla denuncia spinse la scrittrice a lasciare il Paese e a rifugiarsi per un lungo periodo in Thailandia. Perihan mi dice: «Sono fuggita lontano per pulire la mente». In quell’occasione, aggiunge, «ho avuto la tentazione di restare là, per proteggere mia figlia».
Non è un caso che un suo splendido, aspro, romanzo si intitoli In fuga (pubblicato in Italia da Elliot) e che questa fuga sia quella di una madre e di una figlia che si sentono braccate da un inseguitore implacabile che le costringe a cambiare perennemente residenza. E non è un caso che nel romanzo la madre apprensiva venga uccisa dall’equivalente turco di un nostro carabiniere. In quest’omicidio, del tutto sproporzionato all’evento che lo provoca, «esprimo il mio timore per il militarismo».
Aleggia, in tutto ciò che le scrittrici turche narrano, il fantasma della violenza. C’è in ogni loro pagina l’incombere di una minaccia. Che in questi giorni si è realizzata.
«La Turchia» continua Perihan Magden «è tante Turchie. Nelle grandi città le donne vivono come le protagoniste di Sex & the City ma nei villaggi del Sud esiste ancora il delitto d’onore».
Sembra che le cose stiano realmente così. Nel dicembre del 2012 la deputata Fatma Salman Kotan, eletta nel partito di Erdogan in una zona del sud-est del Paese, si è presentata in Parlamento con il volto tumefatto per le botte ricevute dal marito. Poco tempo dopo, è emersa l’atroce notizia di uno stupro compiuto da 29 uomini – fra i quali un poliziotto – su una tredicenne e quella di un altro stupro perpetrato da un gruppo di 26 individui ai danni di una dodicenne, in Anatolia. I 26 sono stati prima arrestati, ma poi liberati. Tutti e 26.
Un sondaggio realizzato dal Centro per i problemi della Donna dell’Università di Kirikkale su un campione di 3.500 uomini di età superiore ai 18 anni residenti nelle città turche a maggiore tasso di occidentalizzazione, ha fatto emergere una situazione a dir poco sconcertante. Il 38 per cento degli intervistati ritiene che la violenza sulle donne sia occasionalmente necessaria. Il 28 la considera un modo per disciplinarle. L’11,5 pensa che diventare violento nei confronti della moglie sia un diritto del marito. Il 37,5 che la violenza possa essere ammessa quando entrano in ballo valori come l’onore e la disciplina. Infine, il 23,4 per cento degli intervistati ritiene, comunque, che la violenza sia accettabile quando costituisce una reazione alla provocazione femminile.
Esmahan Aykol, autrice di una serie di gialli molto brillanti pubblicati in Italia da Sellerio (Hotel Bosforo, Appartamento a Istanbul, Capodanno in giallo, Divorzio alla turca), giovane, bella, indipendente, sorride mestamente mentre dice: «In Turchia ogni giorno vengono uccise tre donne che hanno lasciato il marito». E rincara la dose aggiungendo: «Qui non è difficile essere scrittrice. Il difficile è essere donna».
Il Qui di cui parla Esmahan Aykol non riguarda solo la Turchia, ma anche la città europea di Istanbul, dove, per un paradosso della storia, è stato ratificata nel 2011 una delibera del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica. E dove sarà anche vero, come dice Perihan Magden, che molte donne vivono come le eroine di Sex and the City, ma forse non in tutti i quartieri. Basta lasciare piazza Taskim, Galata e il centro, dove le ragazze sfilano in minigonne mozzafiato, e raggiungere zone più periferiche per imbattersi in donne e ragazze – difficile distinguere le giovani dalle meno giovani – velate e coperte da ampie tuniche nere lunghe fino ai piedi.
«Lo Stato, da noi, lavora solo di facciata». Esmahan Aykol ha ragione, visto che le leggi contro la violenza sulle donne vengono promulgate, ma del tutto disattese dai tribunali. Ecco perché un ingresso del Paese nell’Unione Europea, ormai un po’ tramontato, viene visto di buon occhio dalle donne scrittrici che ho interpellato. «Non tanto per la parte economica, ma per quella sociale » mi dice Esmahan Aykol. E Elif Shafak precisa: «Io propugno un più forte legame fra Turchia e Unione Europea con l’ingresso in Europa. Abbiamo bisogno uno dell’altra. La democrazia turca e i diritti umani si svilupperanno più velocemente essendo all’interno del Continente».
Poi, ricordando l’influenza crescente dell’Islam nel suo Paese e prefigurando scenari non del tutto immaginari, si chiede: «Una società musulmana può essere una democrazia? Sì, musulmani, cristiani, ebrei, agnostici e buddisti e persone di qualunque background possono vivere sotto lo stesso tetto, con ideali condivisi. Oriente e Occidente non sono mai stati blocchi impermeabili finché non abbiamo cominciato a pensare a Oriente e Occidente come a realtà opposte».
Come conclude Elif Shafak, Istanbul «è una grande nave dalla rotta incerta sulla quale da secoli si alternano passeggeri di ogni provenienza, colore, religione». I fatti recenti dimostrano che questa coesistenza è più difficile di quanto pensa, ottimisticamente, la scrittrice. E che, comunque, su questa grande nave dalla rotta incerta, il destino delle donne continua a essere in discussione.
Antonio Steffenoni