Ernesto Assante, D - la Repubblica 15/6/2013, 15 giugno 2013
PRONTO AL FUTURO
Era il 3 aprile del 1973 quando Martin Cooper, da una strada del centro di New York fece in pubblico la sua prima telefonata attraverso un telefono cellulare portatile. La prima in assoluto. Perché Martin Cooper del telefono mobile è il padre.
Cooper all’epoca era direttore della sezione Ricerca e sviluppo della Motorola e l’apparecchio che aveva inventato si chiamava Dyna-Tac (da DyNnamic Adaptive Total Area Coverage), era decisamente più ingombrante e pesava quasi un chilo e mezzo. La batteria durava circa 30 minuti, ma per ricaricarla ogni volta ci volevano dieci ore.
Quella chiamata telefonica fu comunque l’inizio di una rivoluzione. Nata, come ricorda Cooper, vedendo una puntata di Star Trek nella quale il capitano Kirk per comunicare con i suoi compagni usa un aggeggio simile, più piccolo e senza fili. È riconociuta per la scoperta epocale che è con la consegna a Martin Cooper, il prossimo autunno a Bologna, del Marconi Prize, quasi un Nobel dell’innovazione (box a pagina48). Oggi Cooper ha 85 anni, ma resta in prima linea nel mondo delle tecnologie, dato che è il fondatore e amministratore delegato della ArrayComm, un’azienda della Silicon Valley che lavora per aiutare le compagnie telefoniche a incrementare il traffico sui loro network.
Mister Cooper, oltre Star Trek, cosa l’ha spinta a creare un telefono portatile?
"Era la fine degli anni Sessanta e la AT&T. la più grande compagnia telefonica del mondo, aveva appena inventato la rete cellulare. Loro l’avevano pensata per rendere possibile la nascita dei telefoni per automobili, apparati che sarebbero stati inseriti nello chassis delle vetture. Io lavoravo alla Motorola e tutti noi, in quella piccola azienda, pensavamo che la gente non volesse i telefoni nelle auto, volesse invece degli apparecchi da usare ovunque, un oggetto personale. Per dimostrare che avevamo ragione dovevamo realizzare quel prototipo. E battere il gigante AT&T. Nel novembre del 1972 chiamai i ragazzi del nostro industrial design, gli spiegai il concetto e quattro mesi dopo facemmo la nostra prima presentazione."
Erano telefoni analogici e decisamente più ingormbranti di quelli odierni.
"Tra il 1973, quando mostrammo i primi modelli, e il 1983, quando partì il primo servizio commerciale, costruimmo cinque modelli differenti e ognuno era più piccolo e portatile del precedente. Quello del 1973 pesava più di un chilo e mezzo, quello del 1983 circa 450 grammi, quello che ho in tasca oggi ne pesa 85".
Capì subito che quella macchina avrebbe contribuito a cambiare le abitudini della gente?
"Capivamo che il potenziale era enorme. Ma certo era difficile immaginare la diffusione odierna se si pensa che nel 1983 quel telefono costava 3500 dollari, circa 7000 dollari di oggi. Ma già pensavamo a un futuro in cui i cellulari sarebbero stati così piccoli da essere appesi direttamente all’orecchio o impiantati sotto la pelle. Sapevamo che la chiave del successo del telefono mobile erano peso e dimensioni. Ed era chiaro che la comunicazione senza fili avrebbe dato alle persone una straordinaria libertà, la possibilità di parlare con chiunque ovunque tu sia. E sapevano che se ognuno avesse avuto un cellulare il mondo avrebbe cambiato il suo modo di comunicare. Scherzavamo dicendo che l’assegnazione del numero telefonico avrebbe segnato la nostra esistenza: quando nasci hai un numero telefonico, quando non lo hai più vorrà dire che sei morto. Scherzi a parte il concetto fondamentale era che il numero telefonico non avrebbe più dovuto indicare un luogo, o una scrivania, ma una persona".
Come si sente a essere il padre di una rivoluzione simile?
"Io ho pensato il concetto, ma il risultato è stato ottenuto da un grande lavoro di squadra, centinaia di persone che hanno fatto in modo di dar corpo a una visione. Che non è ancora completa, sitamo ancora lavorando per migliorarlo. Mi è stato possibile arrivare a un simile risultato perché la Motorola di allora era un grande ambiente di lavoro, un posto in cui ho imparato l’oggettività, a pensare al business e non a me stesso, a mettermi sempre nei panni del consumatore e non dell’uomo di affari. Sono contento di aver potuto dare il mio piccolo contributo".
Siamo nell’era degli smartphone. Cos’altro ci riserva il futuro?
"L’evoluzione ci sarà, gli smartphone sono ancora tecnologia meccanica a uno stadio molto iniziale, sono difficii da usare e ancora non fanno molte cose che possono essere fatte con macchine simili. Che c’è di rivoluzionario nel leggere le mail o guardare la tv? La collaborazione è rivoluzionaria, essere disponibile, poter studiare o lavorare in qualsiasi momento dovunque sei, questo è rivoluzionario. Gli smartphone evolveranno in questa direzione e la rivoluzione che potranno portare sarà incalcolabilmente più grande, perché potrebbe cancellare l’idea di povertà, portare l’educazione e la cultura lì dove oggi non arrivano. L’altro cambiamento radicale credo avrà a che fare con la medicina Il sistema sanitario oggi è basato sulle cure che si ottengono una volta che una persona si ammala. È un sistema inefficiente. La comunicazione wireless ci fornerà sensori per comunicare le nostre condizioni di salute in maniera costante, e far in modo di evitare di ammalarci".
Tutto questo a scapito della nostra privacy...
"Abbiamo guadagnato un tipo di libertà per perderne un’altra. Possiamo comunicare e avere informazioni ma abbiamo perso la privacy. Il che, per alcuni versi, non è detto sia un male: basta guardare quello che è accaduto a Boston: in poco tempo sono stati trovati gli attentatori perché c’erano non solo le camere di sicurezza, ma le foto i i filmati delle persone che avevano i loro cellulari. L’importante è poter decidere a quale libertà rinunciamo e sapere bene quale libertà veniamo a guadagnare".