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 2013  giugno 15 Sabato calendario

L’ANABASI DELLA RAI


Il portavoce del governo greco, Simos Kedikoglou, ha annunciato martedì la chiusura della radiotelevisione pubblica, Ert, nonché il licenziamento di tutti i suoi 2.500 dipendenti. Benché ieri il primo ministro Samaras abbia aperto a una ripresa parziale delle attività, resta uno shock notevole: l’emittente statale ellenica fa parte della vita quotidiana di ogni greco quanto la Rai per noi italiani. Eppure, nell’ambito del programma di privatizzazioni imposto ad Atene dalla troika di Fondo Monetario, Bce e Commissione europea, anche la stazione tv non si salva. Verrà ristrutturata in vista della vendita e saranno riassunti solo i dipendenti indispensabili e che accetteranno nuovi contratti di lavoro meno onerosi per l’azienda. Ert era il classico buco nero che costava ad un paese piccolo e impoverito come la Grecia 300 milioni di euro l’anno di sussidi pubblici (in linea con l’Italia, dove, con una popolazione quasi 6 volte superiore, il canone frutta alla Rai poco più di 1,7 miliardi, essendo però il reddito medio dei greci inferiore al nostro). Inoltre, gli sprechi dell’emittente erano diventati leggendari e quindi il governo, per tagliare il nodo gordiano, ha deciso di prendere una misura draconiana.
Ebbene, se poniamo lo sguardo sulle vicende di casa nostra, forse potremmo prendere delle utili lezioni da quanto sta succedendo nella nazione culla della civiltà occidentale.
La prima è che anche in un paese dove la tradizione dell’intervento statale in economia è forte e radicato culturalmente, quando le circostanze lo impongono, vengono smantellati i tabù. Fortunatamente l’Italia non è nelle condizioni disastrate della Grecia, ma più si tarda a prendere certe decisioni, più quando si assumono esse sono dolorose, drastiche e meno redditizie di quanto avrebbero potuto essere.
Inoltre, quanto avviene ad Atene ci deve indurre a riflettere specificamente sulla Rai. La proprietà pubblica è protetta dall’innaturale alleanza tra due fazioni contrapposte: il “Partito Rai” , dominante nel centrosinistra, e il “Partito Mediaset” del centrodestra. Ad entrambi fa comodo avere da un lato una radiotelevisione pubblica dominata dai partiti e con un impianto politico- culturale delle trasmissioni “di sinistra”, e dall’altro un’impresa che non si comporti da vero concorrente del polo televisivo privato evitando di sottrargli risorse pubblicitarie.
Questo connubio ha fatto sì che, per quanto professionali possano talvolta essere i presidenti e i direttori generali Rai e nonostante la presenza al suo interno di ottimi giornalisti, autori e trasmissioni, l’andazzo prevalente sia sempre quello del carrozzone. L’ultimo bilancio approvato, quello del 2012, è stato particolarmente negativo: ricavi per 2.786,5 milioni di euro, quindi meno 211,8 milioni di euro rispetto al 2011, e ciò nonostante i grandi eventi sportivi (Europei di calcio e Olimpiadi); la perdita di esercizio è stata di 244,6 milioni di euro rispetto ai 4 milioni di attivo del 2011 e la posizione finanziaria netta risulta negativa per 366,2 milioni di euro con un aggravio di 93,8 milioni. Anche Mediaset ha avuto risultati (meno) negativi — la crisi c’è per tutti — ma naturalmente, se si prende il lungo periodo, i conti economici del Biscione non sono comparabili a quelli Rai. Nel triennio 2009-2011, nonostante abbia incassato circa 5 miliardi di canone, l’azienda televisiva statale ha infatti avuto perdite complessive per 156 milioni: deprimente. La riscossione del canone, poi, origina una grande ingiustizia sociale. L’evasione dello stesso è stimata dalla stessa emittente pubblica in mezzo miliardo di euro, facendo ricadere in modo eclatante sulle spalle dei soliti poveri fessi onesti il peso della tassa.
Chi difende la funzione di servizio pubblico della Rai, inoltre, non ha tanti buoni argomenti. Non occorre nemmeno citare la diretta televisiva del matrimonio di Valeria Marini o il tanto trash che viene trasmesso o peggio le inchieste della Corte dei conti o dei pm su presunti sprechi o fatturazioni gonfiate. Invero, è il concetto stesso che lega proprietà statale a servizio pubblico ad essere sbagliato. In molti altri settori (telecomunicazioni e altre public utilities) gli operatori privati svolgono la loro attività gravati da oneri di servizio pubblico (in alcuni casi chiamato “universale”) senza troppi problemi. Oppure, a voler essere pratici, basterebbe affidare ad una fondazione governata da consiglieri indipendenti e sovvenzionata con pochissimo denaro pubblico i canali digitali di Rai News e Rai Storia e avremmo risolto il problema.
Privatizzando la Rai faremmo affluire verso le casse dello Stato denaro utile ad abbattere il debito pubblico e i relativi interessi (alcune stime preliminari ponevano il valore dell’azienda tra i 3 e i 4 miliardi), solleveremmo i cittadini da una inutile gabella che genera fenomeni di evasione e ha importanti costi di riscossione, elimineremmo perdite di gestione che in ultima analisi paga il contribuente, toglieremmo le mani dei partiti politici dall’informazione e favoriremmo la concorrenza e l’innovazione nel settore televisivo.
Ci pensi bene il Pd: i grillini, seppur nelle loro modalità confuse, sono favorevoli alla dismissione. Scelta Civica come potrebbe opporsi? Tra l’altro, il portavoce Della Vedova presentò una proposta di legge per la privatizzazione e pure il responsabile del programma Ichino è favorevole. Chi rimarrebbe ad obiettare alla vendita? Il partito liberale di massa, vale a dire il Pdl, per mantenere il duopolio imperfetto in cui nomina anche i consiglieri di amministrazione dell’azienda concorrente di quella del suo leader? E che figura ci farebbe? Al Pd conviene chiamare il bluff: sarebbe un raro caso in cui ad un vantaggio politico tattico si accompagnerebbe un beneficio non irrilevante per il paese.
adenicola@adamsmith.it