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 2013  giugno 16 Domenica calendario

«... E

quel signore col turbante bianco e gli occhiali sarà probabilmente il futuro presidente dell’Iran...». Eliseo, inverno 2004. Niente champagne, solo spremute. E quanti sussurri, inchini. Il negoziatore iraniano per il nucleare, hojatolislam Hassan Rohani, è ricevuto in pompa magna da Jacques Chirac, dal ministro Villepin, dalle feluche in grande spolvero. Bravo, congratulazioni. Solo qualche settimana ed è di nuovo lui, sorridente e ancor più ammirato, ad accogliere a Teheran il resto della diplomazia Ue: i tedeschi, i belgi, il nostro Frattini. Bravissimo, ancora congratulazioni. Rohani è il clerico del momento. Carico d’onori in Europa, per aver appena firmato la sospensione del programma atomico: «Lo sceicco della diplomazia», l’incorona al Sharq, giornale qatarino. Onusto d’oneri in Iran, dove gli Stranamore si stanno preparando alla vendetta: «S’è fatto incantare dalle meravigliose cravatte e dall’inebriante profumo di Jack Straw!», l’accusa un deputato conservatore, agitando la foto della stretta di mano col ministro inglese. Unanime, la vox diplomatica occidentale: dopo la presidenza di Khatami, l’anno prossimo tocca a Rohani. D’occhio più lungo, i falchi di Teheran: la moratoria non durerà, e Rohani nemmeno. Com’è andata, si sa: Rohani durò in carica 678 giorni. Il tempo necessario allo sconosciuto sindaco di Teheran, Mahmoud Ahmadinejad, di spiazzare il mondo. Di cacciare Rohani. Di ripartire con le turbine.
Otto anni dopo, in un Iran isolato dal mondo e sotto le macerie della crisi, la lezione è servita. A maggio, quando Rohani è rispuntato dal nulla per ricandidarsi col suo popolo viola («perché ho scelto questo colore? Perché è di moda»), come simbolo una chiave («spalancherà al Paese la porta delle soluzioni»), un po’ per prudenza e un po’ per insipienza nessuno in Occidente gli ha dato il bacio del sostegno e della morte. Non ha chance, l’ha liquidato subito il Washington Post: troppo cauto, per diventare la bandiera dell’Onda Verde di quattro anni fa. Il curriculum non aiutava: primo religioso ad aver osato (sotto lo Scià) incoronare pubblicamente Khomeini col titolo d’imam, deputato dall’inizio della Rivoluzione, per una vita nel Consiglio per la sicurezza nazionale, una carriera benedetta dalla Guida suprema Khamenei... A 64 anni, Rohani ha la solida preparazione di chi ha fatto il seminario a Qom, militato col movimento del Clero combattente e fatto la necessaria guerra all’Iraq, è passato per buoni studi e una cattedra di diritto a Glasgow, ha sofferto la perdita d’un figlio suicida, parla l’inglese, il tedesco, l’arabo, il francese e il russo. Ma è pur sempre l’uomo di regime che nel ’99, di fronte a una piazza di contestatori, ebbe a sibilare un’unica soluzione finale: «Impiccateli». Anche sul nucleare, che oggi si guarda bene dal mettere in discussione, e sul quale non avrà comunque l’ultima parola, il nuovo presidente non è sempre stato lineare: la sospensione concordata con l’Europa — rivelò nel 2006, forse per rifarsi un nome in patria — «ci servì in realtà per completare, in un clima di calma internazionale, il nostro lavoro sull’uranio nella centrale di Isfahan». E pure due settimane fa, in un dibattito tv, l’uomo è sbottato («lei non sa di cosa parla!») davanti a un giornalista pro Ahmadinejad che gli rinfacciava quella famosa sospensione e d’avere svenduto l’Iran.
La vittoria di Rohani è la sconfitta del fronte conservatore, diviso e litigioso, così certo di vincere da schiantarsi. E’ la speranza d’una nomenklatura sfinita dalle sanzioni. Fra cento sfumature di grigio, è spiccato il suo viola. E le chance del riformatore sono cresciute a inizio mese, quando i Guardiani della rivoluzione hanno escluso dalla gara il grande protettore di Rohani, Rafsanjani, l’età come scusa (a 78 anni l’ex presidente «è troppo vecchio», hanno detto, dimenticando che Khamenei è più anziano ancora, e pure malato). Khatami, buona parte del clero e perfino Hassan Khomeini (il nipote) hanno deciso a quel momento di puntare su di lui. E lui, fiutando il colpaccio, ha smesso lesto il turbante del fine tessitore per vestirsi da spaventapreti. Arringando i ragazzi dei palasport: «Ripetete dopo di me se siete d’accordo: noi non vogliamo più che ci governino quelli che ci hanno ridotto così!». Attaccando Ahmadinejad e i suoi discorsi «superficiali, sventati, da ignorante». Promettendo che «il mio governo non sarà di compromesso e di resa, ma nemmeno da avventurieri internazionali». Immaginando perfino più diritti alle donne, che per legge non possono candidarsi alla presidenza. Paventando aperture a Obama e ai sauditi. Rassicurando il mondo con parole morbide, «saggezza, speranza, amore». L’ultimo a congratularsi per l’elezione, ieri sera, è stato il predecessore: «Spero che tu abbia l’opportunità di condurci», gli ha detto un po’ enigmatico Ahmadinejad. Con otto anni di ritardo, e se la Guida suprema gli lascerà il volante.
Francesco Battistini

REPUBBLICA
PIETRO DEL RE
VANTA una biografia eclettica e ricchissima, Hassan Rohani, il neo-eletto presidente dell’Iran, nato 65 anni fa in un piccolo villaggio di montagna nel nord del Paese. Una biografia il cui epilogo non stupisce, poiché Rohani è stato rivoluzionario, religioso, militare, spione, politico e abilissimo negoziatore. E anche amico fidato e amatissimo dell’ayatollah che inaugurò il potere teocratico che tuttora persiste in Iran, Ruhollah Mustafa Mosavi Khomeini.
Questo sodalizio può spiegare perché prima dell’elezione alla carica suprema, Rohani ha ricoperto innumerevoli e prestigiosissimi incarichi in seno all’apparato dirigente della Repubblica islamica. Ma la sua carriera è stata forgiata da un altro il grande personaggio politico persiano, Ali Akbar Hashemi Rafsanjani, che fu presidente dell’Iran per due mandati, dal 1989 al 1997. Con lui, Rohani militò nella resistenza contro lo scià Reza Pahlavi, fu arrestato e torturato. Durante gli anni della presidenza Rafsanjani si racconta che i due fossero inseparabili, che incarnassero uno l’alter ego dell’altro.
Per la cronaca, va tuttavia segnalato che prima di quel periodo, e cioè durante la sanguinosissima guerra contro l’Iraq, dal 1980 al 1988, Rohani assunse il comando dall’aviazione militare. Un ruolo che espletò con onore e devozione, a tal punto che una volta terminato il conflitto fu nominato a capo dei pasdaran, i 120mila guardiani della rivoluzione.
Come Winston Churchill, oltre che un grande militare Rohani è stato uno straordinario
negoziatore. Quando si tennero i colloqui segreti tra Stati Uniti e Repubblica islamica nel tentativo di normalizzare i rapporti tra i due Paesi, lui era a capo della delegazione
iraniana. Conobbe allora i vertici della diplomazia e dell’intelligence statunitense, con i quali seppe creare e intrattenere rapporti cordiali e
costruttivi.
Questo accadeva ovviamente prima di altri negoziati, quelli sul nucleare, che ebbero invece un esito più nefasto per l’Iran e che una volta naufragati scatenarono quelle
sanzioni economiche che ancora strangolano il Paese. Ebbene, Rohani fece parte anche di quei negoziati, fino al giorno in cui la guida suprema del Paese, l’ayatollah Ali Khameini, decise di estrometterlo dalla delegazione iraniana giudicandolo «troppo morbido».
Ma Rohani aveva avuto modo di farsi conoscere dagli esperti di altre nazioni. Fra coloro che allora ne apprezzarono le qualità vi furono i francesi, gli stessi che ieri, appena le agenzie hanno battuto l’elezione dell’eminenza grigia Rohani, per primi hanno dichiarato che ora la soluzione diplomatica al nucleare si farà più vicina.
Già, ma perché dopo averlo allontanato dai negoziati sul nucleare, la guida suprema ha accettato la sua nomina a presidente dell’Iran? La ragione è una sola: la situazione economica è così drammatica nel Paese da mettere a rischio la sopravvivenza stessa della Repubblica islamica. Per il dopo-
Ahmadinejad serviva un uomo diverso, moderato, riformatore ma non troppo, con un ottimo curriculum istituzionale ma senza la ferina aggressività di un Rafsanjani. Serviva soprattutto un uomo di rottura che però non facesse ombra alla guida suprema Khamenei. In altre parole, serviva Hassan Rohani, il rivoluzionario che diventò prima generale, poi eminenza grigia all’ombra del potere di Teheran.

LA STAMPA
CLAUDIO GALLO
Lsorpresa sta diventando entusiasmo e tutti, dentro e fuori l’Iran, già si aspettano qualcosa dal nuovo presidente. Gli iraniani, per quanto hanno potuto, l’hanno votato per chiedere il cambiamento.
Resistendo all’ondata di ottimismo generale, rafforzata anche dall’alta partecipazione al voto che il regime si è comprensibilmente appuntata al petto come una medaglia, bisogna aggrapparsi ad alcuni punti fermi. Hassan Rohani (Rohani è il nome rivoluzionario, quello vero è Feridon), 64 anni, chierico e rivoluzionario islamico della prima ora, non è un riformista anche se ha vinto con i voti riformisti. La sua vittoria non è la rivincita dell’Onda Verde: i leader verdi Moussavi e Karroubi marciscono agli arresti domiciliari dal 2011, molti attivisti sono in galera, molti giornali sono stati chiusi e il movimento è clinicamente morto. E anche il paragone con la presidenza riformista di Khatami del 2007 è fuori luogo. Rohani è sempre stato un fedelissimo di Rafsanjani, l’ex presidente a cui il Consiglio dei guardiani ha impedito di candidarsi alle elezioni, che ha fatto a lungo parte dei massimi livelli della sicurezza dello stato, nominato dalla Guida Suprema.

Detto questo, il trionfo di Rohani è probabilmente lo scenario più interessante all’interno di un voto presidenziale costruito in modo che ogni combinazione dei dadi non fosse troppo sgradita all’ayatollah Khamenei e al Sepah, il potente apparato dei pasdaran. Di tutti i candidati, l’ex segretario del Consiglio supremo per la sicurezza era il più moderato, tanto che il riformista Mohammed Reza Aref si è ritirato dal voto all’ultimo momento per permettere che i voti riformisti e quelli di Rafsanjani convergessero su di lui.

Non bisogna dimenticare che mentre adesso i riformisti cercheranno di incassare il prezzo della loro partecipazione e i pasdaran il prezzo per non essersi immischiati, il vecchio Ahmadinejad resta in carica due mesi, un periodo in cui può ancora inventare qualche stravaganza. Certo adesso l’occidente non si troverà più davanti un tribuno dalla retorica imprevedibile, ma un leader «competente ed estremamente professionale», come ha ricordato l’ex ministro degli Esteri britannico Jack Straw che negoziò con lui quando era capo della delegazione iraniana per i colloqui sul nucleare. In quella veste Rohani fu l’unico negoziatore iraniano a siglare due accordi con gli occidentali, a Parigi nel 2003 e a Teheran nel 2004.

Durante la campagna elettorale, il nuovo presidente ha promesso di liberare i prigionieri politici e scrivere una carta dei diritti civili. Una sua frase, pronunciata durante un dibattito televisivo, in Iran è diventata un tormentone: «Non sono un colonnello, sono un giurista». Una larga parte della popolazione, specialmente nella grandi città, spera che si allenti la cappa di repressione che grava sul paesedal 2009.

Una delle prime conseguenze della sua elezione dovrebbe essere l’affondamento di Saeed Jalili, non solo come candidato presidenziale ma anche come negoziatore nucleare. Difficile dire quanto inciderà un presidente intenzionato a migliorare i rapporti con Washington su una linea di trattativa decisa direttamente dalla Guida Suprema. Un cauto ottimismo è autorizzato, anche perché il compito più difficile del prossimo governo sarà quello di risollevare l’ economia, duramente colpita dalle sanzioni internazionali, come ha riconosciuto per la prima volta poco tempo fa Khamenei.

In un sistema dove si vota la fiducia ai singoli ministri, il rapporto col parlamento sarà un test cruciale per Rohani che non ha il sostegno di nessun gruppo particolare. Il Majlis, affollato di deputati conservatori e presieduto da un altro ex negoziatore nucleare, Ali Larijani, lo aspetta al varco pronto a smussare qualsiasi slancio.

Una curiosa polemica ha sfiorato recentemente il nuovo presidente. Nonostante sia chiamato dottor Rohani, qualcuno ha messo in dubbio che abbia realmente ottenuto un dottorato in legge alla Caledonian University di Glasgow dove ha studiato prima della rivoluzione, come si dice in un film della sua campagna. L’università in effetti è nata dopo la rivoluzione del 1979, ma dagli archivi è venuto fuori che Rohani ha ottenuto il dottorato con il suo vero nome di Hassan Feridon nel 1999, un anno in cui era deputato e rappresentante di Khamenei nel Consiglio supremo per la sicurezza nazionale. Evidentemente studiava di notte.