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 2013  giugno 14 Venerdì calendario

LA CAPITALE FANTASMA


NAYPYIDAW. I generali che l’hanno tenuta a battesimo nel 2005 in una data propizia per gli astrologi, l’hanno chiamata la Città dei Re. Disegnata sui modelli di toponomastica delle dittature, ci appare via terra coi suoi tetti colorati immersi nel verde della campagna e della giungla come un insieme di ordinati condominii collegati da superstrade comode per i carri armati e quasi prive di traffico. Sormontata dalle colline del palazzo presidenziale, dei ministeri e del Parlamento, Naypyidaw sembra a un primo sguardo una città fantasma, o di fantasmi che vivono tra casa e ufficio, ognuno con addosso l’uniforme da lavoro del colore del proprio dipartimento, coi ritmi cadenzati dai tempi della burocrazia e distanze enormi tra un luogo abitato e l’altro. Ma è in questa pianura infuocata dall’assenza di alberi ombrosi, da poco ripiantati dopo il taglio per le nuove costruzioni, che s’è appena concluso il primo grande congresso internazionale della sua breve storia, il World social Forum dedicato a questa parte dell’Asia. Tranne queste parentesi di globalizzazione che sono la prova generale della effettiva apertura al mondo degli ex militari eremiti al potere, per chi ci vive resta poco spazio alle trasgressioni dalla routine.
È attorno a un boccale di birra Myanmar gelata, discosti da orecchi indiscreti, che gli uomini come Nay Win, giovane assistente ingegnere del Dipartimento Acque, tolta alle ore 17 l’uniforme bianca e azzurra, sfogano con l’ironia la loro pena di prigionieri nella Città dei Burocrati, dove sono dislocati 50 dicasteri e 100 dipartimenti con 700 mila addetti. «La nostra è una vita circolare con un triangolo strano in mezzo formato da due soli lati: casa, ufficio, casa», dice Nyo, un medico del ministero della Sanità che tiene un blog sull’alienazione della burocrazia capitolina.
Ma talvolta anche il dottor Nyo, Nay Win e – quando non bevono i suoi amici del ministero per il commercio e della sezione Tecnologie e Scienze Avanzate, al termine del lavoro vanno a godersi un’infantile evasione nei celebri Giardini delle Acque. Qui aspettano che faccia buio, quando le fontane dai getti più o meno alti e fantasmagorici si illuminano di tutti i colori, mostrando proiezioni di video musicali di successo accompagnate da spruzzate geometriche che destano la meraviglia di grandi, bambini e monaci assiepati sulle gradinate. Come il Venerabile U Lwin, che con la mini-camera del telefonino e i movimenti del corpo segue la danza veloce dei flutti vestito di un saio color zafferano. Oltre ai mercati, è forse questo l’unico posto dove si raccoglie in città, al prezzo di 200 kyatt (due centesimi di dollaro) gente comune di ogni casta della gerarchia di Naypyidaw. Infatti c’è poco altro attorno per lo svago, oltre al cinema che proietta Iron Man 3.
In una città dove con i soldi di un biglietto compri tre chili di riso decente, è troppo caro anche lo zoo, con 89 specie tra cui pinguini tenuti in una stanza con l’aria condizionata. E quasi inaccessibili alle tasche comuni sono i taxi per spostarsi fuori di casa, dai tre ai 12 dollari. Li prende chi ha perso il bus aziendale per l’ufficio o chi vuole evadere un pomeriggio dal circuito-prigione, magari in qualche grande magazzino alla moda. Supermarket e show room come Junction, il primo ma non l’ultimo concesso a privati, sono però anche luogo di «struscio» e curiosità.
Naypyidaw è la rappresentazione ideale del motto ufficiale di questa transizione militare verso la democrazia e il capitalismo: tutto cambi (una città mai esistita prima) perché nulla cambi. Tra i palazzi sparsi lungo le grandi arterie a 4,8 e 12 corsie giungono solo le eco dei conflitti nei territori ribelli come lo Stato Kachin, dalle cui miniere si estraggono le pietre preziose vendute nei saloni del palazzo delle gemme. Anche le notizie delle sanguinose faide di islamici e buddisti nell’Arakan o a Meitkila tendono a restare nascoste. Ora che molti dei vecchi capi militari del regime sono diventati civili e hanno accettato la nemica Aung San Suu Kyi nel loro Parlamento nuovo di zecca, ben poco è cambiato della rigida struttura urbana fatta di vialoni, highway e incroci deserti a perdita d’occhio attorno al Palazzo Presidenziale e alle sedi di grandi banche. Sono le distanze il vero ostacolo urbanistico all’incontro tra gli esseri umani che vivono nella nuova città, strappata alla giungla e pianificata senza motivazione apparente fin dal 2002, forse per mantenere la burocrazia e il potere vicino alle ville dei vecchi generali in pensione.
Dal 2005 a sovrintendere su spazi edificabili e servizi ai cittadini c’è il potente Comitato per lo Sviluppo di Naypyidaw, un Grande fratello che regola ogni aspetto della vita quotidiana e può’ offrire – unico caso in Birmania – assistenza sanitaria gratuita, la migliore in assoluto di tutto il Paese. La breve storia della nuova capitale narra che in quell’anno, l’11 novembre alle ore 11, si mosse scaramanticamente da Rangoon la prima truppa di 11 ministri e 11 dipendenti governativi di basso e alto rango, seguita da un convoglio di 1.100 camion militari con a bordo 11 battaglioni. I primi pionieri – costretti a trasferirsi per non perdere il posto – presero possesso con difficoltà dei palazzi vuoti e all’inizio privi perfino di corrente o dei passaggi asfaltati di accesso alle strade. A Naypyidaw la vita stenta a prendere i ritmi di una qualsiasi altra città e la presenza umana è solo parzialmente visibile, specialmente nelle ore d’ufficio e del riposo. Solo il martedì e il mercoledì – quando l’azienda mette benevolmente a disposizione pullman e camion – impiegati in gonne longyi e camicie d’ordinanza di tutti gli uffici governativi si mischiano alla folla dei semplici cittadini nei mercati.
Vivono racchiusi dentro palazzine a schiera dove scapoli come Nay Win e le ragazze nubili che i maschietti chiamano le vergini ottengono una stanza, mentre le famiglie anche 4 o 5 secondo il numero dei figli. A contrastare la natura rigogliosa che vorrebbe riprendersi il possesso della terra, sono state assoldate frotte di giardinieri-immigrati dalle province vicine. Lavorano specialmente nei tratti più vicini ai luoghi del potere e alle arterie di comunicazione tra Yangon e Mandalay, le altre grandi e vive città del nuovo asse Sud a Nord, dove Naypyidaw cerca di mantenere il dominio politico quantomeno da qui alle elezioni del 2015.
Finora i signori della nuova capitale sembrano esserci riusciti efficacemente, forti del fatto che i vecchi funzionari addestrati dai dittatori sono gli unici veri esperti di burocrazia governativa e affari. Molti come Yang Shin, arrivati tra i primi nel 2006, si sono ormai adeguati anche alla routine e preferiscono «la calma piatta del tran tran di Naypyidaw al caos del traffico e all’inquinamento di Yangon», anche se le sue figlie «si annoiano e vorrebbero tornare indietro».
Non hanno tutti i torti, considerando che questa città-guida di un popolo di 60 milioni somiglia sempre di più a una residenza estiva di uomini d’affari che a un’area urbana. È dalle 7,30 alle 9 del mattino che il grande disegno orwelliano dei generali prende la forma di file disciplinate lungo i tragitti casa-ufficio. A Naypyidaw solo i gradi superiori al direttore di dipartimento possiedono un’autista personale per andare dove vogliono, mentre gli altri aspettano sotto alla propria palazzina qualunque mezzo venga loro spedito. Se gli autobus sono tutti pieni, devono salire sui camioncini scoperti esposti al sole o alla pioggia. Lo stesso per i loro figli quando vanno a scuola e s’incrociano per un secondo col pulman di papà e mamma.
Nonostante le maggiori libertà anche per la stampa, entrare nella privacy di qualsiasi funzionario o impiegato oltre i cancelli dei loro compound circondati da cavalli di frisia, potrebbe costare il posto, così come lo perderebbe chi venisse scoperto con una prostituta in un Karaoke bar della periferia. Anche la Lega nazionale per la democrazia di Aung San Suu Kyi qui si è adeguata allo stile riservato e austero del luogo, a differenza dei caciaroni e accessibili uffici della ex capitale Rangoon. La palazzina nuova di zecca dell’Nld – e ancora di più quella «segreta» della Lady – hanno alte mura e cancelli sovrastati da filo spinato e ferri acuminati. Ben pochi a parte gli addetti possono accedere oltre le mura degli uffici governativi senza una firma del ministro responsabile. I compound dei maschi sono separati da quelli delle femmine attraverso diverse corsie di superstrada e pochi si azzardano a rompere la regola di non portare in stanza una ragazza. Ma talvolta succede. Alla fine i sentimenti si adattano alle circostanze anche nel rigido clima morale della Città dei re.
Ramondo Bultrini