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 2013  giugno 14 Venerdì calendario

Più che i Pasdaran, poterono le password. I 46 milioni d’iraniani, chiamati oggi a votare il successore di Mahmoud Ahmadinejad, il settimo presidente nella storia della Repubblica islamica, hanno già stabilito un record delle democrazie digitali: essere spiati prima ancora d’entrare al seggio

Più che i Pasdaran, poterono le password. I 46 milioni d’iraniani, chiamati oggi a votare il successore di Mahmoud Ahmadinejad, il settimo presidente nella storia della Repubblica islamica, hanno già stabilito un record delle democrazie digitali: essere spiati prima ancora d’entrare al seggio. «Clicca qui — invitava la misteriosa email firmata Google e recapitata venti giorni fa da Teheran a Bam — e migliora la sicurezza del tuo account!». Hanno smanettato, e abboccato, a decine di migliaia. Tutti finiti in una prigione virtuale, una falsa pagina del motore di ricerca, dove li aspettava una squadra di hacker per derubarli d’username e parola-chiave. Una retata nella rete, per scoprire chi vota chi: «La tempistica e la scelta degli obbiettivi fanno pensare che gli attacchi abbiano una motivazione politica collegata alle elezioni», dicono da quella silicon valley di lacrime e di sudori freddi che è diventata Mountain View, la sede di Google, di questi tempi già sulle spine del Datagate. Impossibile dimenticare i brogli 2009, che scatenarono l’Onda Verde, la repressione, gli arresti degli ultimi quattro anni: «Le truffe via Internet sono partite dall’Iran, c’è stato un balzo significativo dell’hackeraggio nella regione. E tutto questo, a quanto sembra, è collegato alle elezioni presidenziali». I Guardiani della rivoluzione, l’esperienza insegna, sono occhiuti guardoni. Anche se stavolta non si spiega tanta ansia e i secondini della più grande teocrazia del mondo, all’ennesimo bivio politico, non paiono temere sterzate: su nucleare e Siria non ci sono differenze fra i candidati, tutti decisi a difendere tanto le turbine sanzionate dall’Occidente quanto i turbanti sciiti impegnati nell’ordalia coi sunniti. «Non è stata una campagna elettorale né libera, né equa», sanziona l’Onu. E in ogni caso, dice un portavoce della Casa Bianca, è la Guida suprema ayatollah Ali Khamenei a decidere sulla Bomba, non certo il futuro presidente. Per non sbagliare, i favoriti al probabile ballottaggio del 21 giugno sono i favoriti anche di Khamenei, uno di vedute tanto larghe da non essere mai uscito dall’Iran, nemmeno negli otto anni da quando è capo dello Stato. L’ex negoziatore nucleare Said Jalili, intransigente ultraconservatore, contro il mandarino della diplomazia Ali Akbar Velayati, conservatore pure lui ma un po’ più flessibile in politica estera, contro Mohammad Qalibaf, sindaco di Teheran, conservatore afflitto però da una moglie che reclama identità. I tre possono perdere solo perché si detestano. A tal punto da aver fatto risalire le quotazioni del religioso Hassan Rohani, ultima speranza di riformisti e moderati. Rohani ce la mette tutta per acchiappare le simpatie degli under 30, la metà dell’elettorato: nel 2009 i giovani sostenevano Mir Hossein Mousavi e Mahdi Karroubi, agli arresti da due anni, oggi sono tentati dall’astensione. L’outsider s’impegna a ottenere la libertà per gli oppositori e promette «una nuova pagina» fra Iran e Usa, «anche se Obama parla in modo conciliante ma si comporta in modo molto duro, perché le sanzioni che ci ha imposto non hanno precedenti». Su Twitter, per chi può, Rohani è una star. Tutt’un cinguettare intorno all’ultimo comizio: «Emozionante», «una folla senza precedenti», «cantavamo lunga vita alle riforme!». Da domani potrebbe essere ancora Facebook, più che l’urna, a raccontare la risposta d’un Iran imbavagliato e sfiancato dalla crisi economica. Il regime teme l’onda lunga del web, dopo il voto: solo il 3% dei giornalisti stranieri è stato accreditato, e deve comunque seguire quel che le autorità impongono, la più grande agenzia del mondo (Reuters) deve scrivere da Dubai, 54 reporter iraniani restano in cella, l’accesso a Internet è bloccato, filtrato o rallentato in molte zone, spesso gli sms non arrivano a destinazione. S’è tornati al più antico dei social network, il passaparola. «Uno ogni cento», è il motto: ogni spirito libero deve convincere altri cento a votare, contro ogni pessimismo. Perché la fede, altro che Mountain View, smuove le montagne. Francesco Battistini