Sergio Romano, Corriere della Sera 14/06/2013, 14 giugno 2013
IL TERMOMETRO DI TEHERAN
Le elezioni iraniane non sono un esercizio formale, una falsa liturgia democratica. Il regime è autoritario e poliziesco, può manipolare il voto come è accaduto nelle elezioni precedenti e il suo leader supremo, l’Ayatollah Ali Khamenei, può servirsi di un «Consiglio dei guardiani» per eliminare i candidati che potrebbero mettere in discussione la sua autorità. Ma nella fase che precede il voto esistono pur sempre comizi, incontri televisivi, candidati che si contrappongono, programmi elettorali che lasciano trasparire diverse linee politiche ed economiche, dichiarazioni di notabili che esprimono pubblicamente le loro preferenze. È interessante, per esempio, che due ex presidenti poco amati dal leader supremo — Mohammed Khatami e Akbar Hashemi Rafsanjani — abbiano chiesto ai riformisti di concentrare i loro voti su Hassan Rohani, un candidato che nei suoi discorsi ha promesso di formare un governo di «speranza e prudenza». Ed è altrettanto interessante che un esponente delle Guardie rivoluzionarie abbia chiesto a tre candidati della destra fondamentalista di accordarsi per lasciare il campo a quello che ha maggiori possibilità di vittoria. In altre parole tutti ragionano e agiscono come se le elezioni fossero libere e il loro risultato potesse avere grande importanza per il modo in cui il Paese sarà governato nei prossimi anni. Nessun candidato mette in discussione la scelta nucleare, su cui il consenso nazionale è pressoché totale, ma su altri temi vi sono differenze. Dopo avere reso un necessario omaggio al nucleare, Rohani, per esempio, ha detto che il suo governo, se verrà eletto, lavorerà per «riconciliare l’Iran con il mondo».
Se i governi occidentali avessero espresso preferenze per un candidato ne avrebbero irrimediabilmente pregiudicato la sorte. Quale che sia il risultato delle elezioni, il nostro interlocutore sarà il presidente uscito dalle urne e avrà comunque sempre, dietro di sé, un’autorità più alta, un potere di ultima istanza: Ali Khamenei, subentrato nel 1989 a Ruhollah Khomeini, fondatore della Repubblica islamica. Nessuno dei due sarà un leader democratico. Ma saranno il vertice di un regime che vuole essere legittimato dalle elezioni, permette ad alcuni candidati di andare a caccia di voti e lascia così spazi di libertà che altri sistemi autoritari non permetterebbero. In questi spazi vi sono uomini e donne, studenti, professionisti, mercanti, imprenditori, chierici disponibili al dialogo, una nuova borghesia urbana che condivide la scelta nucleare, ma ha sete di libertà e ne ha dato un prova scendendo in piazza dopo le elezioni presidenziali del 2009. Questo è l’Iran con cui dovremo parlare nei prossimi anni se vogliamo fare una politica medio-orientale che non sia soltanto una litania di auspici retorici e luoghi comuni.
Parlare con l’Iran è necessario per almeno tre ragioni. È una potenza regionale, ha un capitale petrolifero che può giovare all’intera regione ed è la guida autorevole di una minoranza musulmana, gli sciiti, che attraversa il Golfo, è maggioranza in Iraq, si estende sino alla Siria e soprattutto al Libano. Non riusciremo a spegnere i fuochi della Siria senza la collaborazione dell’Iran. E non vi saranno prospettive di pace in Afghanistan se l’Iran non sarà chiamato a fare la sua parte. Qualcuno propone che il presidente degli Stati Uniti ripeta al nuovo arrivato l’offerta fatta ad Ahmadinejad all’inizio del suo primo mandato: una mano aperta. Quell’offerta fu rifiutata da un uomo che aveva l’ambizione di costituire, con Chávez e altri, una sorta di cartello anti americano. E che sulla questione nucleare non fece alcuna apertura. Ma quella mano aperta può essere ancora una buona idea.
Sergio Romano