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 2013  giugno 14 Venerdì calendario

SCHINDLER SI GIOCÒ A POKER IL “TESORO”DELLA LISTA


Chissà che carte aveva in mano, Oskar Schindler, quando al tavolo di poker mise nel piatto quell’anello d’oro, l’ultima sua ricchezza per ribaltare la serata. E chissà se chi lo vinse sapeva quel che c’era dietro il gioiello, il simbolo infinitamente più pesante del metallo prezioso: l’Olocausto, i sei milioni di ebrei passati per i camini dei lager, la riconoscenza dei sopravvissuti per chi si era ingaggiato a salvarne il più possibile.
Di sicuro, Schindler aveva avuto carte migliori negli anni della guerra, nelle serate fradice di vodka quando giocava con gli ufficiali delle SS (e ricavava informazioni preziose per la sua missione), vicino alla fabbrica che gestiva a Cracovia, quella da cui uscivano prima attrezzi per la cucina poi munizioni per gli eserciti di Hitler, ma anche quella dove esser presi a lavorare rappresentava una provvisoria sinecura per gli ebrei avviati alla deportazione: praticamente schiavi, ma ancora vivi.
La rivelazione sull’anello è comparsa nell’intervista del settimanale tedesco Focus a Michael Emge, l’ultimo superstite della celebre “Lista”.
Ma quella stupefacente perdita al gioco (l’anello portava incisa all’interno la frase del Talmud: “Chi salva anche solo una vita, salva il mondo intero”) non è semplicemente un’incongrua e isolata macchia in una biografia altrimenti senza ombre. Tutta l’esistenza di Schindler è – molto umanamente – segnata dalle contraddizioni.
Da questo punto di vista, diversi storici giudicarono alquanto edulcorato il film con cui Steven Spielberg ha consacrato Schindler e la sua “Lista”: una novella buona che omette particolari non irrilevanti e cancella personaggi che collaborarono in modo determinante alla riuscita delle operazioni di salvataggio degli ebrei avviati verso le camere a gas.

La versione della moglie. Prima ancora, tuttavia, va detto che il pedigree dell’incipiente eroe si era, in precedenza, macchiato assai. Sul piano privato, come avrebbe garantito, molti anni dopo, l’amareggiata consorte Emilie trattandolo da donnaiolo, sfruttatore e usurpatore di glorie altrui. Lei era stata abbandonata da lui e, soprattutto, non aveva preso bene il ruolo marginale cui l’aveva confinata il film di Spielberg (e, prima, la storia romanzata di Thomas Keneally da cui il regista aveva preso ispirazione): «Oskar è l’eroe, e io? Anch’io ho salvato molte persone», reclamava raccontando come, nella lontana sera delle loro nozze, il marito fosse stato arrestato perché una sua amante lo aveva accusato di aver rubato un portacenere nell’albergo dove andavano a fare all’amore. Sul piano pubblico e politico, perché una biografia pubblicata nel 2004 negli Stati Uniti (Oskar Schindler: la storia mai raccontata della sua vita a firma di David Crowe) gli addebitava non solo un’attiva partecipazione alla propaganda nazista nei Sudeti e non solo un’attività spionistica a favore della Germania nella Cecoslovacchia degli anni Trenta – fatti che già erano noti – ma anche un ruolo importante nelle provocazioni organizzate dai nazisti alla frontiera polacca nel 1939 (attacchi a cittadini tedeschi da parte di SS travestite da soldati polacchi, per esempio) che avevano giustificato, secondo Hitler, l’offensiva verso Danzica e Varsavia e, quindi, dato il via alla Seconda guerra mondiale. La parabola dell’industriale-avventuriero verso il ruolo di audacissimo salvatore di ebrei è sempre stata motivo di speculazioni.
Alla guida della fabbrica di Cracovia Schindler era arrivato sicuramente grazie alla sua militanza – o almeno ai suoi buoni rapporti – nel partito nazista. Pare che la posizione, comunque, non gli fu attribuita direttamente in seguito all’espropriazione dell’azienda in quanto di proprietà ebraica, ma in base a una redistribuzione del potere nelle manifatture polacche decisa dalle autorità di occupazione tedesche (la differenza, è vero, sta solo in qualche passaggio in più).
In ogni caso, la manodopera – a buonissimo mercato – veniva fornita dagli ebrei del vicino ghetto di Cracovia o da quelli già internati nel contiguo lager di Plaszow. È qui che matura l’imprevedibile conversione di Schindler. Alcuni l’hanno attribuita alla presunta violenza nei confronti della moglie a opera di un militare germanico durante l’invasione dei Sudeti nel 1938. L’ipotesi sembra azzardata. Più realistica appare – anche alla luce di una delle prime ricostruzioni della vicenda, quella compilata nell’immediato dopoguerra sulla base di testimonianze di prima mano da un giornalista canadese, Herbert Steinhouse, e riscoperta solo qualche anno fa – una presa di coscienza, più o meno lenta, più o meno brutale, innescata dalla visione diretta dei meccanismi con cui si stava definendo la cosiddetta “Soluzione finale”. Molto sarebbe dipeso dall’aver assistito a un raid nazista contro un ghetto ebraico nell’estate del 1942: “Dopo quel giorno nessuna persona ragionevole poteva negare quel che stava succedendo. Allora mi decisi a fare tutto quel che era in mio potere per distruggere quel sistema”, spiegò Schindler in un’intervista. Così mise in moto il rischiosissimo gioco: gli affari andavano bene, lui si arricchiva, la fabbrica si espandeva e aveva bisogno di altri ebrei a fare da operai sottopagati.

Un eroe complicato e umano. E Schindler assumeva, inserendo nei ruolini aziendali anche vecchi e bambini spacciati per baldi e validi giovanotti. Tutte persone cui veniva evitato il tragitto finale verso le camere a gas. L’apice fu raggiunto quando l’imprenditore riuscì a bloccare un intero vagone piombato con duecento esseri umani ridotti ormai a larve, reclamandoli come manodopera indispensabile a incrementare la produzione per il Führer. Con la conclusione in gloria quando ben 1.200 dipendenti riuscirono a sopravvivere fino all’arrivo dei sovietici. È la fatidica “Lista”… Eppure la biografia di Crowe sostiene che neanche quella esiste, quantomeno ce n’erano almeno nove, compilate da un poliziotto dei tedeschi doppiogiochista e, in ogni caso, Schindler non poteva esserci entrato perché in quel momento era chiuso in prigione (una delle tre volte in cui i nazisti lo arrestarono con accuse di complicità per il trafugamento di beni dovuti allo Stato: mercato nero, in sostanza). Luci e ombre, infine, anche nel dopoguerra: avventure imprenditoriali e nuovi fallimenti, nuovi tradimenti ed ennesime incursioni ai tavoli da gioco: Schindler si rifugiò in Sudamerica, poi verso il 1960 tornò in Germania dove è morto nel 1974.
La morale finale la dettò al New York Times uno dei più insigni sopravvissuti ai lager nazisti, lo scrittore Elie Wiesel, già qualche anno fa, al tempo delle prime ricostruzioni almeno apparentemente iconoclaste: «Non vengono a stravolgere la storia. La complicano soltanto. Rendono Schindler più umano, e anche più straordinario».