Guido Santevecchi, Sette 14/6/2013, 14 giugno 2013
L’ULTIMA FRONTIERA CINESE: TAROCCARE LE ARCHISTAR
Decine di gru e centinaia di operai che si danno il cambio intorno a un grande cantiere edile in Cina non sono una novità. Non è un’eccezione nemmeno che il progetto sia stato disegnato da una archistar come Zaha Hadid. Ma a Wangjing, zona a nord-est di Pechino dove sta venendo su l’ultima creatura dell’architetta anglo-irachena, la laboriosità delle maestranze appare superiore alla norma. Gli uomini sembrano quasi correre. E in realtà si tratta di una corsa: perché il progetto del Wangjing Soho, un complesso di tre grattacieli a forma di vele gonfiate dal vento avvolte da grandi fasce in alluminio che sono diventate uno dei segni classici di Hadid, è stato copiato da un gruppo di Chongqing, un’altra megalopoli nell’Ovest della Cina.
Quelli della Wangjing Soho non l’hanno presa bene. Hanno pensato di fare causa per plagio. Per difendersi, i palazzinari di Chongqing prima hanno sostenuto di non aver assolutamente copiato il progetto: «Le forme arrotondate ci sono venute in mente guardando i sassi levigati dalla corrente sulle rive dello Yangtze, con i quali è stata edificata Chongqing». Poi hanno lanciato uno slogan che è una mezza ammissione e una sfida: «Mai avuto intenzione di copiare, solo di sorpassare».
E qui sta il punto che fa più male a Zaha Hadid e alla società che le ha commissionato il lavoro: i copiatori stanno costruendo più rapidamente, potrebbero inaugurare il loro clone prima della nascita dell’originale, prevista nella tarda primavera del 2014. Questo sarebbe il significato di quella frase dei rivali di Chongqing: «... non copiare, ma sorpassare». Se succedesse, la provinciale Chongqing (che conta comunque oltre 20 milioni di abitanti), potrebbe vantarsi di avere un complesso iconico che visto dall’alto darà l’impressione di navigare a vele spiegate attraverso la superficie.
La signora Zhang Xin, proprietaria miliardaria del gruppo immobiliare Soho, ha scatenato una schiera di avvocati per ottenere giustizia. Ma il parere legale non è stato molto confortante: «La causa per plagio possiamo sicuramente vincerla, ma il giudice non ordinerà mai di tirare giù il clone». Non resta che lavorare a tappe forzate per limitare i danni.
Il caso ha riacceso il dibattito culturale su un fenomeno che ha avuto la dignità di essere identificato dal neologismo “Duplitecture”. E la Cina, così abile e spregiudicata nel replicare prodotti, dalle borsette griffate agli smartphone e ai tablet, si è lanciata con entusiasmo nella Duplicazione architettonica.
Nell’area di Shanghai c’è un quartiere con Tour Eiffel e Champ de Mars pronto per accogliere centomila abitanti e un altro chiamato Little London; vicino a Chengdu un agglomerato inglese con palazzi in stile Tudor, Georgiano e Vittoriano e cabine del telefono rosse; a Tianjin entro il 2019 sarà pronta una nuova Manhattan completa di fiume Hudson; Albert Speer, figlio dell’architetto del Terzo Reich, molto attivo in Cina, ha collocato a dimora vicino a Shanghai statue bronzee di Goethe e Schiller. Non potevano mancare Firenze e Venezia, con Battistero e Canal Grande. E che cosa c’è di meno originale che innalzare un nuovo Colosseo per piazzarci dentro un megagalattico shopping mall?
Il capolavoro di inventiva finora è la duplicazione di un villaggio delle Alpi austriache, Hallstatt, simile in tutto al modello, a eccezione delle montagne innevate: è stato piazzato nel Sud della Cina che ha clima caldo e umido. I costruttori cinesi sono semplicemente andati in Austria e hanno fotografato da tutti i lati e le prospettive Hallstatt, sito riconosciuto dall’Unesco. C’è stato un inizio di polemica da parte austriaca, finché il sindaco del villaggio non ha scoperto che un numero crescente di turisti cinesi si stava spingendo tra le sue montagne: avevano visto la copia made in China e volevano finalmente ammirare l’originale.
Rem Koolhaas, architetto olandese che ha regalato a Pechino una torre di vetro a due gambe come sede della Tv di Stato (noto come “Mutandoni”), dice che è il ritmo frenetico di costruzione nelle mega-città cinesi a imporre ai disegnatori il sistema copia-e-incolla. Koolhaas sostiene che basta un pc, un programma per photoshop e il gioco è fatto: si crea un collage architettonico.
La tradizione degli Imperatori. Satoshi Ohashi, direttore di progetto della società Zaha Hadid Architects nel cantiere dei tre grattacieli a vela di Pechino Wangjing, ha detto a Der Spiegel: «È possibile che i pirati di Chongqing abbiano messo le mani su alcuni nostri file digitali o rendering e li abbiano sviluppati, ma questa è solo simulazione di architettura».
La prestigiosa rivista Foreign Affairs non è d’accordo con la stroncatura culturale: sostiene che la “Duplitecture” non è volgare copiatura alla cinese, ma una tradizione risalente agli imperatori che, soggiogati nuovi popoli, riproducevano i loro palazzi per dimostrarsi più grandi. Le imitazioni nel campo dell’architettura e dell’ingegneria in passato non erano follie kitsch, ma monumentali affermazioni del primato cinese.
Qin Shihuang, il Primo Imperatore, ci ha lasciato l’Esercito di Terracotta commissionato nel 221 avanti Cristo, ma ai suoi tempi era famoso perché ad ogni nuova conquista ordinava la replica dei palazzi più belli del regno vinto. Quegli edifici ricostruiti nell’impero di Qin erano il segno della sua ascesa e il sovrano ci faceva vivere nobili famiglie provenienti dalle terre annesse.
Ma mentre le città del nuovo impero economico cinese (e anche i villaggi a volte) fanno a gara per dotarsi di palazzi-icona, nel cuore del potere a Pechino si fanno piani urbanistici destinati a cambiare il tessuto sociale del Paese. Il premier Li Keqiang, che è un economista, ha annunciato che nei prossimi vent’anni altri 400 milioni di cinesi dovranno venire a vivere in città. Attualmente il 52,6 per cento dei circa 1,3 miliardi di abitanti della Repubblica popolare sono cittadini, il resto è sparso nelle sterminate campagne. Secondo il governo, costruendo le necessarie infrastrutture per realizzare questa nuova ondata di urbanizzazione, si sosterrebbe l’economia e si accrescerebbe la domanda interna: alla fine della migrazione, nel 2030, il 70 per cento dei cinesi sarebbe gente di città.
Ma quanto costa convertire 400 milioni di uomini e donne alla vita cittadina? Secondo la Commissione nazionale ricerca e sviluppo che sta lavorando all’idea, circa 100 mila yuan a persona (12 mila euro). Che moltiplicato per 400 mila fa 40 trilioni di yuan, pari a quasi 6.500 miliardi di dollari. Una cifra superiore al Prodotto interno lordo annuo di ogni altro Paese del mondo, a eccezione di Stati Uniti e Cina.
Vent’anni per fare tutto questo non sono molti. E il governo deve ancora decidere se sia meglio costruire solo nuove città o allargare ancora le sue megalopoli, da Pechino a Shanghai, Chongqing, Chengdu. O ancora, accrescere le sue città “più piccole”, quelle sotto il milione di abitanti, che sono 160.
Sul fronte urbanistico, gli esperti sostengono che le metropoli ad altissima densità di abitanti funzionano meglio: la gente si muove con i mezzi pubblici; la terra edificabile costa troppo e così le fabbriche inquinanti si allontanano, sostituite da società di servizi sempre più avanzate, che a loro volta richiamano lavoratori di talento con idee brillanti da mettere al servizio della comunità. Un effetto virtuosissimo, come quello di Manhattan, che conta 18.300 residenti per chilometro quadrato. Pechino, 20 milioni di residenti, secondo le statistiche ha “solo” 7 mila abitanti per kmq nei quartieri centrali e com’è noto il traffico è un incubo, le ciminiere delle fabbriche sono tra i palazzi, la gente di talento sogna di fuggire dall’inquinamento.
La bolla immobiliare. Il premier Li Keqiang non si stanca di ripetere che il piano di urbanizzazione accelerata creerebbe uno stimolo utile anche all’Occidente: i nuovi cittadini cinesi alzerebbero il livello dei consumi interni, il sistema produttivo della Repubblica popolare sarebbe meno dipendente dalle esportazioni e infine, oltre ai 40 trilioni di yuan investiti in patria per costruire case e infrastrutture, il governo ne spenderebbe altri 10 trilioni in importazioni. Si risolverebbe così anche il problema del surplus commerciale di Pechino. Il progetto in effetti è guardato con estrema attenzione anche dall’Italia, perché dopo aver tirato su i loro palazzi, i costruttori cinesi avranno bisogno delle rifiniture, dagli infissi ai pavimenti, alle piastrelle, ai rubinetti: tutti settori in cui noi siamo leader per qualità e prezzo. E quando entreranno nelle loro case (si calcola che saranno 200 milioni di unità abitative) i 400 milioni di nuovi cittadini potrebbero scoprire che l’arredamento made in Italy è buono quanto i vestiti made in Italy.
Tutto questo, se in Cina non scoppierà prima la bolla immobiliare.