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 2013  giugno 14 Venerdì calendario

«BASTA COSTRUIRE A MACCHIA D’OLIO, RIDIAMO VITA ALLE PERIFERIE»


[Renzo Piano]

The Shard o non The Shard, grattacielo o non grattacielo, secondo Renzo Piano per dare un futuro alle nostre città, quello che conta è (ri)cominciare dalle periferie. Il grattacielo, diventa così il frammento, magari assai ingombrante, di un puzzle che vuole prima di tutto ridare dignità agli spazi urbani abbandonati e dismessi. Un puzzle che Piano conosce molto bene: «L’architetto non cambierà forse il mondo, ma deve essere in grado di materializzare al momento giusto i cambiamenti della società in cui vive. Così il buon progettista deve essere prima di tutto un sensore dei cambiamenti e, al tempo stesso, un costruttore di quegli stessi cambiamenti», spiega Piano. «Ma come accade sempre, le vere trasformazioni sono momenti di passaggio che creano ansia costruttiva nella gente, e questo è un bene, ma al tempo stesso rappresentano anche un fastidio in chi gode di privilegi acquisiti, le lobbies o gli interessi corporativi, e questo va certo molto meno bene. L’architetto, insomma, non cambierà forse il mondo, ma materializza al momento giusto i cambiamenti del mondo».
La sua sembra una risposta a chi ha parlato di una “Scheggia disabitata”?
«Anche. Perché le lobbies dei costruttori avrebbero voluto edificare in una zona più ricca, e più appetibile, di Londra. E non in una delle tante periferie in dismissione. Ma non è solo una questione di interessi corporativi: chi ha detto che il mio grattacielo è ancora vuoto, finge di non sapere che i lavori non sono ancora finiti. Lo saranno a dicembre, poi comincerà a vivere e, come è noto, la buona architettura si riconosce nel tempo. Vive con tempi lunghi».
D’altra parte, secondo Renzo Piano, la buona architettura
è fatta di tempi lunghi.
«Come i fiumi, le foreste e appunto le città. Non sono parole mie, ma del mio amico Luciano Berio. Se si è convinti, come lo sono io, che l’architettura è un’arte di mutazione, bisogna aspettarsi sempre ansie e malumori, fa parte del gioco. Quello che è essenziale è invece che l’architetto non progetti mai guardando agli indici di gradimento».
In che senso?
«Nel senso che non bisogna mai cercare l’effetto da hit parade, il palazzo che faccia parlare a tutti i costi, l’icona effimera, bensì quello che resta nell’immaginario collettivo e non nella storia della città».
Ma, mi scusi, se ci sono edifici da hit parade, se non altro, per quello che riguarda la loro altezza, questi sono certo i grattacieli.
«L’altezza è una delle tante caratteristiche dei grattacieli, ma non la sola. Quando si realizza un grattacielo si pensi anche che è un edificio che, in virtù delle nuove tecnologie, sarà in grado di avere consumi energetici ridotti. E poi, non viene in mente a nessuno quanto sia molto più devastante una megalopoli di piccole casette con giardino, una colata di cemento disseminata e dissennata? Il sogno romantico delle villette è bello, appunto, da immaginare… ma in pratica è una maledizione, almeno ecologica».
Lei, parlando delle periferie urbane, parla spesso di sostituire l’implosione all’esplosione.
«Perché rappresenta il giusto metodo da seguire. Fino agli Anni 70-80 la grande scommessa era quella del recupero dei centri storici, poi si è iniziato a costruire in lungo e in largo, senza regola, allargando a dismisura i confini urbani. Ora, la grande scommessa è come trasformare la periferia in luoghi urbani. Se non vogliamo soffocare, è arrivato il momento di far implodere le periferie, dando vita alle aree dismesse, fabbriche o caserme che siano, senza cementificare nuove aree. Non bisogna più costruire a macchia d’olio, ma piuttosto completare il tessuto urbano nelle sue parti mancanti o poco vissute. Trasformare quelli che gli inglesi chiamano brownfields in greenfields».
Un cambiamento, dunque, dall’interno.
«Un cambiamento vero. Come molti di quelli a cui posso dire d’aver partecipato attivamente: il Beaubourg e la cultura, Berlino dopo la Guerra fredda, San Francisco e il primo edificio Usa senza aria condizionata. Fino a quelli in corso d’opera: a Londra, una torre che sfida la City al di là del fiume, nella zona povera; a New York, il Campus della Columbia University ad Harlem, anche quello un quartiere che sta trasformandosi implodendo; a Parigi, il Grande Tribunale innestato nella banlieue Nord Orientale, un’altra periferia in mutazione. Progetti che coivolgono i brownfields, in cerca di nuove dimensioni. Come nei progetti per il Polo scientifico nell’ex Michelin di Trento o per l’ex area Falck di Sesto San Giovanni».
Periferie è spesso anche sinonimo di degrado affettivo.
«Succede quando si tratta di quartieri dormitorio, dove si va solo per dormire, mentre il resto della vita scorre fuori. Completarle vuol dire prima di tutto credere che in quelle periferie finisca per accadere qualcosa, che gli anziani possano essere utili, e i giovani motivati. Come fare? Riempiendo gli spazi abbandonati, mescolando attività e classi sociali, facendo investire i privati nella creazione di teatri o ospedali».
E in grattacieli come The Shard?
«Appunto. Non si tratta solo di una sfida tecnologica. Là non ci sono praticamente parcheggi per automobili privati perché bisogna abituarsi a usare i mezzi pubblici; ci sono aree comuni vivibili perché, grazie alle stazioni metro, ferroviarie e bus, ci si dovrà passare e incontrare. Perché sarà bello poter scoprire, in cima allo Shard, quanto la città possa essere bella dalla parte delle periferie».