Alberto D’argenzio, L’Espresso 14/6/2013, 14 giugno 2013
AMERICAN BARATTO
Sul piatto ci sono miliardi e miliardi di euro. Import, export, investimenti, tutto grasso che cola in quest’epoca di vacche magre. Sul piatto ci sono anche la nostra cultura, la nostra privacy, i diritti sociali e ambientali, la qualità di ciò che mangiamo e delle medicine che usiamo per curarci. Il piatto è quello del Ttip (Transatlantic Trade and Investment Partnership), in altre parole il nuovo Accordo commerciale Ue-Usa che i ministri del Commercio dei 27 devono mettere in rampa di lancio venerdì 14 giugno in Lussemburgo.
Nel Granducato dovrà essere definito il mandato negoziale da dare alla Commissione Ue per iniziare a trattare con Washington. La Francia è però salita sulle barricate: minaccia il veto sulla cultura. Pretende, sostenuta - con decisione ma con meno furore - da altri 13 paesi, tra cui Italia, Spagna, Germania e Polonia, che i contenuti culturali e audiovisivi, anche quelli distribuiti online, siano esclusi dall’accordo. Con questi paesi è schierato anche il Parlamento europeo. I 14 governi e Strasburgo temono di vedere la propria industria soccombere di fronte alla potenza di fuoco di quella a stelle e strisce. Si mobilitano anche artisti e registi: Almodóvar, Costa Gavras, Haneke e Kaurismaki scendono in campo, a Cannes e a Strasburgo. Sull’altro fronte la Gran Bretagna, gli scandinavi e la Commissione non vogliono invece creare eccezioni in partenza. «In gioco - spiega Silvia Costa, eurodeputata Pd - c’è il futuro dell’industria europea del settore, ma non solo: se non escludiamo la cultura vorrà dire che andremo a negoziare a mani nude, finendo per farci omologare dagli Usa». «L’esclusione non è necessaria e nemmeno legittima», ribatte il commissario Ue al Commercio, il belga Karel De Gucht.
De Gucht, non è un mistero, spinge con forza per ricevere un mandato il più ampio possibile, in sostanza per avere carta bianca per discutere su tutto, temendo che i paletti fissati in partenza dagli europei nella cultura portino gli statunitensi ad alzare steccati in altri settori, come quello dei servizi finanziari. Per avere carta bianca De Gucht snocciola numeri, parla di un’intesa che potrà portarci a pieno regime «uno 0,5 per cento di Pil comunitario in più all’anno». Circa 90 miliardi di euro d’ossigeno, che però arriveranno nel 2027, non certo per salvarci da questa crisi.
Secondo uno studio commissionato dalla Commissione Ue al Centre for Economic Policy Research (Cepr) di Londra, con un accordo «ampio e ambizioso» le esportazioni Ue verso gli Usa decolleranno del 28 per cento, che in euro fa 128 miliardi in più all’anno. Quanto al Pil, si parla di 119 miliardi all’anno per la Ue e 95 per gli Usa. Nella sua smania di precisione e di promozione Bruxelles è arrivata a fare i conti in tasca a una famiglia europea di 4 persone: il Ttip darà loro 545 euro in più all’anno. «La Commissione ha presentato un quadro molto preciso, ma i benefici sono difficili da definire», spiega Jaques Pelkmans, esperto di commercio internazionale per il Ceps, Centre for European Policy Studies.
In questo nuovo negoziato non si tratta di abbattere tariffe, perché quelle sono già ai minimi tra i due lati dell’Atlantico, ma di eliminare le cosiddette barriere non tariffarie, ossia di far convergere diversi tipi di standard e di regolamentazioni nel maggior numero di settori: dalle norme sulla sicurezza delle auto a quelle per il riconoscimento di medicinali e prodotti chimici. E se i regolamenti non arriveranno a omologarsi, allora - chiede Emanuel Adam, consigliere politico al Transatlantic Business Council, potente forum di industrie e società del vecchio e nuovo continente - «bisognerà trovare delle soluzioni per accettare automaticamente le norme dell’altro», secondo un principio di reciprocità. In sostanza recependo gli standard statunitensi in deroga alle direttive comunitarie. In entrambi i casi l’obiettivo è chiaro: abbattere i costi e i tempi della burocrazia, semplificando il commercio e integrando ancor più la prima area commerciale del pianeta.
Secondo gli studi della Commissione, ma anche del governo tedesco, il grande beneficiario di questa nuova intesa sarà l’auto europea, settore in crisi (anche se non dappertutto), tra vendite in diminuzione e capacità produttiva sovradimensionata. Grazie a omologazione, semplificazione e riconoscimento reciproco degli standard di sicurezza, ambientali e produttivi, il mercato delle quattro ruote, assicura Bruxelles, è destinato a impennarsi: più 149 per cento delle esportazioni dall’Europa verso il Nord America e un più 42 per cento delle esportazioni Ue verso il resto del mondo.
Uno degli argomenti forti di chi vuole l’accordo è proprio quello dell’effetto volano di un’intesa Ue-Usa su tutto il loro commercio mondiale. La tesi è semplice: armonizzando il maggior mercato del globo anche le altre potenze planetarie, a partire dai temuti Bric, verranno spinte ad allinearsi sugli standard transatlantici, facilitando le esportazioni nel mondo di chi è al centro di questo sistema. Gli scambi tra i 27 e Washington rappresentano ancora il 40 per cento di quelli globali.
Oltre all’auto, sorriderebbero il metallo (più 12 per cento di export), la chimica, le medicine e la tavola (più 9 per cento). «Per l’agroalimentare si aprono spazi commerciali eccezionali, in particolare per l’Italia», riflette Paolo De Castro, presidente della Commissione agricoltura del Parlamento Ue. «In Europa noi siamo tra coloro che avranno più vantaggi e meno svantaggi, grazie ai nostri prodotti ad alto valore aggiunto, vino, olio, insaccati, formaggi». Ma non son tutte rose: agricoltura, chimica e farmaceutica sono tre settori "caldi" del negoziato, quelli che rischiano di mandarlo a monte.
Il Ttip è un’intesa commerciale, la più importante del pianeta, dietro la quale si confrontano due modelli: «In Europa vige la cultura basata sul principio di precauzione, negli Usa è diverso, si può mettere un prodotto nel mercato e poi, se si vede che è pericoloso, lo si toglie», riassume Adam. Due approcci con conseguenze importanti. Per esempio, nella Ue solo l’1 per cento dei campi sono coltivati a Ogm, negli Usa il 94 per cento del cotone, il 93 della soia e l’88 di mais è modificato geneticamente. Stesso discorso per il pollo al cloro e la carne clonata, banditi da noi (il pollo ancora non per molto), ma accettati dai supermercati Ue. Viceversa i nostri insaccati sono bloccati ai confini statunitensi e ci sono molti problemi per la frutta.
Problemi anche nella chimica. L’Acc, l’American Chemistry Council, vuole la cancellazione del Reach, il regolamento comunitario sulla registrazione, la valutazione e l’autorizzazione delle sostanze chimiche, che impone severi requisiti per immettere qualsiasi sostanza nel mercato europeo. È da anni che d’Oltreoceano tentano di abbatterlo, ora l’Acc ci prova di nuovo sfruttando proprio il Ttip e giocando di sponda con diverse imprese europee. «La lobby transatlantica della chimica è già scesa in campo, è la più attiva assieme a quella delle auto, della finanza e della farmaceutica», spiega una fonte comunitaria.
«Chimica, ambiente, medicine, cibo: gli standard europei sono più alti, con questa intesa si rischia di abbassarli tutti», si lamenta David Hammerstein, consigliere politico del Tacd, l’associazione transatlantica dei consumatori. Stessa sorte, temono i sindacati, per i diritti sociali, visto che gli Usa, al pari della Cina, hanno ratificato solo due norme base su otto della Oil, l’Organizzazione internazionale del lavoro.
Altro punto critico la privacy, un nodo esploso con lo scandalo Fbi-Nsa e che riguarda non solo l’accesso ai nostri dati personali da parte dell’intelligence ma anche quello dei provider di servizi, tutti a stelle e strisce, per motivi commerciali. Stesso discorso per la neutralità di Internet: l’accordo Acta bloccato pochi mesi fa dal Parlamento Ue limitava la libertà della rete, ora quei principi riaffiorano nel Ttip. Suona l’allarme per la società civile, che inizia a mobilitarsi. Intanto il Parlamento Ue pretende trasparenza - 600 imprese hanno accesso ai dossier, ma non gli eurodeputati - in attesa che, Francia permettendo, i negoziati partano. A fine luglio.