Gianluca Di Feo, L’Espresso 14/6/2013, 14 giugno 2013
SE L’ITALIA NON C’ENTRA, ALLORA INTERVENGA COLLOQUIO CON STEFANO RODOTÀ
«Il Datagate è un momento di svolta. Dimostra come la minaccia di un controllo globale indiscriminato sia diventata evidente. E non bisogna credere che riguardi solo i cittadini statunitensi: siamo tutti coinvolti. Ora saranno le reazioni della Commissione europea e dei singoli governi a indicare il livello di complicità con gli orientamenti dell’amministrazione americana». Stefano Rodotà lo aveva previsto già dieci giorni dopo l’11 settembre 2001: «Adesso la privacy ha un nuovo nemico: la paura». Come responsabile dell’Autorità nazionale e come presidente dei garanti europei in quei mesi si è battuto per evitare che si arrivasse al Grande Fratello planetario. «Il conflitto specifico tra Europa e Usa è cominciato con la richiesta di consegnare tutte le informazioni sui biglietti aerei. Ma gli Stati Uniti non davano garanzie sulla gestione: ad esempio i dati trasmessi ad un’agenzia poi venivano ceduti ad altre agenzie. Mentre il Parlamento europeo ha dato una collaborazione eccellente ai garanti sul tema della privacy, a mio giudizio la Commissione Ue invece era stata ed è estremamente debole di fronte alle richieste degli americani. In molte situazioni la Commissione era tutto sommato più dalla parte degli Stati Uniti che non dell’Europa. Adesso comincia a emergere che la Commissione aveva notizie su questo scandalo. E ci sono state diverse interrogazioni parlamentari a cui non è stata data risposta o è stato replicato che non si sapeva nulla o che gli allarmi erano ingiustificati».
La Commissione in quegli anni era presieduta da Romano Prodi. Perché questa arrendevolezza?
«La Commissione non ha fatto la sua parte per difendere le persone che vivono in Europa. Nell’Unione la privacy viene garantita a chiunque si trova sul territorio e non solo ai cittadini, come accade negli Stati Uniti. Ma anche alcuni paesi europei usano, forse in maniera non massiccia come negli Usa, forme di sorveglianza. E quindi c’è questo tipo di reticenza perché si devono coprire anche membri dell’Ue. Questo divenne assolutamente evidente con le rivelazioni sul sistema di spionaggio Echelon che coinvolgeva la Gran Bretagna. La possibilità di un lavoro di conoscenza e di contrasto era reso più difficile dal fatto che c’era non solo una complicità, ma la partecipazione istituzionale di governi europei».
In questi giorni stanno emergendo indiscrezioni sulla cessione di dati anche da parte di governi ed aziende europee. Crede che l’Italia sia coinvolta?
«Io non ho elementi per poterlo dire. Ma faccio questo invito a un’esplicita presa di posizione: un governo che prende nettamente posizione mette in evidenza che il suo paese non ha collaborato con gli Usa nelle forme che so benissimo molti sostengono ci siano state, come la cessione di tabulati telefonici. Serve molta chiarezza da parte dei governi».
Il governo italiano sembra avere ignorato la questione.
«Finora la reazione dei governi europei è stata debolissima. Ho letto che la Merkel si prepara a chiedere spiegazioni a Obama e che lo farà anche il commissario Ue alla Giustizia Viviane Reading. Sarebbe grave considerare il Datagate come un problema degli americani. Sulla Rete c’è una reale rivolta perché tutti scrivono: non siamo spettatori di una vicenda statunitense, ma siamo sottoposti a questo tipo di potere, che si impadronisce delle persone attraverso il controllo delle informazioni».
Lei ha sempre detto che il controllo indiscriminato dei dati è la premessa a forme di totalitarismo. E sta già provocando una mutazione sociale.
«Adesso c’è un elemento di realtà con cui fare i conti, il modo in cui verrà affrontato determinerà il rapporto tra persone e istituzioni negli anni a venire. Si può accettare la logica sottolineata dalle multinazionali del Web, in particolare Google e Facebook, che dicono: “Non fatevi illusioni, la privacy è finita. Ed è finita anche come regola sociale”? Dietro c’è una finalità commerciale, quando Mark Zuckerberg lo sostiene in pratica dice: “I dati che noi raccogliamo sui di voi sono nostri e ne facciamo quello che vogliamo”. Adesso si scopre, ed è la scoperta dell’acqua calda perché tutti lo sapevano, che questi dati sono stati messi a disposizione di agenzie governative per la sorveglianza. E ciò rende la questione rilevantissima dal punto di vista politico e sociale. Le reazioni in tutto il mondo dimostrano che alla gente la privacy interessa. Non si può sottovalutare quello che sta accadendo, sarebbe pericoloso: rischiamo di sottovalutare una deriva autoritaria».
Lei ha teorizzato la necessità di un “habeas data”: l’impegno dei governi a non mettere le mani sul “corpo elettronico, quello formato dai dati personali, così come si è stabilito di non violare il corpo fisico”.
«Già nel 2000 con la “Carta di Venezia” i garanti di tutto il mondo posero il problema della necessità di affrontare una materia diventata planetaria con regole comuni. Oggi una serie di garanzie esistenti nelle direttive Ue dovrebbero essere sottolineate con forza: abbiamo un quadro che ci consente di reagire a vicende come il Datagate. E c’è un nuovo regolamento europeo che potrebbe offrire un contesto più ricco ma è bloccato al Parlamento Ue da oltre tremila emendamenti, in gran parte frutto della pressione delle aziende americane. Che temono anche che vengano introdotte regole processuali per giudicare le violazioni della privacy nelle corti europee, mentre oggi bisogna rivolgersi alle istituzioni statunitensi perché i server sono lì».