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 2013  giugno 13 Giovedì calendario

IO DIFENDEVO L’AMERICA, OBAMA LA INDEBOLISCE

I’uomo che un tempo aveva catturato l’attenzione dei reporter parlando di «conoscenze conosciute» e «ignoranze sconosciute» attacca il presidente Barack Obama per aver tracciato una linea rossa sull’utilizzo delle armi chimiche in Siria e per non essere stato poi in grado di prendere una posizione quando, secondo una notizia diffusa dalla Cla, il presidente siriano Bashar al-Assad aveva utilizzato gas sarin contro il proprio popolo. «È un grande errore, ciò che mi preoccupa maggiormente è la debolezza dell’America e il fatto che la gente percepisca questa debolezza» afferma Rumsfeld. «Durante la mia vita abbiamo contribuito a costruire una specie di gabbia con i nostri alleati nel mondo, dissuadendo cosi le persone dal compiere certe azioni».
Ormai ottantenne, il sommo combattente di Washington, che è stato il più giovane segretario della Difesa con il presidente Gerald Ford nel 1975 e il più anziano a ricoprire lo stesso ruolo con George W. Bush nel 2001, adesso scrive libri. È evidentemente contento di muovere critiche da bordo campo. La sua ultima opera si intitola Rumsfeld’s Rules (Le regole di Rumsfeld) ed è una raccolta di osservazioni e consigli che, secondo lui, potrebbero insegnare qualcosa a Obama.
«Finché ritrattiamo, facciamo promesse che poi non manteniamo, intraprendiamo azioni che vengono avvertite come deboli o gestiamo la nostra economia rimodellandola sulla base di sistemi economici falliti, la gente si sente più libera di compiere certi gesti e riempire quel vuoto di potere» afferma. E quel vuoto sarà riempito da «persone che hanno valori diversi dai nostri e da quelli dei nostri alleati. Questo non è positivo per il mondo perché lo rende più pericoloso e meno stabile. E credo che a ciò contribuisca anche il fatto di tracciare una linea rossa e non considerarla tale».
Il riferimento è ai fatti di Bengasi, in Libia, dove l’11 settembre 2012 durante un attacco all’ambasciata statunitense vennero uccisi l’ambasciatore Christopher Stevens e tre funzionali americani. Lì, sostiene Rumsfeld, «trovano applicazione numerose regole». Il presidente Obama, per esempio, non avrebbe mai dovuto insistere nell’affermare che l’assassinio di Stevens fosse dovuto allo sdegno provocato da un video anti Islam, quando invece in realtà fu un attacco coordinato da terroristi legati ad Al Qaeda. «E gli Stati Uniti non avrebbero mai dovuto occupare l’edificio annesso al consolato di Bengasi se non avevano intenzione di difenderlo. Se ricordo bene, i britannici si erano ritirati avvertendo che non sarebbe stato possibile difenderlo. Loro però li hanno lasciati lì dentro. È stato uno sbaglio enorme».
Questo porta Rumsfeld a enunciare la sua «regola n. 1»: «L’insabbiamento è sempre peggio dell’evento stesso» afferma con sicurezza. E dopo che Obama (con l’accusa di aver fatto mettere sotto controllo le comunicazioni di alcuni giornalisti dell’Associated Press) è stato paragonato a Richard Nixon, il più disonesto dei presidenti degli Stati Uniti, l’impiego da parte di Rumsfeld di quel vecchio detto sul Watergate si è rivelato particolarmente acuto.
«In questa città insabbiare qualcosa è sempre peggio di ciò che è successo, generalmente perché diventa una ragnatela ingarbugliata, e più si va avanti, più le audizioni proseguono e più informazioni vengono allo scoperto». Inoltre, è la tesi di Rurnsfeld, «gli argomenti di comodo mancano di integrità e conducono inevitabilmente a fare passi falsi». Per esempio, è stato molto comodo incolpare un video per l’attacco di Bengasi anziché Al Qaeda, che Obama aveva affermato di aver distrutto. «Ma dal momento che l’attacco fu sferrato l’il settembre, proprio nell’anniversario dell’attentato alle Torri gemelle, tutti quelli che si trovavano sul posto sapevano qual era la vera causa e il tentativo di raccontare la versione dei fatti che probabilmente faceva più comodo è stato ancora più deplorevole».
Un sorriso si allarga sul volto di Rumsfeld (in questi giorni ride spesso) mentre riflette sulle difficoltà che la mancanza di azione può causare ai presidenti democratici. «Penso al presidente Bill Clinton e alla sua decisione di non intervenire durante il genocidio in Ruanda. Si è sempre rammaricato del fatto che tutto questo fosse accaduto durante il suo mandato. E posso immaginare che questa amministrazione proverà sensazioni analoghe riguardo alla Siria».
Mentre parla nella sala conferenze all’interno del suo ufficio, nel centro di Washington, l’ex segretario della Difesa cita un’altra delle regole che portano il suo nome. «La strada non percorsa è sempre la più facile» afferma solennemente. Significa che il non agire si paga sempre a caro prezzo. Rumsfeld è particolarmente soddisfatto di questa massima che, secondo lui, si adatta perfettamente sia alla guerra in Iraq, sia alla Siria di oggi. Se Saddam Hussein non fosse stato deposto, sostiene, la situazione avrebbe potuto prendere una piega ben peggiore, proprio come deporre Bashar al-Assad non sarebbe stato certo peggio di consentirgli di massacrare il suo popolo, usare armi chimiche e minacciare di gettare il Medio Oriente in un conflitto regionale.
I lanci dei libri di Rumsfeld sono sempre pianificati con quel tipo di precisione e completezza che si sarebbe sperato di veder utilizzare dal dipartimento della Difesa da lui guidato nel piano postbellico nel 2003.11 suo memoriale Known and Unknown (Cose conosciute e sconosciute) è diventato un bestseller. E Rumsfeld’s Rules gli ha fatto incassare 1 milione di dollari ancora prima dell’uscita. Ma nemmeno la pianificazione più precisa avrebbe potuto prevedere che il nuovo volume di Rumsfeld uscisse in un periodo difficile per la presidenza Obama.
Essendo stato presente alla Casa Bianca sia ai tempi del Watergate sia all’epoca di Geraid Ford e di George W. Bush, Rumsfeld ha visto più di un presidente sommerso da problemi. Quindi è stato felice di dispensare consigli gratuiti a Obama, che è nel ciclone per aver consentito all’internai revenue office, il fisco degli Stati Uniti, di effettuare controlli su alcuni gruppi conservatori; per aver consentito al dipartimento della Giustizia di svolgere intercettazioni sui telefoni di alcuni giornalisti e al dipartimento di Stato di distorcere i rapporti dell’intelligence sull’attentato avvenuto in Libia.
«Quando ero un pilota della marina militare» racconta Rumsfeld «sul manuale di volo era riportata questa frase: “Se ti perdi, sali, risparmia e confessati”, cioè guadagna un po’ di quota, fa’ un respiro profondo, conserva il carburante in modo da resistere il più possibile e poi accendi la radio e pronuncia queste parole: “Mi sono perso”». Ma Obama, invece di ammettere di essere in difficoltà, sta venendo meno alle sue responsabilità. Rumsfeld, con tono magnanimo, ammette che tutti possono commettere errori. Ma mentre quelli di Obama sono «errori enormi», «troppo gravi», i suoi sono irrilevanti, però istruttivi.
Di fronte alla contestazione che anche l’assenza di armi di distruzione di massa in Iraq ha rappresentato un grosso errore Rumsfeld non si scompone. E cita un rapporto in 29 punti contenuto nel suo sito Rumsfeld. com. Il punto 13 riporta quanto segue: «Gli Stati Uniti potrebbero non riuscire a trovare armi di distruzione di massa in Iraq e risultare quindi poco credibili agli occhi del mondo». Conserva anche un appunto scritto a mano che consegnò a un membro senior della Cia che aveva informato George W. Bush sulle armi di distruzione di massa, in cui si legge: «Attenzione — questione importante, ma... potrebbe essere sbagliata».
Rumsfeld ammette di non aver seguito, in quel caso, la propria regola che prevede di affermare «non lo so», insistendo invece in tv nel dire che «sapeva» che Saddam aveva armi di distruzione di massa. E non è stata Punica regola infranta: per esempio, non ha seguito quella che dice di avere non più di 10 regole. «Quante ne ho?» chiede; «380» risponde impassibile un assistente. «Il che è imbarazzante», sorride Rumsfeld. In realtà si diverte troppo per provare imbarazzo per qualcosa.