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 2013  giugno 14 Venerdì calendario

EUTANASIA NAZISTA, UN ELENCO DELLE VITTIME?

Tra gli storici tedeschi contempora­nei Götz Aly è tra i più ispirati e o­riginali. I suoi lavori (dedicati principalmente all’epoca nazionalsocia­­lista) sono costruiti su domande precise, spesso nuove, la sua è una lingua per­suasiva, le sue posizioni chiare, e di tan­to in tanto non mancano polemica e provocazione, in particolare nei con­fronti degli storici dell’accademia. An­che il suo ultimo libro ( Gli oppressi. ’Eu­tanasia’ 1933-1945, una storia della so­cietà, edito da S. Fischer), dedicato al­l’eutanasia cui furono costrette circa 200.000 persone dalla vita ritenuta ’in­degna’ durante il dodicennio nazista, nonostante qualche limite, non delude le attese. Il volume raccoglie saggi brevi pubblicati nel tempo in varie circostan­ze e qui riformulati e integrati. Aly iniziò infatti a dedicarsi al tema più di trent’anni fa e a con­durvelo fu la figlia Karline, colpita poco dopo la nasci­ta da streptococco. Ne se­guirono danni permanenti ed è a lei che lo storico te­desco ha voluto dedicare questo libro. Ma a Karline sono legati anche alcuni e­pisodi bizzarri che Aly ha voluto raccontare nel libro, tanto per far capire quale fosse l’atmo­sfera nella Germania occidentale degli anni Ottanta. A diagnosticare sua figlia, nata nel 1979, fu infatti il pediatra Gott­fried Bonell, che ora Aly cita nella ricer­ca, in quanto primario della clinica uni­versitaria pediatrica di Heidelberg negli anni dell’“eutanasia dei bambini”: «La visitò dimostrando una grande cordia­lità », ammette lo storico pensando a Karline, «e si dimostrò deciso propugna­tore di un elevato contributo economico per garantire l’assistenza a chi non sia autosufficiente». Del resto Aly ricorda un paio di casi di eutanasia che riguar­darono la sua famiglia e che solo di re­cente gli sono stati svelati.
Il primo, importante pregio di questo la­voro è evidente nel primo capitolo (“Eu­tanasia, l’idea di un mondo secolarizza­to”), dove lo storico ricorda come il tema della morte provocata sia stato oggetto di dibattito nel contesto me­dico tedesco molto prima che i nazisti arrivassero al potere. «Il medico può ucci­dere? », si chiedevano i neu­rologi della Sassonia nel 1922. Poco prima era appar­so infatti un manifesto ope­ra di Alfred Hoche, psi­chiatra, e Karl Binding, penalista, eruditi mol­to stimati, dal titolo Il permesso di annientare una vita indegna: in che misura e in che for­ma.
E dall’analisi del dibattito degli anni Venti Aly arriva ad una conclusione che ri­manda anche ai nostri tempi: «A promuovere l’eutanasia, la morte “più umana”o la solu­zione “dolce” furono in quegli anni personalità politicamente attive anche contro la pena di morte, a favore del­l’aborto, per la difesa dei diritti delle donne, per il divorzio, in­somma si trattava di persone che si bat­tevano per una società con forme di vita più libere». «Quegli stessi – aggiunge Aly – si trovarono spesso a proporre la steri­lizzazione degli uomini con handicap».
Insomma, ciò che in seguito avrebbero realizzato con sistematicità i nazisti era in nuce negli ambienti intellettuali più libertari della società weimeriana.
Al centro del libro sono le vittime, e in­fatti non mancano loro testimonianze e testi commoventi scritti da loro familia­ri. A questo proposito Aly suggerisce la creazione di un registro con tutti i nomi di coloro che persero la vita a causa del piano eugenetico nazista. Le storie sono quelle di famiglie messe sotto pressione dalla propaganda del regime, impaurite; famiglie che si vergo­gnavano dei loro mem­bri ammalati, fino a sperare di potersene li­berare. Ma anche fami­glie fatte di persone co­raggiose che non si la­sciarono condurre sui quei piani criminali e che non abbandonaro­no i loro cari, tanto da lottare energicamente, e nella maggior parte dei casi con successo, per la loro sopravviven­za. Quando i parenti si mantenevano in con­tatto con i ricoverati, argomenta Aly, le pos­sibilità che quelli re­stassero in vita aumen­tavano. Le proteste contro l’interna­mento avevano spesso conseguenze po­sitive. Troppo spesso, lamenta lo storico, la famiglia si rassegnava all’interruzione del rapporto con il proprio caro, e que­sto significava praticamente la sua con­danna a morte.