Roberto Giardina, ItaliaOggi 14/6/2013, 14 giugno 2013
PROFESSORESSE ANCHE SE MASCHI
Alla scuola di giornalismo Walter Tobagi di Milano terranno un corso straordinario di otto ore sugli «errori di genere». Si dice il ministro o la ministra? La Fornero si arrabbia molto per come la chiamano. Anche sul mio «la» non è d’accordo. Il problema è serio, non voglio fare dell’ironia, ma non andrebbe affrontato con piglio fondamentalista.
All’università di Lipsia il senato accademico ha deciso nei giorni scorsi che ci si dovrà rivolgere ai docenti con un Professorin, professoressa, sia agli uomini che alle donne.
La proposta è partita da un docente di fisica che, dopo, si è dichiarato sorpreso: non pensava di essere preso sul serio. La decisione, per la cronaca, è stata approvata anche dagli uomini, non so se per convinzione o quieto vivere. Andare contro corrente è pericoloso. Quindi, da ora in poi sarà Herr Professorin, signor professoressa. «In» nella lingua tedesca è il suffisso femminile: Kanzler, cancelliere, per Helmut Kohl; Kanzlerin, cancelliera, per la signora Merkel, che non sogna neanche di risentirsi. Per Angela non sono queste le battaglie per cui valga la pena di battersi. Lei si è fatta da sola in una società maschilista, prima nella scomparsa Ddr, poi nel partito cristianodemocratico. È comprensibile che sia contro le quote rosa: le donne, ritiene, non vanno promosse per una questione di genere.
Se fossi a Milano, al corso ci andrei. Sono sicuro che mi sarebbe utile, anche se l’invito è scritto in un italiano pieno di orrori linguistici. Per cominciare, si cita appunto Frau Merkel, ma Kanzlerin va scritto in maiuscolo, come tutti i sostantivi in tedesco. È una regoletta che alla scuola di giornalismo si dovrebbe conoscere, anche se si ignora la lingua di Goethe. Poi si passa a un «approccio» che non sarà teorico, a un «supportati», per finire con un «opzionare l’iscrizione». Per fortuna non c’è «posizionare», che si trova quasi sempre, e ha invaso il tedesco (posizioniren). Se avessi scritto così, quando ero redattore, il mio direttore Giulio De Benedetti mi avrebbe licenziato. Allora si poteva e, sia pure di rado, avveniva.
Il successore Alberto Ronchey aveva il debole per le lingue, e inseriva nei suoi articoli perfino termini in russo. Erano comunque chiari. Pretendeva che i redattori usassero il genere della lingua originale. Non si scrive il Volga, mi disse un giorno, ma la Volga, perché il fiume in russo è femminile. Aveva ragione; però, allora, le agenzie si correggevano a mano, non c’era computer e non si aveva il tempo di respirare fino alla chiusura. «Allora dovremmo scrivere la Belgio, la Belgique», ribattei. Non mi giocai la carriera, perché Ronchey era un giovane direttore, oltre che bravo, e sapeva comprendere le arroganze dei giovanissimi.
Cerco sempre di seguire la sua lezione: scrivo la Süddeutsche Zeitung, perché Zeitung è femminile. Però, se si pensa a giornale in italiano, si potrebbe scrivere «il». Non ci sono regole. Come rendere Mädchen, ragazza, che in tedesco è neutro? Potrei spiegare il perché, ma sarebbe troppo lungo.
Gli orrori di genere sono altri, come fa notare il comunicato della scuola Tobagi. Perché ogni omicidio in cui è coinvolta una donna, vittima o colpevole, diventa un delitto passionale? Che dire del terrificante femminicidio? E perché quando rimane vittima di uno scippo, o di una violenza, qualunque turista si trasforma in «tedeschina» o «olandesina», anche se è una campionessa di canottaggio alta un metro e 90? All’università di Lipsia le studentesse (Studentinnen) sono il 60 per cento, ma le professoresse sono il 40 per cento. E solo quattro imprese su cento hanno una donna in direzione. Universität e Industrie sono femminili, ma sempre regni maschili. E questo in una Germania guidata da otto anni da una signora.