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 2013  giugno 13 Giovedì calendario

LA TV PUBBLICA VALE 1 MILIARDO IN MENO

Nell’ultimo anno la Rai è stata meno amata dagli italiani, che nella giornata media hanno spento il telecomando facendo perdere ascolti in ogni ora del giorno a tutte e tre le reti tradizionali. Vale dunque meno dell’anno prima. Ma costa di più alle tasche degli italiani. Nel 2011 avevano pagato per vedere la tv pubblica 1 miliardo e 708,4 milioni di euro di canone. Nel 2012 1 miliardo e 747,8 milioni di euro di canone: 39,4 milioni di euro in più. In gran parte perché il canone è aumentato, per il resto perché grazie a sistemi come quelli ben noti di Equitalia, chi quel canone non pagava è stato qua e là pizzicato trovandosi di fronte un conto salato. Costa di più alle tasche dei cittadini proprio nell’anno in cui queste erano state ampiamente svuotate da Dracula-Monti. Siccome il 2012 era l’anno degli Enrico Bondi, della spending review, in Rai il governo dei tecnici ha inviato un manager privato dal curriculum con i fiocchi: Luigi Gubitosi, protagonista nel mondo della telefonia del successo di Wind. Arrivò a luglio dell’anno scorso in quella Rai che già stava costando di più alle tasche degli italiani e che stava scendendo negli ascolti. In quel clima ci si sarebbe immaginati un gran sferruzzare di forbici, tagli draconiani e spese generali in grado di scendere almeno quanto quelle entrate che andavano a picco. Invece non è andata così. Fra pochi giorni l’assemblea della Rai, e quindi il suo azionista quasi totalitario (il ministero dell’Economia) si troverà un buco imprevisto. Il bilancio 2012 della Rai chiude con una perdita di 244,6 milioni di euro che naturalmente dovranno pagare proprio quegli italiani delusi perfino dalla programmazione della radio-tv di Stato. I costi operativi sono infatti aumentati rispetto al 2011 di 21,5 milioni di euro, ed è una delle ragioni per cui il risultato operativo è crollato (l’altra è l’aumento degli oneri finanziari). In barba a qualsiasi spending review i costi esterni sono aumentati di 34 milioni di euro. E il pancione della Rai non è affatto dimagrito; nel 2011 aveva già quell’organico mostruoso e senza pari nel mondo di 13.133 dipendenti, l’anno successivo è riuscito a crescere a 13.158 dipendenti (25 in più). Un aumento già atipico, ma ancora più rischioso se si osserva come è avvenuto. È diminuito il numero medio dei precari annui in forza all’azienda: i dipendenti a tempo determinato sono infatti scesi da 1.750 a 1.562 l’anno. Quindi 188 in meno. I dipendenti a tempo indeterminato, quelli che quindi costano di più all’azienda (e che poi rimangono attaccati a quella mammella tutta la vita) sono invece cresciuti da 11.383 a 11.596. Quindi 213 in più totalmente a carico del carrozzone della televisione di Stato.
Una situazione incomprensibile, tanto più dopo l’arrivo al vertice Rai di Annamaria Tarantola (ex vicedirettore della Banca d’Italia) e di un manager operativo privato collaudato come Gubitosi. E invece il disastro è servito, e non ci sono grandi speranze di ribaltare la situazione né nell’anno in corso né per il 2014. L’azionista formale della Rai il ministero dell’Economia e quello sostanziale (la platea dei contribuenti italiani) dovranno abituarsi a continui prelievi di sangue come non era avvenuto in viale Mazzini dai drammatici mesi della fine della prima Repubblica, del consiglio di amministrazione dei professori e dei decreti salva-Rai. Nei primi mesi del 2013 infatti la situazione entrate pubblicitarie della Rai è divenuta ancora più critica di quel che non si era verificato l’anno precedente. Di fronte a un budget iniziale di oltre 700 milioni di euro di incassi, il trend sta facendo ipotizzare una forbice oscillante fra 600 e 630 milioni di euro. Quasi altri cento milioni che vengono meno. Nel 2013 i costi operativi non dovrebbero lievitare, anche se cercare come sta facendo oggi Gubitosi di ridurre il personale facendo anche ricorso a scivoli aziendali e ad ammortizzatori sociali, avrà un costo rilevante sia per l’azienda che per la collettività. Ma nel 2014 tornerà a porsi il problema dei diritti sportivi, visto che ci sono i campionati mondiali di calcio in Brasile che vengono vissuti dai contribuenti quasi come un obbligo di servizio pubblico.
Proprio oggi in consiglio di amministrazione Gubitosi illustrerà una nota sul rischio evidente nei conti dell’anno, sulla revisione al ribasso degli incassi della Sipra, e sulla scarsità di risorse esistenti anche per investire sul prodotto e sui diritti televisivi dell’anno successivo. Già nel 2012 questa situazione finanziaria ha seriamente minato anche la solidità dell’azienda, facendo diminuire sensibilmente gli investimenti sia in prodotto che in tecnologie. Gli investimenti in programmi sono scesi da 491,9 a 470,4 milioni di euro (- 21,5 milioni, pari al 4,4%), quelli tecnologici proprio nell’area del lancio di nuove piattaforme sono addirittura crollati da 201,2 a 143,9 milioni di euro (-57,3 milioni di euro, pari al 28,5%). E a dare l’immagine di una fragilità non solo industriale, ma anche patrimoniale allarmante, è stata la posizione finanziaria netta. Era già negativa nel 2011 per 272,4 milioni di euro, l’anno successivo è cresciuta di 93,8 milioni di euro (+34,43%) raggiungendo i 366,2 milioni di euro. In questo modo è stata compromesso il valore stesso dell’azienda, per la cui valutazione pesano sostanzialmente due voci: il fatturato e la posizione finanziaria netta. L’indicatore negativo che rende una azienda più povera è cresciuto, quello positivo che dovrebbe compensare si è ridotto invece di 211,8 milioni di euro, visto che i ricavi Rai nonostante il lievitare di canali sono scesi da 2 miliardi e 998 milioni del 2011 ai 2 miliardi e 786 milioni di euro dell’anno scorso. Se prima di questi tormentati mesi la Rai sembrava valere sul mercato (anche per la scarsità delle posizioni esistenti) una cifra vicina ai 4 miliardi di euro, oggi per venderla bisogna scendere e non di poco sotto i 3 miliardi di euro. Se si aspetta altro tempo per farlo, il rischio è quello di perderci invece di guadagnarci. Tanto più che nessun gruppo privato internazionale sarebbe disposto a rilevare un’azienda con molti vincoli e una struttura talmente gonfiata dalla politica sia nei numeri che nella qualità, da essere resa drammaticamente fuori mercato.